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Debutta Tempo di Libri. Con il Lercio day

Gli spazi di Tempo di Libri a Rho

Tempo di Libri si presenta con una flotta di autori mainstream da Nesbo, Cameron a Ildefonso Falcones e Roberto Saviano più qualche voce di maggiore impegno come David Grossman e Carlo Lucarelli.  Mentre Michela Murgia presenta uno spettacolo scritto da Marcello Fois dedicato a Grazia Deledda. E poi i racconti di Fancesca Manfredi, autrice esordiente e già lanciatissima su mercati internazionali. «Per i settant’anni di Stephen King abbiamo commissionato a Filippo Timi un monologo dedicato a Shining e lo abbiamo intitolato Datemi un triciclo», dice la scrittrice Chiara Valerio che ha curato il programma delle presentazioni, orgogliosa di annunciare che la fiera oltre che presentare il catalogo di numerose case editrici avrà anche uno spazio edicola, con Robinson di Repubblica, la Lettura del Corriere, Tuttolibri de La Stampa, Rivista Studio e Il Lercio.

Dal 19 al 23 aprile a Tempo di Libri, nello spazio fiera di Rho, ci saranno 720 incontri (i più interessanti si trovano nella sezione off). A meno di un mese di distanza dal Book Pride, la vivacissima fiera degli editori indipendenti in Italia che si svolge a Milano dal 24 al 26 marzo e un mese prima del Salone del libro che si svolgerà dal 18 al 21 maggio a Torino, con una coraggiosa edizione del trentennale. Scongiurato l’iniziale pericolo che Tempo di Libri si sovrapponesse alle date torinesi per un insensato gioco di contrapposizione da parte dell’Aie in cui a farla da padrone erano i grandi gruppi editoriali a scapito della piccola e media editoria, possiamo più serenamente raccontarne le novità. Cominciamo dai numeri. Davvero imponenti: nello spazio fiera di Rho di saranno 437 espositori italiani e di sei Paesi stranieri, 720 incontri con più di 2000 autori. Il calendario di presentazioni di libri legate a un vocabolario messo a punto della direttrice artistica Chiara Valerio. Dalla A alla Z passando per la J, di Jane Austen di cui quest’anno ricorre il bicentenario dalla morte. Un programma fitto di appuntamenti, «non esistono pillole per  Madame Bovary, non esiste una piccola per i libri richiedono tempo. Diamo tempo ai libri», dice prendendo la rincorsa Chiara Valerio per tagliare il nastro.

Intanto la nascita di Tempo di Libri ha già terremotato il mondo dell’editoria italiana. La sua nascita ha generato un vero e proprio sisma. Più di settanta editori piccoli e medi, per protesta contro la decisione dell’Aie di lasciare la Fondazione del Libro di Torino e di far nascere questa nuova fiera, hanno deciso di lasciare l’associazione degli editori, iniziando un percorso per darsi una nuova organizzazione. Il primo appuntamento è stato l’8 settembre 2016 in una riunione al Circolo dei lettori. In quell’occasione gli editori hanno dato vita all’Associazione Amici del Salone Internazionale del Libro di Torino, inizialmente «per diventare interlocutori nell’organizzazione e ideazione del rinnovato Salone del 2017. La fiera dell’editoria nata fra le polemiche con il Salone del libro di Torino, fortemente voluta dagli editori che per farla hanno creato una nuova società con Fiera Milano. Il sostegno dell’Associazione ha dato la forza alla Fondazione e alle Istituzioni che ne sono socie per respingere il tentativo di far sparire la manifestazione torinese o ridurla a un festival letterario», così si legge nella nota di presentazione dell’associazione, firmata dal presidente dell’associazione Sandro Ferri (edizioni E/O), da Isabella Ferretti (66thand2nd, segretario generale), Anita Molino (Il leone verde, tesoriere),Pietro Biancardi (Iperborea), Gaspare Bona (Blu Edizioni/Instar Libri), Antonio Sellerio (Sellerio editore), Marco Zapparoli (Marcos y Marcos).

Si può dire che certe affermazioni di Meloni&co sono razziste. Lo dice il tribunale di Roma

+++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++ Il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, in una immagine tratta dal suo profilo Facebook. ANSA/FACEBOOK GIORGIA MELONI

Forse vi ricorderete l’immagine di Giorgia Meloni imbavagliata sotto palazzo Chigi. Protestava, Meloni, contro l’Unar, l’Ufficio contro le discriminazioni razziali e sessuali del Governo, all’epoca presieduto da Marco De Giorgi. L’Unar aveva la grave colpa di aver richiamato la leader di Fratelli d’Italia a non abusare di stereotipi nelle sue crociato sull’immigrazione.

Era settembre 2015, ma l’immagine torna oggi di attualità. La notizia è minore, secondaria, ma non per noi di Left.

De Giorgi fu infatti lasciato solo dal governo che anzi, scaduto il suo mandato, tardò molto a nominare un sostituto. Qualcuno però cercò di sostenere le ragioni dell’Unar. E tra questi c’era Andrea Maccarrone, attivista contro le discriminazioni, all’epoca presidente del circolo di cultura omosessuale Mario Mieli. Che però si è beccato una querela da Meloni, accusato di diffamazione a mezzo stampa, di averle dato della razzista, prima con un comunicato più lasco poi con un secondo in cui lanciava un hashtag effettivamente più esplicito #MeloniRazzista.

Bene. Il gup di Roma ha prosciolto Maccarrone: Meloni potrà ricorrere, ma per ora siamo contenti per lui. Siamo contenti, soprattutto, per il diritto di critica, il diritto alla polemica politica, e la libertà di poter chiamare le cose con il loro nome, se non si ricorre all’insulto.

Di poter dire che certe posizioni – come quella di selezionare gli immigrati in base alla religione – sono sì razziste. E poggiano su stereotipi e banalizzazioni, tossine pericolosissime per il dibattito pubblico.

Io sono più sovranista di te: la destra italiana litiga e insegue Le Pen e Trump

Un cartello per Salvini con Benito Mussolini, manifestazione della Lega Nord contro il Governo Renzi, Piazza del Popolo, Roma, 28 febbraio 2015 (ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)

Tra le manifestazioni che attraverseranno Roma (e non solo) sabato prossimo in occasione del vertice che celebrerà i 60 anni dei Trattati europei ce ne sarà anche una del polo sovranista. E se non sapete cosa esso sia, vuol dire che non leggete i tagli bassi dei giornali. Si tratta di un nuovo partito, una riedizione postuma del Movimento sociale, che può finalmente tornare a essere se stesso: Alemanno, Storace e Scopelliti, tutti semi scomparsi dalla politica dopo pessima gestione e vicende poco giudiziarie edificanti. Tutti parte dell’ala destra e sociale dei post-fascisti nazionali del dopoguerra. Quella cresciuta negli anni 70. La nuova ragione d’essere per loro, che hanno tenuto un congresso fondativo a febbraio è quella della difesa del suolo patrio dall’invasione di Bruxelles e di quella dei maledetti barconi di immigrati. «Siamo contro i finanzieri. Abbiamo gioito per il No al referendum, per la Brexit e goduto per l’America» ha detto Storace parlando alla platea durante il Congresso. Che gli eredi del fascismo finissero per avere come eroi il presidente americano e quello russo nel nome del sovranismo nazionale è qualcosa che se lo aveste detto nel 1989, vi avrebbero riso in faccia.

Nel simbolo torna la fiamma tricolore, tra i padri fondatori a cui fare riferimento ci sono Almirante, Rauti, Alemanno, Teodoro Buontempo. Tra i fari internazionali, come vedete nello spot qui sotto, Donald Trump, Marine Le Pen, Geert Wilders, Frauke Petry. Il tentativo di questa vecchia costola della destra è quello di cavalcare nella maniera più rozza possibile un’onda di anti-europeismo e di timori per il futuro e l’orgoglio nazionale rappresentato dal tricolore, le frecce tricolori. Nello spot manca Tardelli che segna il 3 a 1 alla Germania nel 1982. Del resto,in tribuna c’era il presidente partigiano Pertini, mica l’ex repubblichino Almirante. L’operazione è comunque nel solco di una certa destra che si vuole popolare: più provincia e periferie (Teodoro Buontempo era un capopopolo a Ostia, non un avvocato fascista dei Parioli).

La nascita del Polo sovranista non è piaciuta ad un altro movimento che si vuole molto attivo, che è in relativa crescita – e che ogni volta che si presenta alle elezioni va molto sotto alle sue aspettative e visibilità. Anche Casa Pound infatti vuole un’Italia Sovrana e il 25, invece di essere a Roma sarà a L’Aquila. La retorica dei gruppi guidati da Simone Di Stefano. Nei mesi la propaganda e la retorica di Casa Pound somiglia sempre più a una retorica fascista: dai fascisti del terzo millennio che imitavano in ogni cosa le pratiche dei centri sociali, siamo al ritorno delle aquile e della madri nazionali. Il manifesto che convoca la manifestazione (e poi il concerto) de l’Aquila è inequivocabile in questo senso.

L’attenzione di Casa Pound sembra oggi diretta a una sovranità intesa come difesa della razza. La campagna che portano avanti è quella per una legge di iniziativa popolare denominata Reddito nazionale di natalità: ovvero 500 euro al mese dalla nascita ai 16 anni di età per i figli di genitori italiani (sono esclusi immigrati e persone che vivono in case mobili….vi viene in mente a chi si faccia riferimento? Già, i maledetti zingari). Non c’è differenza di reddito: soldi per quasi tutti, basta che siate italianissimi, che l’obbiettivo è preservare l’italica razza (quella che si è forgiata con il sangue dei popoli italici, dei normanni, dei longobardi, degli arabi, degli ebrei, dei francesi, degli spagnoli….). Il problema politico di CasaPound è però diverso: Di Stefano e camerati sono arrabbiati perché la nascita del polo sovranista e il blocco di destra Salvini-Meloni gli ruba le idee. «Abbiamo registrato i marchi e gli slogan sovranità e Prima gli italiani» dichiara in un’intervista a Il Primato nazionale, che Salvini ce le ruba per poi fare accordi con Berlusconi e Verdini. Già, l’alleanza strumentale di Salvini con CasaPound (chi non ricorda una manifestazione unitaria a Piazza del Popolo?) è andata a farsi benedire perché il leader leghidta non ha rotto con la vecchia guardia del suo partito. E quindi carta bollata e dichiarazioni al vetriolo: «Oggi ci ritroviamo con questa ipotesi di un listone che chiederà il voto per la sovranità, ma poi farà eleggere tanti tromboni secessionisti della vecchia Lega, personaggi improbabili e democristiani al sud, e magari al centro la Meloni che scalpita per trovare un posto da ministro in vista del grande pareggio».

La verità infatti è che il buon Matteo, che un tempo era un sovranista del Nord, sebbene la faccia più destrorsa e anti immigrazione e meno valligiana, sta togliendo lo spazio vitale a tutto quanto c’è alla sua destra. Gli obbiettivi negativi sono Bruxelles e gli immigrati, la retorica la stessa dei partiti populisti europei, con i quali però le relazioni sono forti e costanti. Il polo sovranista, in fondo, è quello che si è incontrato a Coblenza qualche settimana fa. Salvini sa che su quei temi: islamofobia andante e anti-europeismo, il più forte è lui. E per questo punta su una terza cosa: più pistole per tutti per difendersi dai clandestini che ci rapinano a tutte le ore del giorno. Che i reati siano in diminuzione è un problema secondario. Del resto, se Minniti fornisce dati non precisi sugli sbarchi (e fa proiezioni improbabili), non si vede perché Salvini non debba spararle sui reati.
Quanto alla retorica nazionale, Di Stefano ha ragione: il Matteo ha dichiarato a In mezz’ora di Lucia Annunziata che vuole lavorare a un’alleanza che abbia come slogan (o nome) “Prima gli italiani”. C’è poco da fare, quella è proprio retorica fascistoide e Salvini è un copione. Ma a dire cosa e come si muoveranno tutti questi fronti, a dire il vero, sarà la legge elettorale e il livello di proporzionale che conterrà.

PS Cercando in rete abbiamo scoperto che c’è anche un Fronte sovranista. Siete circondati.

Il bailout greco: alta tensione tra lettere-bomba, incomprensioni e ambiguità

epa04848890 The Greek flag is binded up with a parcel string to illustrate the topic 'bailout package' in Kaufbeuren, Germany, 16 July 2015. With the ECB having already said 16 July 2015 that it left its benchmark refinancing rate on hold at an historic low of 0.05 per cent, ECB has decided to boost emergency aid - namely the Emergency Liquidity Assistance (ELA) scheme - to Greece's crisis-hit banks after the parliament in Athens agreed overnight to a round of tough reforms. EPA/KARL-JOSEF HILDENBRAND

Le negoziazioni sulla seconda revisione del terzo piano si salvataggio greco continuano incessantemente, tra Bruxelles, Berlino ed Atene. Secondo quanto riportato ieri da Ekathimerini, il Ministro delle finanze francese, Michel Sapin, avrebbe accusato il Fondo monetario internazionale (Fmi) di cercare l’appoggio del partito greco di opposizione, Nuova Democrazia (Nd), in funzione di ulteriori riforme del mercato del lavoro.

Nel dettaglio, secondo Sapin – il quale avrebbe descritto l’insistenza del Fmi sul fronte del mercato del lavoro come una vera e propria “ossessione” – Washington starebbe cercando garanzie per una continuazione del programma dopo il 2019, ovvero in seguito alle prossime elezioni politiche greche. I portavoce dell’istituzione internazionale hanno però rispedito al mittente le accuse.

Eppure, nel quadro delle negoziazioni – che continueranno per tutta la settimana a Bruxelles -, il Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, avrebbe effettivamente sottolineato «la necessità di garantire la validità degli accordi, a prescindere dal colore dei futuri governi». Insomma, si vuole evitare uno scenario “Syriza II”, in cui, come accaduto nel 2015, un partito venga eletto sulla base di un’opposizione alle politiche di austerità e agli accordi presi con le istituzioni europee ed internazionali.

In ogni caso, il diretto interessato, Kyriakos Mitsotakis, leader di Nd, ha negato qualsiasi tipo di contatto con il Fmi, anche se qualche settimana fa ha fatto visita sia a Bruxelles, che a Berlino. Allo stesso tempo, ha ripetuto di non voler proseguire sul binario dell’austerità. Alexis Tsipras lo ha apertamente accusato di un comportamento «sovversivo e ipocrita».

Nel frattempo, le autorità greche rimangono in allerta per il rischio di nuovi attacchi terroristici. Proprio ieri la polizia greca ha specificato che sono stati intercettate altre 8 lettere-bomba, simili a quella che ha raggiunto il Fmi a Parigi nelle scorse settimane. Secondo le autorità, si tratterebbe di una campagna coordinata. Il primo attacco era stato dal gruppo anarchico, Cospirazione delle Cellule di fuoco.

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I detenuti confiscati alle mafie

Una foto di Filippo Messina che fa parte della seconda edizione di 'Uomini Dentro ', mostra fotografica itinerante realizzata dall?Accademia delle Belle Arti di Brera e dalla Casa Circondariale San Vittore di Milano. Foto distribuita dall'ufficio stampa il 26 settembre 2012. Il progetto ha preso il via nel 2011 attraverso un workshop e delle lezioni in carcere con i docenti dell?accademia e si e' concretizzato con la produzione di una serie di scatti in modo co-autorale fra studenti e detenuti. ANSA/UFFICIO STAMPA +++EDITORIAL USE ONLY - NO SALES+++

Ieri nel carcere di massima sicurezza di Opera i detenuti hanno letto i nomi delle vittime innocenti di mafia. Ne scrive Manuela D’Alessandro nel sito giustiziami:

«Il pubblico è diviso a metà: sulla sinistra i condannati in regime di massima sicurezza, a destra quelli che devono scontare pene per reati meno gravi. In tutto sono più di un centinaio. Tra loro i familiari delle vittime e chi li accompagna ogni giorno nelle strade della prigionia.   Arrotolano il foglio, tornano in platea e danno le mani a chi li aspetta, anche agli agenti delle polizia penitenziaria. “Sono stato combattuto fino all’ultimo perché non me sa sentivo di sporcare quei nomi con la mia voce.  Mi sono detto ‘mi alzo o non mi alzo’, poi alla fine la mia coscienza mi ha suggerito ‘alzati, devi fare qualcosa’”. A Opera va in scena quella che il direttore Giacinto Siciliano, padre dell’iniziativa a cui ha aderito anche ‘Libera’, definisce “una prima assoluta in un carcere italiano”. Alcuni detenuti per reati di sangue salgono sul palco dell’auditorium per ricordare i 940 nomi delle vittime della mafia e, al termine della lettura, incontrano una decina di familiari caduti per mano della criminalità organizzata, dando vita una discussione carica di emozioni e contenuti.»

È una storia che non può andare di moda di questi tempi di vendetta e bava quella che racconta di detenuti che testimoniano oltre al ricordo anche una conversione eppure quello che è successo nel carcere di Opera (dove i detenuti hanno partecipato alla lettura delle vittime innocenti di mafia) è uno squarcio di un mondo possibile dove la detenzione non è il sacchetto dell’umido ma un percorso capace di portare nei posti più insperati.

Sono detenuti confiscati alle mafie, al pari di un’azienda o un’auto di grossa cilindrata, che vengono restituiti a se stessi. Non va di moda questa storia, no, e ci vuole un cuore veramente aperto per accoglierla. Eppure dentro c’è tutto: il coraggio di sfuggire al pensiero corrente di un giustizialismo rassicurante, la voglia di andarsi a prendere la fragilità anche dentro le storie più pelose e la sofferenza della complessità.

“Tutti fuori – dice uno dei detenuti – che dicono che ‘dobbiamo morire’ ed è giusto, il pregiudizio ci deve essere, siamo stati condannati. Mi vergogno a stare qua e mi vergognerei a scrivere una lettera alla ragazza figlia dell’ispettore che ho ucciso, a lei che a 12 anni disse in un’intervista che mi perdonava. Ma in carcere possiamo assumerci le responsabilità e crescere”.

Quando l’indicibile prova comunque a raccontarsi non si può che trarne vantaggio.

Buon mercoledì.

 

L’America della Grande Depressione, quando i bianchi lavoravano pagati dallo Stato

Alabama,

 

Centosettantamila scatti che mostrano l’America negli anni più duri, che sono anche quelli della rinascita. Nel 2015 l’univesità di Yale ha messo online un database  colossale sotto il nome di Photogrammar. Si tratta dell’archivio fotografico già consultabile presso l’archivio Farm Security Administration/Office of War Information Black-and-White Negatives della Libreria del Congresso, ma il lavoro di Yale è stato di rendere il tutto più rapido da consultare, navigare, cercare. Ogni foto ha una didascalia, un’attribuzione a uno dei grandi fotografi che l’amministrazione Roosevelt mandò negli anni del New Deal a documentare le difficoltà, i successi e il lavoro fatto dai programmi federali. I più famosi tra questi sono forse Dorothy Lange e Walker Evans, ma ci sono anche Vachon, Walcott, Rosskam e altri.

Perché vale la pena di riguardare queste foto in questi giorni? Perché mostrano come anche le grandi potenze sono state in ginocchio, come i nonni e genitori dei bianchi che hanno votato Trump e vagheggiano di una America grande abbiano vissuto in baracche fornite dallo Stato, lavorando per quello o come i messicani andassero e venissero dal confine già negli anni 30. Infine, come i neri fossero già in parte integrati e al lavoro in alcune zone del Paese e come fosse il contrario altrove. In sintesi, queste foto ci ricordano che l’idea di un passato glorioso dove tutti erano felici e stavano bene, sia una sciocchezza. In America, ma anche in Europa.

Louisiana, nella veranda dello store nei pressi della piantagione di cotone di Melrose

Louisiana, operai pagati dallo Stato al lavoro

Louisiana, trasloco

 

New Mexico, un posto di confine, 1940

El Paso, Texas, al confine con il Messico

Louisiana, Operaio edile al lavoro 1941

Childersburg, Alabama, 1931

Chicago, 1940

Chicago, fila al cinema, 1941

Chicago, 1941

La linea L della metropolitana di Chicago, 1940

Jersey City, New Jersey, la stampa dei bollini con le razioni, 1941

Jersey City, 1941

Il terminal di Jersey City, 1941

Grove street, Jersey City, 1941

 

Detroit, al salone di bellezza, 1941

Detroit, l’uscita dalla Chrysler, 1941

Operaie navali a San Francisco, 1941

New York, 1926

Bambini giocano a New York, 1940

New York, 1940

New York, 1940

Piantagione in Mississippi, 1939

Raccolta del cotone, Mississippi, 1939

Al Bar, Texas, 1941

South Dakota, il raduno della mandria

Texas, 1940

Oklahoma City 1941

Oklahoma City, bimba baraccata, 1940

Oklahoma City 1941

Se la Spd appoggia Emmanuel Macron. Le ambiguità di Martin Schulz

l'ex leader dell'Spd Sigmar Gabriel e Martin Schulz

A volte, sono i dettagli a fare la differenza. Così, mentre tutti hanno festeggiato il 100% di sostegno a Martin Schulz in Germania, in pochi si sono accorti delle parole pronunciate da Sigmar Gabriel, che gli ha fatto posto alla guida del Partito socialdemocratico tedesco (Spd).

Eric Maurice, dopo il congresso dei socialdemocratici, su EuObserver, ha titolato “Germany’s Spd crowns Schulz, breaks with French left” (“La Spd incorona Schulz, e rompe con la sinsitra francese”, tdr.). Perché?

«Immaginate che Emmanuel Macron vinca le elezioni in Francia, e Martin Schulz in Germania. Tutto diventerebbe possibile», ha detto Gabriel nel suo ultimo discorso da Segretario generale del partito. Del resto, giovedì scorso, ancor prima del congresso, Gabriel e Macron erano entrambi sul palco della Hertie School of Governance, a Berlino, a parlare del futuro dell’Unione europea insieme al filosofo tedesco, Jürgen Habermas.

Ma cosa vuol dire tutto ciò? Che dopo 60 anni, il Partito socialista francese non è più il punto di riferimento della Spd tedesca: è una rottura storica. E per certi versi dice molto sulla credibilità stessa di Martin Schulz nel portare avanti un programma di riforma profondo delle istituzioni europee.

Certo, Gabriel e Macron, avevano scritto un editoriale importante un anno e mezzo fa, in cui delineavano un programma per l’Europa all’avanguardia rispetto allo status quo (ne avevamo parlato qui, su Left). Ma la scarsa considerazione di Hamon, figurarsi di Mélenchon, fanno storcere il naso. Anche perché la retorica che Martin Schulz sta utilizzando in questo momento, in Germania, somiglia sicuramente più a quella del socialista francese; non a quella del leader del movimento “En Marche” (“In cammino”, tdr.).

Ieri, in Francia è andato in onda il primo dibattito televisivo tra i 5 principali candidati alle elezioni presidenziali francesi. Di Europa si è parlato poco. E quasi tutti i media internazionali hanno dato Macron come “vincitore” del confronto.

Dopo qualche mese di euforia, stanno quindi emergendo le prime ambiguità pesanti nella strategia europea della Spd. Per alcuni non sarà certo una sorpresa, considerato l’operato di Schulz al Parlamento europeo. Ma la Spd non dovrebbe sottovalutare troppo gli effetti delle alleanze intra-europee sul recente aumento di consensi.

Da dove vengono i 15 punti percentuali in più? Se vengono da sinistra, stringersi a Macron potrebbe essere un errore. Se vengono dal centro, centro-destra, allora la scelta appare ragionevole. Almeno a livello di guadagni elettorali. Per quanto riguarda l’evoluzione dell’Unione europea, un po’ meno.

Intanto, nel silenzio mediatico più totale, continuano le manovre per la modifica del ruolo delle istituzioni europee, lontano dal dibattito pubblico e a livello prettamente tecnocratico. L’oggetto del contenzioso? Il ruolo della Commissione europea e del Meccanismo europeo di stabilità (Mes). L’asse di scontro è di nuovo quello franco-tedesco.

Il Ministro delle finanze tedesco, Wofgang Schäuble, vorrebbe una Commissione meno influente e un Mes garante del rispetto dei parametri di Maastricht. Sembrerebbe infatti che la gestione “politica”, à la Juncker, degli ultimi due anni, abbia fatto saltare più di qualche nervo a Berlino. Dopo la catastrofe dei laburisti olandesi durante le recenti elezioni, Dijsselbloem, si è subito messo in scia a Schäuble, affermando appunto che il Mes dovrebbe diventare una sorta di “Fondo monetario internazionale”.

Dall’altra parte della barricata, invece, c’è Pierre Moscovici, il Commissario europeo agli affari economici: propone una Commissione con un potere più forte, che abbia la possibilità di attivare politiche fiscali coordinate tra Paesi membri dell’Eurozona. A tal fine, Moscovici ha suggerito che l’Eurogruppo sia presieduto proprio dal Commissario agli affari europei.

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M5s Liguria, dopo la democrazia perde anche la trasparenza. Sulla rendicontazione nessun dettaglio

Alice Salvatore, candidata alla presidenza della Regione Liguria per il Movimento Cinque Stelle, festeggia in un bar del centro con i compagni del Movimento per l'ottimo risultato ottenuto dal M5S, Genova, 01 giugno 2015. ANSA/ PAOLO ZEGGIO

A Genova, il Movimento 5 stelle non se la passa benissimo. Dopo che Grillo ha revocato il simbolo alla lista di Marika Cassimatis, la candidata sindaco scelta con le comunarie, i Cinquestelle hanno visto una pioggia di addii e fuoriuscite di attivisti e portavoce locali delusi dalla svolta autoritaria e dalla mancanza di democrazia interna.

Il deputato savonese Matteo Mantero ha parlato di «una guerra fra bande», con la portavoce regionale Alice Salvatore che è andata oltre le prerogative del suo ruolo: «Nessun portavoce regionale deve intromettersi su vicende cittadine», ha detto sempre Mantero a proposito di Salvatore, pupilla del capo politico, ideatrice del contestatissimo Metodo Genova a liste bloccate (i consiglieri comunali non vengono eletti) e soprattutto sostenitrice dello sconfitto e poi ripescato candidato sindaco Luca Pirondini.

«Eravamo il movimento dell’uno vale uno, della democrazia diretta, della partecipazione. Tutti valori che non ci sono più», lamentava qualche giorno fa a Left il consigliere regionale Francesco Battistini, autosospeso tempo fa proprio a causa della deriva verticista. Il quale oggi aggiunge: «I numeri ci mostrano con crudezza che non si tratta più di fuoriuscite ma di una vera e propria scissione che, in un qualsiasi soggetto politico, sarebbe il risultato di un ampio confronto politico sui temi. Nel Movimento 5 Stelle, in mancanza di strumenti perché ciò abbia luogo, diventa un allontanamento di massa da un soggetto che non rappresenta più i valori per cui i cittadini lo hanno votato».

A proposito di principi originari, ce n’è un altro che sembrerebbe vacillare, ed è la trasparenza. Siamo andati a vedere come funziona il meccanismo del dimezzamento e della restituzione dello stipendioda parte dei consiglieri nella Regione in cui risiede Grillo, e – sorpresa – abbiamo verificato che sul sito del Gruppo regionale del M5s, alla pagina della rendicontazione, non v’è traccia dei dettagli di spesa.

Non è dato sapere, quindi, cosa rientri sotto la voce “altre spese” dei consiglieri, dove siano stati fatti i viaggi o perché, e per quale motivo abbiano usufruito di vitto e alloggio pagato con soldi pubblici. Non possiamo sapere, per esempio, come Alice Salvatore abbia impiegato gli oltre 2.300 euro di “altre spese” dichiarati a dicembre scorso o gli 1.600 di settembre, o dove e per quale ragione abbia mangiato o dormito nel giugno 2016 pagando  1.121,56 euro, né quali trasferte i contribuenti pagano per lei e gli altri consiglieri pentastellati. Come quella di Andrea Melis a luglio 2016, costata solo di trasporto 1.034,66 euro.

Nella nota alla rendicontazione è spiegato cosa si intende genericamente per ciascuna voce, ma niente di più. Per quella “altre spese”, si legge: “Qui computiamo spese accessorie e/o altro inerenti l’attività politica e istituzionale”. Fine.

Così come non è dato sapere – almeno dal sito – dove siano convogliati i fondi decurtati. Ma a Left risulta che siano confluiti nel mega assegno del Restitution day di Firenze, nel novembre scorso. Non al territorio ligure, quindi.

Sono invece elencati tutti i finanziatori della campagna elettorale del Movimento 5 Stelle per le elezioni regionali liguri del 2015, i cui contributi sono stati versati sul conto dell’associazione costituita per l’occasione, “Comitato Movimento 5 Stelle Liguria”. Spese, che, scrivono, “sono state nettamente inferiori al limite di 34.247,89 euro per ciascun candidato”. E che sono, quelle sì, rendicontate al dettaglio.

Ma c’è un altra questione poco chiara. Secondo lo Statuto, depositato in Ufficio di Presidenza, il capogruppo del Movimento 5 stelle dovrebbe ruotare. Sul sito del Consiglio regionale stesso, infatti, alla pagina dedicata al gruppo, si legge: “Incarico di presidenza del gruppo svolto a rotazione: Alice Salvatore sarà Presidente fino al 1 gennaio 2016”. Avvicendamento che però, non è mai avvenuto. Alice Salvatore è tutt’ora capogruppo – con relativa maggiorazione dello stipendio, che però si decurta al pari di altri, intascando 2.500 euro, mentre Battistini e Melis ne guadagnano 3.300.

Ne abbiamo chiesto conto alla capogruppo Salvatore – che per legge è, tra l’altro, responsabile dell’intero budget – ma purtroppo  ha ritenuto di non rispondere. Avremmo voluto sapere non tanto come sono stati spesi i soldi, ma come mai si è fatta la scelta – non certo in linea con la trasparenza – di omettere dettagli fondamentali per dare la possibilità a cittadini ed elettori di apprendere come viene gestito il denaro pubblico. Fermo restando che va usato per le attività del gruppo consiliare e non di partito. Così è stato?

 

Il poeta Derek Walcott e il riscatto della storia caraibica

Derek Walcott

«Al MoMA, la prima volta, voltato un angolo misi radici davanti alle pieghe di una tovaglia bianca di Cézanne. Una natura morta. Eppure che vita e che nitore di tratto! Da quella luce, nella distanza, mi venne la prima lezione. Ricordo le scale del museo disposte in distici. L’autorità del marmo. Ricordo che quasi mi tramortì l’esattezza delle proporzioni e del disegno, in quel banchetto italiano: vedere non è un atto ma un’arte. E poi il tocco di rosa, deciso, all’interno della coscia di un cane bianco che si rintana sotto la tavola nella Cena a casa di Levi, così brillante e preciso che il battito del polso pensai che si fermasse. Nulla, nel muto frastuono che si leva dai fiori di perla ricamati dalla luce sulle maniche a sbuffo, sulle barbe a punta e sui calici cavi, valeva quell’animale che annusa nella foresta di gambe calzate. Era il miracolo che esce dalla cornice, l’epifania di un dettaglio che illumina un’epoca intera… Tra me e Venezia la coscia di quel segugio, la mia reverenza per le cose comuni; e anche se ne scrivo seduto sopra lo scalino di questo distico, l’immagine del cane, quel prodigio nella luce, io non l’ho più rivista. Sfumano le cose. E chi le ha dipinte. Tiepolo come Veronese, nella calca che gesticola, tra colonne e drappeggi, archi e balaustre, e figure che sporgono dalla terrazza».

Così Derek Walcott, il poeta caraibico scomparso pochi giorni fa, sapeva far incontrare poesia, pittura e pienezza di vita. Nella quotidianità degli incontri, sullo sfondo dell’azzurro e verde abbagliante di Santa Lucia, la piccola isola dove viveva, come nella metropoli: a New York, come racconta in questi versi in cui evoca un quadro di Veronese, a Boston dove insegnava, oppure a Milano, a Venezia. a Firenze ( dove abbiamo avuto la dortuna di incontrarlo grazie alla Fondazione il Fiore) e in altre città che amava in Italia.  Quei viaggi generavano nella sua scrittura prospettive inaspettate dalla finestra di un albergo, fuggevoli sguardi dal finestrino di un treno. Nella Giornata mondiale della poesia che ogni anno si celebra il 21 marzo, vogliamo ricordare questo straordinario poeta, saggista, traduttore, regista, che si è cimentato anche con la pittura. Un uomo della risata cordiale e fragorosa. Colpiva la sua schietta franchezza, la sua spontaneità, il silenzio incuriosito con cui si rivolgeva all’altro, sconosciuto. L’opera che ci ha lasciato si snoda come un potente epos contemporaneo, un flusso ininterrotto di poesia, prosa lirica, mescolando i generi, i linguaggi, come nel poema narrativo Tiepolo’s Hound pubblicato nel 2000 da Farrar, Straus and Giroux, con una ventina di riproduzioni di oli, acquarelli e guache dello stesso Walcott, paesaggi e marine di Santa Lucia, un autoritratto e un intenso ritratto di Sigrid,  la sua compagna.

Walcott (che lo scorso 23 gennaio aveva compiuto 87 anni) non è il poeta delle piccole cose coltivate «in un cantuccio dell’anima». Che cos’è la poesia? «È un’espressione di stupore», diceva. «La grande, grandissima poesia, di sicuro è qualcosa che va oltre la vita di chi la scrive. E per sua natura, per il fatto che è costruita sul ritmo, la poesia è incantagione – incantesimo – e in quanto incantesimo è celebrazione». Anche se la sua opera ha una dimensione classica e modernista, è libera da quel pessimismo intellettuale e da quel cinismo tipico di certi intellettuali europei del Novecento, come è stato notato dalla critica. È anche questa freschezza che caratterizza Omeros, l’opera (pubblicata in Italia da Adelphi) che gli è valsa il Nobel nel 1992, un poema di 7.566 versi  in cui, utilizzando echi dai dialetti caraibici, Walcott ha saputo ricreare e rivitalizzare la lingua inglese: lo ha fatto evocando le ombre del passato coloniale, articolando una profonda denuncia in una lingua inglese che, come Walcott diceva spesso, per lui non era la lingua del padrone.  Lui ha saputo farne una lingua icastica e viva per evocare immagini di dee in riva al mare con sandali di plastica, del  tassista Hector, del pescatore Achilles che si contendono le attenzioni di una ragazza dalla pelle color ebano…. Con la poesia e con il suo teatro Derek Walcott è stato il cantore delle vittime dello schiavismo, ne ha messo in luce la bellezza, dando immagine e parole al riscatto della storia caraibica. Rifiutando il veleno dell’odio e del rancore.