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Filippine, l’incubo Isis e gli sfollati di Marawi

Iligan, importante centro economico della provincia di Lanao del Norte nell’arcipelago di Mindanao, è una città spiccatamente cristiana, con una devozione particolare per l’arcangelo Michele. Da più di tre mesi, suo malgrado, è diventata il quartier generale di tutte le istituzioni – governative, non governative, caritatevoli, militari… – impegnate a vario titolo nella gestione di quella che qui chiamano la Marawi Crisis: la battaglia tra l’esercito filippino e un gruppo di terroristi islamici affiliati all’Isis che, lo scorso 23 maggio, a sorpresa è riuscito a prendere il controllo dell’intera città di Marawi, la città più musulmana di tutte le Filippine.

Il gruppo di miliziani che da più di tre mesi è assediato dalle forze speciali è formato dalla fusione di due cellule terroristiche, attive da anni nelle Filippine meridionali: Abu Sayyaf, guidata da Isnilon Hapilon, l’uomo nominato “Emiro del Sudest Asiatico” dai vertici dell’Isis nel 2016; e il cosiddetto Gruppo Maute, dal cognome dei due fratelli Omar e Abdullah Maute.

La campagna delle due provincie di Lanao – del Norte e del Sur – è ricca di palme da cocco, banani, campi di riso e corsi d’acqua dolce che fanno di queste terre un paradiso naturale votato alla produzione agricola nazionale. Ed è qui, nei 40 km che dividono Iligan e Marawi, che centinaia di migliaia di persone hanno cercato rifugio scappando dal conflitto di Marawi, abbandonando le proprie case in fretta e furia in una migrazione interna che nessuno si aspettava né così imponente, né così duratura.

Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, comunicati dal Dipartimento per il Social Welfare e lo Sviluppo filippino (Dswd), gli sfollati di Marawi sarebbero almeno 360mila: una stima che già supera il numero di residenti della città, lasciando intendere che la crisi ha avuto ripercussioni in tutta la regione.

Con Remil della Ong internazionale Action Against Hunger, che fornisce latrine e kit igienici agli sfollati di una decina di centri tra Iligan e Lanao del Sur, abbiamo raggiunto un piccolo centro di evacuazione di Pantaria, a meno di tre chilometri da Marawi, ricavato dai locali di una scuola coranica (madrasa) a ridosso di una moschea. Sette famiglie allargate, cinquanta persone, si sono divise il pavimento delle classi ricavando dei cubicoli con dei teli di plastica tesi per tutta l’aula…

Il reportage di Matteo Miavaldi prosegue su Left in edicola


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Desaparecidos, la mappa mondiale del terrore di Stato

Non solo Argentina ed Egitto: sono molti gli Stati nei quali la pratica della sparizione forzata è tuttora all’ordine del giorno. Per constatarlo, è sufficiente sfogliare l’ultimo report del gruppo di lavoro sulle sparizioni forzate o involontarie dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr), che si è riunito a Ginevra dall’11 al 15 di settembre per esaminare circa 350 nuovi casi sospetti da 43 diversi Paesi. I quali potrebbero sommarsi al totale di quelli analizzati, 56.363, di cui ben 45.120 tuttora irrisolti.

Il gruppo, formato da cinque esperti indipendenti (Marocco, Corea del Sud, Canada, Argentina e Lituania), si occupa di incontrare parenti e conoscenti di coloro dei quali è stata denunciata una possibile sparizione forzata, di visitare periodicamente le nazioni più “critiche” e di fare pressioni sui governi responsabili perchè la verità venga a galla. Non solo.

In occasione della Giornata nazionale delle spartizioni forzate (30 agosto) è stato chiesto ai governi inadempienti di ratificare la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata. Il documento – del 2006, in vigore dal 2010 – contiene 45 articoli…

L’articolo prosegue su Left in edicola con la mappa delle sparizioni forzate nel mondo


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Desaparecidos, lo psichiatra Masini: La violenza della pulsione d’annullamento non è più sconosciuta

Preparations For The 70th Anniversary Of The Liberation Of Auschwitz-Birkenau OSWIECIM, POLAND - NOVEMBER 15: The infamous German inscription that reads 'Work Makes Free' at the main gate of the Auschwitz I extermination camp on November 15, 2014 in Oswiecim, Poland. Ceremonies marking the 70th anniversary of the liberation of the camp by Soviet soldiers are due to take place on January 27, 2015. Auschwitz was a network of concentration camps built and operated in occupied Poland by Nazi Germany during the Second World War. Auschwitz I and nearby Auschwitz II-Birkenau was the extermination camp where an estimated 1.1 million people, mostly Jews from across Europe, were killed in gas chambers or from systematic starvation, forced labour, disease and medical experiments. (Photo by Christopher Furlong/Getty Images)

Il 20 dicembre 2006 l’assemblea generale delle Nazioni unite ha adottato la “Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata” (risoluzione 61/117). L’Italia l’ha ratificata nell’estate del 2015. Secondo la Convenzione si intende per “sparizione forzata” «l’arresto, la detenzione, sequestro o qualunque altra forma di privazione della libertà da parte di agenti dello Stato o di persone o gruppi di persone che agiscono con l’autorizzazione, il sostegno o l’acquiescenza dello Stato, a cui faccia seguito il rifiuto di riconoscere la privazione della libertà o il silenzio riguardo la sorte o il luogo in cui si trovi la persona sparita, tale da collocare tale persona al di fuori della protezione data dal diritto». Il termine “desaparecidos” venne coniato nel 1978 da Videla. Riferendosi alle migliaia di «sovversivi» scomparsi in Argentina dal 1976 in poi, durante un’intervista televisiva alla Bbc il dittatore argentino affermò impunemente: «Non ci sono né vivi né morti, solo desaparecidos». Queste stesse parole erano urlate con insistenza dai torturatori agli internati nei centri clandestini di detenzione: «Voi qui non siete nulla», «siete senza nome», «non siete né vivi né morti», «non esistete». Dal punto di vista giuridico tutto questo dal 2006 è un crimine e, in alcune circostanze stabilite dal diritto internazionale, rappresenta un crimine contro l’umanità.

Abbiamo chiesto ad Andrea Masini, direttore della rivista di psichiatria e psicoterapia Il sogno della farfalla, se riguardo alla “sparizione” oltre quella giuridica c’è anche una chiave di lettura psichiatrica. «Nella teoria psichiatrica cioè nella teoria della nascita di Massimo Fagioli, la storia della sparizione, intesa come “fantasia di sparizione” è un punto cardine e ha un valore enorme, ma in questo caso la sparizione viene utilizzata in termini assolutamente distruttivi. La dittatura argentina e trent’anni prima i nazisti – prosegue lo psichiatra Masini – hanno colto e sfruttato un meccanismo psichico potentissimo. Che è più forte della violenza fisica che c’è nell’imprigionare, nel torturare una persona inerme. Far sparire una persona è un’aggressione ancora più devastante perché implica la non esistenza di quella persona, la perdita di qualunque diritto. Un detenuto “normale” si può appellare a tante cose, può parlare con un avvocato, può fare ricorso, può incontrare i familiari. Una persona che è stata fatta scomparire non ha alcuna possibilità di difendersi. Inoltre, dal punto di vista psichiatrico, l’azione di far sparire qualcuno è un concetto diverso».

Vale a dire?

Lo psichiatra Massimo Fagioli ha sempre parlato di pulsione di annullamento.

L’intervista allo psichiatra Andrea Masini prosegue su Left in edicola


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Enrico Calamai: Dall’Argentina alla Libia la strage delle “non persone”

BARCELONA, SPAIN - FEBRUARY 18: Lifejackets in the beach during a simulation in front of the beach of Barcelona while thousands demonstrate in support of refugees and the opening of borders, under the slogan "Volem Acollir" (We want to welcome) in Barcelona, Spain, on February 18, 2017. (Photo by Albert Llop/Anadolu Agency/Getty Images)

Non solo non vengono considerati dei cittadini, ma nemmeno uomini, non gli viene cioè riconosciuta la personalità umana» dice Enrico Calamai dei casi di desaparición nell’America Latina ma anche di quelli, diversi, ma simili per certi aspetti, dei migranti e dei rifugiati “fatti sparire” nei campi di detenzione in Libia o scomparsi nelle acque del Mediterraneo. Ha tutte le carte in regola per affermarlo, il diplomatico italiano in Argentina ai tempi della dittatura militare di Videla. A Buenos Aires – ma prima si era trovato in Cile durante il golpe di Pinochet -, il giovane vice console Calamai riuscì a salvare centinaia di connazionali perseguitati dal regime, come ha raccontato nel libro Niente asilo politico. Alcuni anni fa è stato uno dei promotori del comitato Giustizia per i nuovi desaparecidos, stabilendo un’analogia tra le sparizioni dei giovani oppositori di un regime ben definito come quello argentino e la scomparsa dei migranti vittime della politica degli Stati europei e dei Paesi Nato.
Enrico Calamai, partendo dalla sparizione dell’attivista Santiago Maldonado, che impressione le fa sentir parlare ancora di desaparición in Argentina?
Premetto che conosco poco l’Argentina di oggi. So però che c’è un governo neoliberista e che il neoliberismo è l’opposto del rispetto dei diritti umani con politiche che sono al limite fra il rispetto e l’abuso dei diritti umani. So che ci sono tanti casi di abuso aperti, sfrontati, voluti, come minaccia in un Paese in cui queste violazioni in passato sono state massicce e lasciano ancora oggi un’ombra di terrore sulla popolazione. Nel caso di questo ragazzo non so esattamente cosa possa essere successo, certo, il governo argentino non risponde alle sollecitazioni che vengono dalle Nazioni unite. E la cosa triste è che mi pare che neanche tanti governi europei facciano pressione. Tra questi c’è anche quello italiano. Se Roma facesse un passo diplomatico serio, duro, negoziato con gli altri partner comunitari, verso il governo argentino, qualcosa di più si verrebbe a sapere. A questo proposito mi viene in mente una realtà totalmente diversa come la sparizione di Giulio Regeni. Soltanto quando il governo italiano…

L’intervista di Donatella Coccoli a Enrico Calamai prosegue su Left in edicola


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Sparire in democrazia per mano dello Stato

TOPSHOT - People march during a protest for Santiago Maldonado, who disappeared on August 1st during a Mapuche protest in Chubut province, during a demonstration called by human rights associations asking for his whereabouts, in downtown Cordoba, Argentina, on September 1, 2017. Maldonado disappeared last August 1 when the Gendarmerie dispersed a Mapuche protest in the Pu Lof community, Resistencia, Cushamen Department, some 1850 km southwest of Buenos Aires. He is said to have last been seen being put into a military police vehicle by officers who broke up a demonstration in the southern province of Chubut. / AFP PHOTO / EITAN ABRAMOVICH (Photo credit should read EITAN ABRAMOVICH/AFP/Getty Images)

Questo è quanto sappiamo fino al momento di andare in stampa: il primo agosto 2017 Santiago Maldonado – un artigiano tatuatore di 28 anni – è sparito dalla faccia della terra. Si trovava a Cushamen, nella provincia di Chubut, con i suoi nuovi amici i mapuche della comunità Pu Lof. Siamo in Argentina. Quel giorno i mapuche avevano organizzato una manifestazione di protesta, più simbolica che volta allo scontro, per richiamare l’attenzione sul caso del loro leader Facundo Jones Huala in carcere da un mese. Per tutta risposta, i manifestanti sono stati attaccati da più di un centinaio di militari della gendarmeria locale. I gendarmes sparavano proiettili di gomma e di piombo: si trattava di un attacco illegale sul territorio dei nativi. Infatti nessun giudice li aveva autorizzati a farlo. Durante l’incursione, alcuni mapuche sono fuggiti attraversando un fiume. Santiago Maldonado ha tentato di fare la stessa cosa, ma non è stato in grado per un motivo molto semplice: non sapeva nuotare.

Secondo i testimoni che hanno già deposto davanti al giudice, l’ultima volta che è stato visto Maldonado è stato preso e malmenato dalle guardie (le sue ultime parole documentate sono state: «Fermatevi, basta»), prima che il suo corpo fosse buttato su un fuoristrada (Unimog) che poi si è allontanato. Da allora e per più di un mese, l’Argentina ha assistito incredula alla messa in scena della presidenza Macri: un’operazione formidabile che mette insieme tattiche diversive, distruzione di prove a carico e diffamazione, con il sostegno prezioso dei nostri media più potenti. Sebbene molte organizzazioni per i diritti umani abbiano immediatamente reagito, reclamando l’habeas corpus già il giorno dopo, la giustizia ha proceduto a passo ridotto (il giudice Otranto ha un motivo per indugiare: ha fatto una domanda di promozione che richiede l’approvazione di Macri). La gendarmeria prima ha negato l’esistenza di quel fuoristrada. Ma è stata smentita dalle impronte che il veicolo ha lasciato sul terreno dei mapuche. Dopo di che ha mostrato un paio di veicoli che erano già stati puliti, tirati a lucido come uno specchio.

I giornali Clarin e La Naciòn con le loro televisioni – praticamente non ci sono voci indipendenti nel nostro panorama mediatico, con poche eccezioni che Macri sta strozzando economicamente – hanno iniziato la campagna denigratoria: Maldonado non era a Cushamen, Maldonado è stato visto in Cile, Maldonado era stato visto a Entre Rìos da un camionista, Maldonado apparteneva alle Farc della Colombia, Maldonado ha legami di sangue con l’ex genero di Cristina Kirchner, Maldonado è una spia addestrata dai Curdi, Maldonado è fuggito via in macchina con un paio di esponenti di media amici, Maldonado era un hippie buono a nulla e pertanto la sua vita era inutile. L’intera comunità Mapuche è stata messa alla gogna. I media hanno affermato che non erano nemmeno argentini, ma cileni, spingendosi oltre etichettandoli tutti facenti parte di un gruppo chiamato Ram (Resistencia ancestral mapuche), descritta come una «pericolosa» cellula terrorista con legami internazionali e finanziata da associati di dubbia fama (alcuni asseriscono persino che i Ram siano finanziati da flussi di denaro inglesi), quando non sono altro che un gruppo etnico senza potere. Per sottolineare la loro indole sinistra, il ministro delle Sicurezza, Patricia Bullrich (una ex esponente Montonera degli anni 70, che si è riproposta quale rediviva esponente della destra che ama indossare la divisa di soldato e ordinare le percosse sui dimostranti), ha mostrato le fotografie dell’“arsenale” dei Ram appena catturati: un paio di accette, una falce, alcune banconote di piccolo taglio.
La demonizzazione dei Mapuche è riuscita solo a sottolineare il problema che spiega non solo la sparizione forzata di Maldonado…

L’articolo di Marcelo Figueras prosegue su Left in edicola


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Attentato alla metro di Londra, 22 feriti. L’esperto: «Potrebbe essere un segno di debolezza dell’Isis»

epa06205989 A forensics officer works at the scene of an incident on the District line in London, Britain, 15 September 2017. A bomb exploded on an underground train near the 'Parsons Green' station injuring a number of people in an apparent terror attack. Emergency services have responded to reports of an explosion on an underground tube train. Media reports citing Scotland Yard say that the explosion on the train is being treated as terrorism. EPA/ANDY RAIN

Il bilancio dell’esplosione all’interno della metropolitana di Londra, avvenuta stamattina alle 8.20 in un treno all’altezza della fermata Parsons Green, è di 22 feriti. Diciotto di loro sono stati trasportati dal London ambulance service, intervenuto sul posto dopo pochi minuti, altri quattro si sono presentati autonomamente presso gli ospedali della capitale britannica, come conferma il Servizio sanitario nazionale del Regno Unito. Nessun ferito è in pericolo di vita. La maggior parte di loro hanno riportato ustioni.

Scotland Yard ha confermato che si tratterebbe di un «attacco terroristico», causato da un «ordigno improvvisato» (in gergo tecnico un “Ied”, improvised explosive device), che sul quale si stanno ancora svolgendo analisi forensi.

Le indagini vengono condotte dal nucleo anti-terrorismo della polizia metropolitana, le indagini sono sostenute dai colleghi dell’Mi5, i servizi segreti britannici. La premier Theresa May ha trasmesso la sua vicinanza ai feriti, e ha subito convocato un incontro d’emergenza del comitato Cobra, l’unità di crisi del governo britannico.

Il sindaco di Londra Sadiq Khan ha dichiarato:«La nostra città condanna gli orribili individui che cercano di utilizzare il terrore per danneggiarci e distruggere il nostro stile di vita». E, ai microfoni di radio Lbc, ha affermato che è in corso una caccia all’uomo, senza specificare altri dettagli. Per il momento, la polizia metropolitana non ha confermato nessun arresto.

Alcuni passeggeri hanno dichiarato di essere stati colpiti da una «palla di fuoco». Si tratterebbe di un ordigno che è esploso solo parzialmente, collegato ad un timer, nascosto all’interno di una busta della spesa.

https://twitter.com/andyjohnw/status/908596138537779200

L’ordigno è stato ripreso anche da un video amatoriale, circolato su vari network internazionali.

Renzo Guolo, professore di sociologia dell’Islam presso l’Università di Padova, ai microfoni di Rai News24 ha sottolineato come «l’Isis non è più in grado di operazioni “in grande stile”, tipo il Bataclan» e come questo attacco sia frutto della «fase di acuta debolezza dello Stato islamico in Medio oriente legata alla fine della sua esperienza statuale». Questo declino però «non porterà alla fine del radicalismo jihadista». «Tanto più lo Stato islamico viene ridimensionato, tanto più assisteremo a gesti “in scala minore”, ma non per questo meno pericolosi», conclude Guolo.

Si tratta del quinto attacco terroristico che ha colpito Londra da marzo scorso, quando una auto guidata da Khalid Masood si è lanciata sulla folla sul ponte di Westminster: morirono 5 persone, oltre al terrorista.

Il Guardian sta seguendo in diretta gli sviluppi delle indagini, con aggiornamenti costanti.

 

A caccia di Kim Jong-un. Usa e Corea del sud addestrano la “decapitation unit”

epa06205604 Pedestrians walk under a large-scale monitor displaying North Korean leader Kim Jong-un on a TV news broadcast in Tokyo, Japan, 15 September 2017. Earlier in the day, North Korea launched a ballistic missile over Japan that reportedly crashed in the Pacific Ocean, more than 2,000km east of the Japanese northern island of Hokkaido. There are no immediate reports of damage. According to reports quoting the South Korean and Japanese governments, the missile was purportedly fired from the North's capital Pyongyang. At the request of the USA and Japan, the United Nations (UN) Security Council will meet on 15 September. EPA/KIMIMASA MAYAMA

L’ultima volta che ci hanno provato, è andato tutto storto. Quando hanno pianificato l’assassinio della leadership del Nord, in Sud Corea nulla è andato come doveva. Erano gli anni ’70 e i comandanti nordcoreani progettavano di assaltare il palazzo presidenziale nemico a Seul. Intanto, i vicini del sud addestravano uomini – acrobati, vagabondi, lustrascarpe, galeotti in cerca di redenzione- per attraversare il confine a nord e tagliare la gola del leader, all’epoca Kim Il Sung. La missione abortì, seguì un ammutinamento: acrobati e lustrascarpe uccisero chi li addestrava e si fecero saltare in aria nella capitale sudcoreana. Non a nord. Erano membri dell’Unità 684: la chiamavano così.

Questa è la storia della vecchia “unità decapitazione” che doveva uccidere suo nonno, ma ora Kim Jong-un ne ha una tutta per lui. È quella che sudcoreani e americani alleati oltre confine, dopo le esercitazioni militari congiunte, chiamano la “decapitation unit”, che dovrebbe attraversare il confine di notte, compiere un raid, anche aereo, usando elicotteri e penetrare nell’impenetrabile per uccidere Kim.

L’ultimo drammatico passo dell’escalation nella penisola è il missile di Pyongyang che ha sorvolato il Giappone e l’isola di Hokkaido prima di cadere nell’oceano Pacifico ieri. È stato lanciato alle 6.57 ora locale ed è sprofondato negli abissi alle 7: 16 del mattino. Durante quei minuti, in cui viaggiava a 3.700 km orari, a 770 km di altezza, l’America e il Giappone hanno parlato a telefono con i paesi confinanti e l’hanno definita una “provocazione intollerabile”.

Per quanto raro sia che un governo annunci pubblicamente la sua strategia a quello nemico, il sud è riuscito nell’intento di innervosire il nord, che continua a far aumentare il suo arsenale. Tutto questo ha un fine: far si che Kim accetti il dialogo con il presidente sudcoreano appena eletto, Moon Jae In. Far si che Kim tema per la sua vita e non quella della sua nazione, è un deterrente che potrebbe spingerlo ad intraprendere una soluzione diplomatica nell’intricata escalation militare e nucleare della penisola.

Rashomon

Alle volte è difficile spiegare perché è fondamentale che perlomeno ci si interroghi sulla realtà umana e in particolare sulla realtà del pensiero, perché una sinistra possa esistere. Qual è la verità? Quale pensiero è giusto e quale sbagliato? Come fare ad orientarsi? Come decidere cosa è vero e cosa è falso? Il pensiero scientifico moderno ha sviluppato un metodo, di pensiero e di processo, per decidere se una teoria sia una rappresentazione corretta della realtà oppure no, ossia se una teoria è vera o falsa. Se dico che la terra gira attorno al sole seguendo un orbita ellittica in cui il sole occupa uno dei fuochi c’è un metodo di lavoro che permette di verificare se questa teoria è corretta oppure no. La realtà della natura si manifesta nell’esperimento.

Esiste una oggettività che non è discutibile. In altre parole la realtà non mente mai. Gli scienziati hanno compreso la natura perché l’hanno interrogata. I grandi esperimenti scientifici sono come delle aule di tribunale dove gli scienziati interrogano la natura. Si ascoltano voci flebilissime, si seguono tracce pressoché invisibili, si usa il pensiero logico deduttivo per vedere quello che non si può vedere. I risultati sperimentali sono le “prove” scientifiche, la teoria il teorema accusatorio, la comunità scientifica internazionale è il giudice che dovrà stabilire in base ai risultati sperimentali se una teoria è verità oppure no. Il principio di non contraddizione regna sovrano nella scienza della realtà materiale. Cosa si può dire per il pensiero umano?

Esiste una verità? Esiste un pensiero corretto e uno non corretto? Le possibilità del pensiero sono infinite. Come si può decidere se un pensiero è vero o falso, se è giusto o sbagliato? Come decidere se un pensiero sia una fantasia geniale oppure no? Non è solo una questione filosofica o psichiatrica. È anche una questione politica. Certamente possiamo affermare che c’è un pensiero malato e un pensiero sano. La malattia mentale esiste. Ma qual è la sua caratteristica? Il malato conclamato è evidente nella sua dissociazione più o meno manifesta. Ma c’è anche una malattia invisibile che magari si manifesta all’improvviso, come spesso capita di leggere sui giornali. Come si riconosce? Quali sono i pensieri nascosti del malato? Per esempio come possiamo valutare il pensiero di chi apprezza che si impedisca ai migranti di venire in Europa? Chi dice questo, sono persone normali, come noi. Magari ottime persone per mille altri motivi. Come facciamo noi ad affermare che abbiamo ragione noi e non loro? Per la gran parte delle persone è solo un pensiero, non c’è azione fisica. Come si può affermare che sia un pensiero sbagliato? Che non sia una semplice opinione?

C’è un vecchio film di Akira Kurosawa: Rashomon. La storia accade a seguito di un temporale: tre persone, un monaco, un boscaiolo ed un viandante, si trovano ad aspettare che la pioggia finisca sotto la porta di accesso alla città di Kyoto ed ognuno di essi racconta la sua versione di un assassinio. Le immagini raccontano quattro storie tutte diverse. Sono i diversi punti di vista di chi era presente al fatto. Qual è la verità? Ce ne sono tante quanti sono i personaggi più lo spettatore che deve decidere qual’è la verità. Ognuno di essi ha mentito. Ognuno di essi racconta la propria verità per un proprio tornaconto personale. Non sembra esserci speranza. Non sembra esserci una possibile oggettività umana. Ma ecco che il grande artista Kurosawa ha l’idea geniale.

Finito l’ultimo racconto si ode il pianto di un bambino appena nato. Un ladro gli sta rubando la coperta in cui è avvolto. Nessuno dei presenti ha alcun dubbio o incertezza. Il bambino non si tocca. Perché il bambino è verità umana. Ed è un fatto universale. È una verità inconfutabile, oggettiva. Al di là di ogni verità personale. Questa semplice idea, che la nascita del bambino sia una realtà universale uguale per tutti, è la grande idea. Ciò che può permetterci di separare il grano dal loglio, che può farci stabilire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, cosa sia buono e cosa sia cattivo, cosa sia sanità e cosa malattia. Perché ci permette di capire cosa sia realtà umana e cosa non lo sia e quindi cosa sia violenza e cosa non lo sia. È il frutto dell’albero della conoscenza, ciò che permette di distinguere il vero dal falso. Perciò comprenderla è fondamentale.

Per questo il dio dei monoteismi proibisce che l’uomo la abbia. Perché è la nascita che fa il pensiero dell’essere umano. È una dinamica universale, caratteristica unica dell’essere umano, scoperta e teorizzata da Massimo Fagioli nel 1972. È la possibilità di avere un pensiero nuovo, chiaro e certo su qual è la verità umana e quindi di fare una politica nuova, con idee chiare e certe. Una politica finalmente di Sinistra.

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola


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La colpa è di Cappuccetto Rosso che si ostina ad attraversare il bosco

Quando una reazione, anche se corale, non vi convince allora insistete. Sempre. Perché la coralità spesso potrebbe nascondere comunque una deformazione che forse vale la pena sottolineare, almeno per provare a parlarne. Vi rubo qualche minuto: nella settimana che l’informazione e la politica sta dedicando tutta agli stupri (alcuni più alla colorazione degli stupratori, altri più concentrati su una presunta faciloneria alcolica delle stuprate) le donne (le vittime, poi, a ben vedere) sono scomparse. Non c’è tifo per loro, né da una parte né dall’altra: gli opposti schieramenti si scornano sugli stupratori. Funziona sempre così: gli avvoltoi si cibano con brandelli di pornografia, dandosi di gomito sul cameratismo e fregandosene delle stuprate.

Ma c’è un altro aspetto ancora più inquietante: consapevoli di avere esagerato con le strumentalizzazioni gran parte degli editorialisti ha dedicato la giornata di ieri al finto pietismo e a una diffusa preoccupazione simulata che forse ha fatto ancora di peggio. Sono comparsi, qua e là, addirittura articoli che vorrebbero essere veri e propri «manuali delle buone maniere per non farsi stuprare» come nel caso de Il Messaggero che propone campagne di informazione «per mettere in guardia turiste e studentesse che arrivano per la prima volta a Roma» e altre amenità come il non mettersi «in situazioni pericolose» e la necessità di conoscere «i rischi e le debolezze del destino femminile» come se ancora essere una donna sia una malattia.

In generale, tra certa stampa e certa televisione, gira quest’aria per cui sta alle donne imparare in fretta come stare all’erta (“educhiamo le ragazze alla diffidenza” è il titolo dell’articolo di Valentina Saini per Gli Stati Generali) e imparare come stare alla larga da un delitto da cui conviene stare lontani, mica sradicarlo. Sarebbe come leggere domani un editoriale in cui si consiglia a tutti di non acquistare auto (peggio ancora: belle auto) per poi lamentarsi nel caso di furto; più o meno come mandare in onda un servizio al telegiornale in cui si consiglia di non essere troppo intelligenti per non attirare antipatie; oppure immaginate un processo per omicidio in cui alla vittima viene messa a carico la colpa di essersi fatta ammazzare senza nemmeno un’arma in tasca o almeno un giubbotto antiproiettile.

La colpa, insomma, non è mica del lupo: la colpa è di Cappuccetto Rosso che si ostina ad attraversare il bosco.

Buon venerdì.

Bergoglio e i migranti nuovi desaparecidos

Bergoglio benedice la linea di Minniti e la tolleranza zero nei riguardi delle Ong colpevoli di «estremismo umanitario», ovvero di fare tutto il possibile per salvare vite umane. Di più: il papa raccomanda «prudenza» nell’accogliere migranti e rifugiati che scappano da guerre, devastazioni, carestie, epidemie… «Non si possono accogliere tutti». Ipse dixit. I giornali di destra esultano. La sinistra che non perde occasione di citare il papa aprirà gli occhi? La maschera è caduta. Bergoglio finalmente dice ciò che pensa e da sempre fa, in accordo con la legislazione vigente in Vaticano, blindatissimo rispetto a migranti e rifugiati. Ritroviamo in queste recenti esternazioni del pontefice in viaggio dalla Colombia quel tono tutt’altro che misericordioso che in passato gli abbiamo sentito usare in più occasioni. «Se uno mi offende la madre gli do un pugno» ebbe a dire nel gennaio del 2015 dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo. Puntando il dito contro gli evasori fiscali nel 2013 disse che andrebbero gettati in mare. Evocando l’immagine da brivido di quei voli della morte che negli anni 70 in Argentina furono usati dalla dittatura per far sparire nel nulla una intera generazione di giovani oppositori al regime di Videla. All’epoca Bergoglio era il capo dei gesuiti argentini.

Ora quella storia agghiacciante, che speravamo di poterci lasciare definitivamente alle spalle, purtroppo, si riaffaccia. Il caso di Santiago Maldonado, attivista pro indios Mapuche è tragicamente emblematico: di lui non si sa più nulla dopo l’arresto avvenuto il primo agosto. Lo scrittore argentino Marcelo Figueras in queste pagine ricostruisce questo nuovo caso di desaparición che getta inquietanti ombre sulla amministrazione Macri. Il presidente dell’Argentina ha demonizzato i Mapuche, colpevoli di rivendicare le proprie terre che oggi fanno gola a grandi gruppi commerciali. Milagro Sala intanto è ingiustamente detenuta ormai da quasi due anni e il caso di Santiago non è l’unico. L’atlante della nuova desaparición è vasta: comprende l’Argentina, il Messico, l’Egitto e oltre. Appare subito evidente se si mettono insieme le denunce di Amnesty international e quelle di altre organizzazioni che lottano per i diritti umani. La sparizione forzata di Maldonado denunciata su Left anche da Estela Carlotto, presidente delle Abuelas di Plaza de Majo trova analogie in Egitto, dove spariscono tre persone al giorno. Ed è “svanito” dal web il sito che di giorno in giorno tracciava il quadro delle sparizioni di Stato. Anche Giulio Regeni è stato desaparecido prima che ne venisse ritrovato il cadavere. Il governo di Al-Sisi non ha fornito informazioni necessarie a fare giustizia. Nonostante ciò il ministro Minniti, lo stesso del codice di comportamento delle Ong, ha deciso di rimandare al Cairo l’ambasciatore italiano. E qui torniamo all’inizio. Il cerchio drammaticamente si chiude nel Mediterraneo dove non si contano nemmeno più i migranti che sono desaparecidos. Annegati in mare, dispersi nel Sahara, inghiottiti dai lager libici, dove i diritti umani non hanno alcuna cittadinanza, come hanno documentato gli attivisti di Medici senza frontiere.

Illuminanti, nelle pagine che seguono, sono le parole di Enrico Calamai, l’ex diplomatico dell’Ambasciata italiana a Buenos Aires che riuscì a far fuggire in Italia 412 persone e che oggi si batte per ottenere verità e la giustizia per i nuovi desaparecidos nel Mediterraneo. La dittatura civico militare argentina non si accontentava di torturare e uccidere, ma puntava a far sparire la persona; il corpo doveva scomparire e così la memoria dei giovani oppositori, come se non fossero mai esistiti. Allo stesso modo i nazisti, con la soluzione finale, avrebbero voluto cancellare l’esistenza degli ebrei dalla storia. «Far sparire significa la non esistenza. Viene agita una violenza che è più forte di quella fisica», dice lo psichiatra Andrea Masini in questo nuovo numero di Left. Per capire quel che accadde e quel che sta accadendo occorrono lenti nuove.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola


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