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Ho 24 anni e porterò l’umanità su Marte

Quest’anno ricorre il 50esimo anniversario della missione Apollo 11, che portò due astronauti americani sulla Luna: quale modo migliore di celebrare questo traguardo che prepararsi alla prossima straordinaria missione, il viaggio su Marte? La Nasa ci lavora da anni, anche qui in Louisiana dove stiamo assemblando il vettore super-pesante per il sistema di lancio, nello stesso impianto dove fu costruito il Saturno V della Missione Apollo.
È l’alba di una nuova era in America per l’esplorazione dello spazio e si riflette in tutta la comunità aerospaziale, di cui faccio parte come ingegnere strutturista di razzi impegnata ad aiutare la Nasa nella realizzazione del vettore di lancio (lo Space launch system, ndr) che dovrà fornire energia a missioni nello spazio profondo come quella verso Marte.
Nell’arco dei prossimi dieci anni gli Stati Uniti torneranno sulla Luna e inizieranno a esplorare porzioni di spazio profondo mai viste prima da occhio umano. I nuovi sistemi americani di esplorazione, che si prevede di lanciare nei prossimi anni, consentiranno di raggiungere Marte e spingersi anche oltre, e la Nasa guiderà il mondo intero nel portare a termine con successo queste missioni senza precedenti.
La dottoressa Mary Lynne Dittmar, presidente e Ceo della Coalizione per l’esplorazione dello spazio profondo, ha recentemente illustrato i punti chiave del nostro programma spaziale nazionale e le loro implicazioni a livello politico, spiegando che i programmi e le infrastrutture necessarie per una duratura leadership americana nello spazio – il potente Sistema di lancio spaziale della Nasa come pure la sua Piattaforma orbitale lunare, solo per citare alcuni esempi – «richiedono come colonna portante una robusta infrastruttura finanziata dal governo».
Il Consiglio nazionale delle ricerche statunitense (Nrc) ha raccomandato…

(Traduzione di Silvia Crupano)

Tiera Fletcher interviene il 12 aprile alle 19.30, alla conferenza “Dietro l’allunaggio”, presso la Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma nell’ambito del Festival delle scienze che si tiene a Roma dall’8 al 14 aprile.

L’articolo di Tiera Fletcher prosegue su Left in edicola dal 5 aprile 2019


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Nel “nido di vespe” scorre la storia

«Ogni mattina, appena alzata, correvo subito ad affacciarmi alla finestra della mia stanza, dove dormivo assieme ai miei cinque fratelli, perché mi piaceva godere dello spettacolo che avevo davanti ai miei occhi. Un lunghissimo viale pieno di alberi da frutta e di orti rigogliosi, ma quella triste mattina i colori della primavera erano coperti dal nero delle divise e dei fucili dei 2mila soldati nazifascisti che circondavano il sanatorio Ramazzini e tutto il Quadraro». Queste le parole di una testimone diretta di quel giorno, Vanda Prosperi, una bambina di solo sette anni.
È l’alba del 17 aprile 1944, siamo al Quadraro, un quartiere popolare della periferia Sud-Est di Roma. Le truppe nazifasciste guidate dal tenente colonnello delle SS, Herbert Kappler, circondano il quartiere. Unternehmen Walfisch, nome in codice: operazione Balena. Si tratta del rastrellamento del Quadraro, che porterà oltre 700 uomini dai 16 ai 55 anni a lavorare come schiavi in Austria, Germania e nei territori occupati dai nazisti, deportati in condizioni disumane e costretti a vivere di stenti e privati di qualunque libertà. Una volta prelevati dal Quadraro, vengono trasportati prima in un campo di detenzione provvisorio allestito negli studi di Cinecittà, poi al campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi, dove verranno registrati come detenuti politici. “Nido di vespe” così veniva chiamato con disprezzo questo quartiere, proprio perché oltre ad essere un quartiere popolare, garantiva rifugio e protezione a tutti quei partigiani, perseguitati politici e renitenti alla leva, che scappavano dalla repressione nazifascista. Non a caso il già citato sanatorio Ramazzini era il centro operativo dei partigiani di Bandiera rossa e i nazisti per paura delle malattie non osavano metterci piede. Lo stesso console tedesco a Roma, Mòllhausen, dirà nelle sue memorie: «Chi voleva sfuggirci aveva solo due possibilità: o il Vaticano o il Quadraro».
È in questo contesto che avvenne il rastrellamento del Quadraro e il diario di Iliano Caprari, Linee resistenti (L’Asino d’oro ed., con prefazione di Annelore Homberg e postfazione di Agostino Bistarelli), è una testimonianza “in diretta”, molto preziosa e sicuramente unica, di come si svolgeva realmente la vita durante quei lunghi mesi di lavori forzati. Iliano Caprari, all’epoca ventunenne, dopo il congedo dalla leva obbligatoria, prende contatti con le organizzazioni partigiane dell’VIII zona alle quali aderirono un gran numero di persone, non solo al Quadraro, ma anche negli altri quartieri limitrofi come Torpignattara, Centocelle, Quarticciolo e Gordiani. Il fratello di Iliano, Giuseppe, ricorderà, infatti, in una sua testimonianza presente nel libro di Walter De Cesaris La borgata ribelle (Odradeck, 2004) che al momento del rastrellamento, Iliano aveva nascosto sotto il letto dei volantini di Bandiera rossa che per fortuna i tedeschi non trovarono durante la perquisizione.

La descrizione degli avvenimenti, una narrazione quasi quotidiana che scandisce le giornate raccontate nel diario, inizia dal momento in cui, dopo il periodo di detenzione al campo di concentramento di Fossoli e dei lavori forzati nella fabbrica di Biebrich in Germania, Iliano e i suoi compagni vengono di nuovo deportati, ma questa volta in Alsazia, per costruire trincee ed infiniti fossati, nel vano tentativo, da parte dei tedeschi, di arrestare la ormai prossima avanzata degli alleati angloamericani.

In Linee resistenti, oltre Iliano e i suoi compagni, ci sono delle presenze costanti, veri e propri protagonisti di questa narrazione: il freddo gelido della neve, la fame, e la violenza dei loro aguzzini. Di fronte a tanta disumanità, alle durissime e continue umiliazioni, oltre che alla fatica fisica a cui sono sottoposti i cosiddetti “schiavi di Hitler”, descritta con minuzia di particolari, l’autore del diario, non rinuncia a rendere partecipe il lettore anche dei piccoli spiragli di umanità grazie alla sua sensibilità capace di imprimere una narrazione di intima resistenza. E così, il sentimento della malinconia, della nostalgia e la consapevolezza della dignità violata, rappresentano un legame vitale, indissolubile con la propria terra, le proprie radici, i familiari, il Quadraro, il quartiere dove si è vissuti, Roma, la città dove si è nati. Scrivere diventa un modo non solo di documentare quanto accade nelle loro vite ma rappresenta anche la capacità di resistere, perché come evidenzia la psichiatra Annelore Homberg nella prefazione al libro «persiste la dignità di un uomo che sente e che vive i pochi rapporti personali ancora possibili; che ricorda il valido avvenuto prima e reagisce con residui moti di indignazione al disumano».

«Se questo diario non lo perderò e se la gente nostra leggerà questo scritto, sappia che tutto ciò che ho scritto, è vero sacrosanto», scrive Iliano come monito, nell’intento di creare consapevolezza del fatto che le sue parole raccontano di una tragedia talmente disumana che qualcuno potrebbe pensare che non sia mai accaduta. Questo libro è nato proprio con l’obiettivo di resistere all’oblio della memoria. Nel testo già citato di Walter De Cesaris si fa riferimento ad un convegno del 1984 realizzato all’interno di una scuola del quartiere, dove per la prima volta venivano condivisi degli stralci del diario di Iliano Caprari. Sin da allora fu evidente la necessità che quella testimonianza, umanamente così preziosa, diventasse un libro da diffondere a più persone possibili.

Tutto questo si è trasformato in realtà, quando nel dicembre 2017 ad una festa di QuadraCoro, il coro amatoriale del Quadraro, nei locali della biblioteca interculturale Cittadini del mondo, un invitato, Mauro Puliani, ignaro della nostra ricerca, si rivolse a noi, per dirci che aveva ricevuto

da Manuela Caprari il diario del suo papà. Commossi ed emozionati eravamo finalmente arrivati ad Iliano e alla sua storia. Il passo successivo è stato quello di rivolgerci alla casa editrice L’Asino d’oro che ha accolto con entusiasmo il manoscritto attraverso il quale possiamo conoscere la tragedia vissuta da uno dei 700 deportati.

Ed oggi, dopo 75 anni da quella tragica giornata del rastrellamento, il presente ed il passato convivono in un quartiere popolare che non vuole dimenticare perché ha il coraggio di ricordare. E finché ci saranno discriminazioni e disuguaglianze, la ricerca della memoria storica non sarà mai un atto sterile ma linfa vitale per coltivare nuove lotte, nuove resistenze e nuove speranze.

 

L’articolo di Francesco Giannelli e Maria Anna Tomassini è stato pubblicato su Left del 5 aprile 2019


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Francesco Giannelli è direttore del QuadraCoro, il coro amatoriale del Quadraro e Maria Anna Tomassini è presidente dell’Associazione QuadraCoro. 

Middle Est now, il festival accende i riflettori sull’Afghanistan

Kabul city in the wind

Dal 2 al 7 aprile a Firenze la decima edizione di Middle East Now,
il festival che racconta il Medio Oriente attraverso cinema, arte, musica, incontri, teatro, progetti sociali e cibo.
Edizione speciale per i 10 anni del festival, che si è affermato come piattaforma innovativa nel modo in cui presenta la cultura mediorientale contemporanea, oltre gli stereotipi e i pregiudizi che caratterizzano quest’area del mondo.
Il film documentario d’inizio Kabul, city in the wind ,è una vera rivelazione, un modo nuovo di sensibilizzare il mondo. Colore di sabbia nelle case, nel cielo, nella terra è la prima cosa che non ti aspetti da un documentario su Kabul, che sai essere teatro di guerra, attacchi da ogni parte , 12 nazioni e 31 fazioni politico-religiose impegnate in Afganistan, che si bombardano in una ridda infernale.
Dice Aboozar Amini, giovane regista afgano residente in Olanda, al suo primo lungometraggio, che scene di guerra le aveva collezionate, nei tre anni di girato, ma volutamente non ne ha messa nemmeno una nel film. Due i motivi: quello ovvio di non fare inorgoglire i seminatori di violenza e uno molto più sottile, di assoluta originalità, che la maggioranza degli spettatori non ha esperienza di guerra, e dunque quelle immagini non veicolano per loro il contenuto terribile della realtà.
La sua scelta originale è stata di filmare la vita di tutti i giorni di due famiglie, quella di un padre che lavora fuori dell’Afganistan per sostenere una famiglia con tre figli, e quella di Abbas, un autista di autobus, rimasto senza il mezzo, perché gli si smantella per vecchiaia prima che finisca di pagarlo, anche lui con il problema di mantenere i tre figli.
La similitudine delle due famiglie è solo apparente. In verità vi è un abisso, e il film lo mostra in modo inequivocabile. Afshin (12 anni) e suo fratello minore Benjamin (6) vivono su una collina fuori Kabul. Sono figli di quell’afgano andato a lavorare in Iran, lasciando l’intera famiglia sulle esili spalle del primogenito.” Fai tu la spesa, non lasciare che ci vada tua madre”. E lui, ubbidiente e anche fiero del ruolo, ci va col fratellino Benjamin. Il viaggio verso il mercato racconta la differenza fra i due: il maggiore non perde occasione per divagasi e divertirsi, il piccolo procede come fosse caricato a molla, canticchiando una canzoncina che dice al gattino giallo di non uscire di casa perché le bombe lo ammazzano. Il terrore è una costante nei suoi sogni e pure nella veglia. Un terrore calmo, che lo pervade e solo raramente viene a galla. Tenta di trasformare in gioco, senza riuscirvi, il suo camminare fra le tombe di una strage di civili, che il padre gli ha descritto con un verismo scioccante: sangue ovunque, la sua faccia sfiorata da una pallottola e la gamba attraversata da un’altra,il suo migliore amico colpito a morte davanti a lui. Parole violente, violenza come e più di quella reale. Ricorda il film Of fathers and sons(2017), di Talal Derki, proiettato alla nona edizione del Middle east now, infarcito di violenza, religione e training al terrorismo dei bambini. Lì Abu Osama, il padre, costruisce consenso fra i bambini per creare una catena di odio e terroristi nelle nuove generazioni. Questo padre rapisce l’infanzia a Benjamin, sperando che si guardi di più dai pericoli, o forse è talmente immerso in una cultura di morte che non è più in grado di rapportarsi ad un bambino. Questo suo parlare anestetizza il grande, devasta il piccolo, che tira pietre verso la città urlando:Sanguina! Ecco che il colore della sabbia, che dicevamo pervade le scene, è una pennellata di superficie sotto cui domina il rosso vermiglio del sangue. E immaginarlo attraverso le parole di Benjamin è più devastante che vederlo. La scelta del regista rilancia la denuncia in modo nuovo e più efficace. E’ il primo film di un conflitto bellico con una scelta di campo netta, che gli ha meritato il premio speciale della Giuria come Miglior Opera Prima al festival IDFA di Amsterdam. E,precedentemente, tanti rifiuti da produttori che volevano una narrazione classica, esplosioni, crolli, cadaveri e devastazione.
Diverso totalmente l’approccio dell’altro padre di cui parla il documentario, così preso da problemi di lavoro da mettere in seconda fila gli eventi bellici. Nelle difficoltà materiali conserva una dimensione affettiva indomita-bella la scena di gioco collettivo coi suoi figli, con baci e abbracci particolari verso la bambina- Scherza col cuore e con una saggezza che forse gli viene dall’essere povero, non aver studiato, quindi ignaro di religione, abituato a vivere senza un domani, cercando di aggirare gli ostacoli col prendere in giro se stesso e la vita. Scherza anche con la moglie, accusandola di nascondere i soldi che si guadagna col suo lavoro di ricamo, ben sapendo che, con quello che riesce a racimolare lui, quelli di lei sono spesi fino all’ultimo per sfamare tutti loro.
Questo personaggio non è consolatorio, ma apre comunque alla speranza che ciò che conta nella vita di tutti i giorni è il rapporto umano affettivo, non violento, che la vince anche nelle situazioni esterne più disperate.

Ma quale mini naja, la vera difesa è quella civile

20090917 - BOLZANO - SOI - DIFESA: PRIMA MARCIA IN MONTAGNA PER RECLUTE MINI NAJA - Le reclute della mini naja hanno svolto oggi 17 settembre 2009 per la prima volta una marcia in montagna. Con lo zaino in spalla i giovani partecipanti del progetto " Pianeta difesa " , ospiti del 6/o reggimento alpini di San Candido, sono partiti a piedi dal lago di Misurina per salire a quota 2.300 metri. I nuovi scarponi hanno causato ad alcuni ragazzi un po' di male ai piedi, ma l'entusiasmo non è comunque mancato. Le reclute sono state fortunate, perché dopo alcuni giorni di pioggia e temperature poco sopra lo zero oggi è tornato il sole. Le condizioni in montagna sono state perciò perfette, offrendo una vista spettacolare sulle cime delle Dolomiti di Sesto. ANSA/US ESERCITO/i51/ DBA /DIB

“Iniziative di percorsi formativi in ambito militare per i cittadini italiani di età compresa fra i 18 e i 22 anni”. Questo è il titolo della proposta di legge 1012, primo firmatario Matteo Perego di Cremnago deputato di Forza Italia. È la nuova trovata legislativa, di iniziativa di 42 parlamentari, tutti forzisti, approvata alla Camera dalla maggioranza legastellata che di (piccole) stelle a cinque punte, vorrebbe ornare, a partire dal prossimo gennaio, i baveri dei giovani italiani. Ai quali, la legge offrirebbe la possibilità di accedere a un percorso educativo specializzato, presso le strutture operative delle Forze armate e dell’Arma dei carabinieri, per un periodo di sei mesi, a titolo volontario e non retribuito, da spendersi nella progressione degli studi, con la valenza di dodici crediti universitari e un attestato in ambito professionale.
D’altronde, stando alla lista degli obiettivi che si prefigge di raggiungere, lunga e ben articolata (in sette punti), la disciplina è assicurata: dalla comprensione del valore civico della difesa della patria quale sacro dovere di ogni cittadino alla cognizione degli alti valori connessi alla difesa delle istituzioni democratiche italiane attraverso lo strumento militare; dall’approfondimento dei principi fondamentali che regolano l’ordinamento militare e degli obblighi imposti per l’assolvimento dei ruoli alla conoscenza delle principali minacce alla sicurezza interna; dallo studio dell’architettura istituzionale preposta alla protezione cibernetica nazionale all’acquisizione di competenze in tema di cooperazione nell’ambito della difesa europea fino agli incontri con le varie realtà economiche e industriali connesse al settore della difesa e della sicurezza.
Ma gli studenti, diretti interessati, non ci stanno e chiedono…

L’articolo di Tania Careddu prosegue su Left in edicola dal 5 aprile 2019


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Anteprima del nuovo libro di Vauro, in edicola con Left

A causa della sua satira corrosiva e irriverente è finito nel mirino di Matteo Salvini e, non solo sui social, si è attirato le intimidazioni e gli avvertimenti dei fans del ministro dell’Interno. «Mi arrivano fin dentro la cassetta della posta» ci racconta Vauro. Ma queste per lui sono solo medaglie e la sua matita continua imperterrita a sferzare quotidianamente i potenti di turno.

«Il suo linguaggio non cessa di indagare, di mettere alla berlina le rappresentazioni e i raggiri degli uomini e degli omuncoli di potere» scrive Moni Ovadia nella prefazione al nuovo libro di Vauro “La zecca” (Editoriale90 e Compagnia editoriale Aliberti) che viene presentato in ANTEPRIMA giovedì 11 aprile alle ore 19 a Roma, presso la redazione del settimanale Left (via Ludovico di Savoia 2/b). Insieme all’autore intervengono Moni Ovadia, la direttrice responsabile di Left Simona Maggiorelli, e… un ospite a sorpresa. La raccolta di 320 tra vignette e tavole anche a colori uscirà insieme a Left in edicola da venerdì 12 aprile.

Ingresso libero fino a esaurimento posti

Per riservare il tuo posto all’evento o per l’accredito stampa clicca qui: https://leftvauro.eventbrite.it

«La satira può essere tagliente, graffiante, pesante, amara e tutti gli altri aggettivi che di solito le vengono attribuiti da chi non la fa» ha scritto Vauro su Left che da anni pubblica le sue vignette, sia sulla versione cartacea che sul sito www.left.it. «Per me è un gioco, proprio come quello dei bambini, a volte rischioso, spesso chiassoso, fastidioso alle orecchie degli adulti ma mai monotono e sempre ricco di fantasia. E i bambini (almeno quelli di un tempo lo erano) sono immuni al conformismo». La satira non può essere conformismo perché altrimenti perderebbe la sua forza che è anche fantasia e allegria. La satira, dunque, è «sovversiva», dice l’autore. Non a caso «negli anni questo gioco» gli ha procurato «tentativi di censura, licenziamenti ed espulsioni, denunce e processi, assoluzioni e condanne». Fino «all’ossessione compulsiva di Salvini di querelarmi ogni venti minuti». Giustificando in questo modo la bassa classifica dell’Italia nelle classifiche mondiali sulla libertà di stampa.

Gli ultimi tre anni della nostra vita scorrono attraverso le tavole di Vauro. Il suo sguardo si sofferma sul Palazzo – dal centrosinistra ai legastellati -, sulle politiche razziste, su quelle del (non) lavoro, sulla difesa della Costituzione, sull’attualità internazionale comprese le crisi interne al Vaticano. E naturalmente sulla sinistra.

Vauro come un partigiano, scrive Moni Ovadia: «Il tratto che compone i suoi personaggi, incluso quello di se stesso, è popolare, proletario, attinge a un’umanità che viene dal basso e ha tutti i titoli per stigmatizzare le ingiustizie».

Le mani della finanza sulle città

Un rendering del progetto dello stadio dell'As Roma, in una immagine del 30 maggio 2016. ANSA/UFFICIO STAMPA +++EDITORIAL USE ONLY - NO SALES+++

Per comprendere la devastazione che il neoliberismo ha causato alla vita delle città, dobbiamo ritornare agli inizi dell’offensiva culturale che ha progressivamente abolito ogni regola di trasformazione urbana. Tutti gli strumenti urbanistici delle grandi città a partire dagli anni Novanta (varianti parziali comprese) si sono fondati sul motore della rendita urbana, aumentando a dismisura i valori fondiari così da permettere enormi plusvalenze alle grandi proprietà immobiliari.
Oggi, dopo undici anni di crisi economica e finanziaria, stiamo assistendo ad un fatto nuovo. Le proprietà reali sono nelle mani del sistema del credito che si era colpevolmente prestato al gioco del finanziamento di una rendita apparentemente infinita perché sostenuta dalle scelte economiche decise a livello internazionale. Oggi gli effetti distorsivi sono pressoché terminati, ma hanno causato gravi sofferenze nei bilanci e quegli istituti finanziari devono oggi rientrare ad ogni costo dell’esposizione degli anni ruggenti. Roma è un esempio perfetto. Unicredit deve rientrare dal finanziamento verso il gruppo proponente dello stadio della Roma (180 milioni) e della proprietà dell’ex Fiera di Roma (180 milioni). Le due operazioni devono dunque arrivare all’attuazione non perché abbiano un loro motivo di esistere nel quadro di una visione urbana, ma perché devono coprire i buchi di bilancio.
Siamo di fronte all’ultimo atto della folle teoria della valorizzazione immobiliare e i segnali che arrivano da Milano, dove si stanno rimettendo in moto le trasformazioni ferme da un decennio grazie ai fondi immobiliari internazionali e sovrani dei Paesi più ricchi, ci dice che si sta avviando verso una nuova fase.
Il destino delle città è saldamente in mano agli istituti di credito. Non sono le amministrazioni comunali e pubbliche a decidere sui destini delle città, ma è un sistema economico e finanziario connesso a livello globale. Insieme alla finanza dominante ci sono due altri settori produttivi che dimostrano la struttura del dominio neoliberista…

L’urbanista Paolo Berdini è tra i relatori del convegno che si tiene a Bergamo il 6 aprile dal titolo “La città ai tempi del neoliberismo”, promosso da Prc/Sinistra europea.

L’articolo di Paolo Berdini prosegue su Left in edicola dal 5 aprile 2019


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L’Aquila non può più attendere

Verso la fine di Corso Vittorio Emanuele, il “Corso” della passeggiata degli aquilani, sul lato Nord vicino alla Fontana luminosa nella piazzetta che incrocia con via Castello, risuona musica pop da un cantiere in un palazzo. Rallegra l’aria: escono operai che per pranzo si rifocilleranno in una buona pizzeria a taglio a pochi metri, in un locale dove vendono focacce con affettati, formaggi e discreti vini abruzzesi o dove preferiranno nei dintorni. Nella piazzetta ha aperto da poco un caffè dall’architettura sobria e raffinata con un fasciatoio per bambini in bagno, autentico miraggio nella stragrande maggioranza dei locali della penisola. Vi domanderete: nella città a dieci anni dal terremoto carico di morti del 6 aprile 2009 si sta a qua ciancicare di bar, pizza e caffè? Per quale dannato motivo? La risposta è perché questo angolo dell’Aquila incornicia quanto sta accadendo in un centro storico molto più affascinante della sua scarsa fama: la ricostruzione ha proceduto “a macchia di leopardo” – espressione che tanti aquilani adoprano come un mantra -, e a molte strade e palazzi recuperati si alternano angoli, ponteggi e vie ancora “zona rossa”. E la quotidianità segue un copione praticamente fisso: fino alle 17 circa è un via vai di operai, tecnici, ingegneri, restauratori, qualche dipendente pubblico, dalle 19 o giù di lì scatta l’ora degli aperitivi, della passeggiata lungo il Corso fino a piazza Duomo, molti ragazzi si tuffano nella movida di una città a forte vocazione universitaria.
Converrà ricordarlo in sintesi: fino al 2012-13 la città era un deserto. Fu l’ex ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca del governo Monti a imprimere un cambio di passo dacché, negli ultimi anni, attraversare a cadenza regolare le vie aquilane significa vedere progressi visibili tra le gru, i camion, l’odore della calcina e i nastri rossi dei cantieri. Il complicato recupero degli edifici di valore storico e artistico – varie centinaia i progetti approvati dalla soprintendenza speciale per il Cratere dal 2012 – è…

Il reportage di Stefano Miliani prosegue su Left in edicola dal 5 aprile 2019


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Verso le elezioni europee, Risiko Brexit

Il giallo della Brexit non arriva ancora a soluzione ed anzi si fa sempre più intrigato. In attesa del Consiglio Europeo del 10 aprile Teresa May ha chiesto una nuova proroga al 30 giugno che però potrebbe non essere sufficiente. Il presidente del Consiglio europeo Tusk sarebbe favorevole ad una proroga flessibile anche fino ad alcuni mesi e che terminerebbe nel momento in cui Londra avesse approvato il piano definitivo di uscita. Ma tutto è appunto molto intrigato.

Il Parlamento inglese si è preso il diritto di proporre le leggi (cosa che solitamente spetta al governo) ed ha approvato per un voto un testo che esclude la Brexit senza accordo (no-deal). Sono in corso incontri tra May e Corbyn su una gestione condivisa che comprenda anche l’assetto post Brexit. Ma sia i tories che i laburisti sono divisi al loro interno su questo come su un eventuale referendum di conferma. E divisioni ci sono con gli scozzesi e gli irlandesi.

Intanto alcuni milioni di persone residenti in Gb o inglesi residenti in Ue non sanno cosa sarà dei loro diritti. E anche per le elezioni europee ci sono rebus. Svolgerle anche in Gb dopo il voto Brexit crea problemi. Ma senza varo della Brexit la macchina elettorale potrebbe andare avanti anche in Gb magari per fermarsi all’ultimo momento. Solo che bisogna gestire la questione dei seggi inglesi in parte tagliati e in parte attribuiti ad altri. Come fare? E ci sono anche conseguenze nella politica del PE. Se restassero anche brevemente i tories il gruppo dei conservatori e riformisti sarebbe ancora in gestione ai polacchi del Pis di Kaczynski che stanno ora facendo accordi come con Fratelli d’Italia? E come sarebbero i socialisti con dentro Corbyn?

Per approfondire > bit.ly/2TXmCB9

“Nessuna, io so de qua de Tore Maura”

A un certo punto l’aitante fascista perde pure la pazienza. “Ma tu di che fazione politica sei?” chiede al ragazzino quindicenne e quello risponde, tranquillo: “Nessuna, io so de qua, de Tore Maura”. Gira da ieri questo video, dove un ragazzino si prende la briga di dire ciò che pensa andando controcorrente e attacca i rappresentanti di Casapound con pochi semplici concetti:

“Siete venuti qui per trasformare il malcontento della gente in voti, cavalcate l’odio per guadagnarne”.

“Ve la prendete sempre con le minoranze. A me non cambia niente se arriva qualche rom in più, non sono loro il degrado del quartiere”.

“Quando ruba un rom strillate e fate casino ma quando a svaligiarvi la casa è un italiano state tutti belli zitti”.

Quell’altro, che poco prima sembrava la fotocopia ostentata del Duce per la sicumera che si portava addosso all’improvviso si zittisce. Il ragazzino è calmo, parla serenamente, perfino educato. E quello che dice sono fatti difficilmente contestabili. Si irrigidisce il neofascista. Allora se ne fa avanti un altro che racconta che lui a Torre Maura ci vive da una vita e una volta non era tutto così degradato. E il ragazzino controbatte: “E secondo te è colpa dei rom?”. Quello non risponde, accenna qualcosa. Dice che ha paura. Ma certo gli viene difficile dire che un quartiere si contamina per una minoranza.

Ma il pezzo più interessante è quello della fazione politica. “Nessuna, io so de qua de Tore Maura”. Ed è il cittadino che si prende cura del proprio quartiere, quello che lo difende anche dalle narrazioni un po’ troppo interessate a raccontarlo per quello che non è. È il cittadino che prova a non farsi trascinare dal gorgo della rabbia e che non accetta di diventare mangiatoia per quelli di Casapound. Ha quindici anni. Ma dimostra che i fatti contano, sempre, più della propaganda, e la mettono con le spalle al muro. Per questo bisogna insistere e metterci la faccia, guardarli dritti negli occhi e fare così, come quel ragazzino. Che sembra la meglio gioventù.

Con #Fridaysforfuture riparte la battaglia per la giustizia sociale

Grazie ad una ragazza svedese di sedici anni la questione climatica entra di prepotenza nel dibattito pubblico italiano. Lo fa con un taglio profondamente generazionale, e questo è un bene in un Paese dalle classi dirigenti anziane o precocemente invecchiate.
Lo fa sull’onda di una mobilitazione che investe milioni di persone, che trovano lo spazio per esprimere pubblicamente la preoccupazione per il proprio futuro, di cui il surriscaldamento globale è insieme metafora e ipoteca. Lo fa recuperando simbolicamente la parola chiave del movimento operaio, sciopero, che diventa il ponte capace di unire simbolicamente la rivendicazione di giustizia sociale e ambientale. D’altra parte oggi più che mai è evidente quanto le due questioni siano strettamente intrecciate e si alimentino a vicenda, soprattutto per chi vive al pianterreno del condominio della disuguaglianza.
Lo evidenzia un recente studio sulla città di Torino. Muovendosi lungo la linea del tram che viaggia dalla periferia verso il centro, la speranza di vita aumenta di chilometro in chilometro, come causa diretta della minore esposizione a fattori inquinanti. Per chi vive o ha vissuto del proprio lavoro, è normale aver respirato aria più inquinata, bevuto acqua più contaminata, mangiato cibo meno salubre. Dipende dallo stato di sicurezza delle fabbriche, dipende dalla maggior concentrazione di polveri sottili e veleni nei quartieri abitati dalla parte più povera della popolazione.
Lo stesso ci dicono studi effettuati su scala globale. Morte e malattie da inquinamento non colpiscono tutti alla stessa maniera, ma esiste una correlazione diretta fra ricchezza e salute. Siamo tutti sulla stessa barca, ma come sempre c’è una profonda differenza fra chi viaggia in prima e pensa di avere a disposizione una scialuppa di salvataggio, e chi invece è ammassato e rinchiuso in terza classe. Non sono l’ignoranza o l’assenza di consapevolezza a mettere a rischio la sopravvivenza del pianeta che abbiamo ricevuto in affido temporaneo. Sono invece le scelte dei potenti del mondo, allineate alle esigenze di quel sistema fondato esclusivamente sul profitto che chiamiamo capitalismo. Un sistema che avremmo già dovuto consegnare all’archeologia, perché incompatibile con il benessere nostro e di tutte le specie viventi, e che ci ostiniamo invece a considerare l’unico possibile.
La cura per l’ambiente e le persone ha bisogno di uno sguardo lungo, di lentezza, di senso del limite e della diversità. La globalizzazione neoliberista necessita invece accumulazione, resa istantanea, standardizzazione e un ciclo continuo di distruzione ed espansione artificiale. Non ha interesse per ciò che sarà fra dieci anni e si fonda sulla certezza di poter ricavare utili anche dalla catastrofe. Utilizza la competizione come strumento ideologico e organizzativo, alimentando così la generazione di esternalità e scarti da confinare in discariche sociali o ambientali. Determina la concentrazione in pochissime mani di enormi ricchezze, sufficienti a finanziare le campagne elettorali dell’establishment conservatore, sia esso smaccatamente schierato dalla parte degli inquinatori come Trump, Bolsonaro o Salvini, o sia limitato ad un pallido green washing come quello dei tanti democratici moderati. Loro hanno capito benissimo la portata rivoluzionaria di un movimento che rimetta al centro la reale sostenibilità del nostro stile di vita e quindi arrivi al fondo della necessità di cambiare i rapporti di produzione. Per questo negano, zittiscono, denigrano e lanciano vere e proprie campagne di odio contro una studentessa che ha solo puntato il dito contro la nudità del re, ottenendo l’attenzione dei suoi coetanei.
Per questo noi dobbiamo tenere il punto e stare in campo: dopo anni di cloroformio, la battaglia per la giustizia sociale e ambientale è appena cominciata.

Giovanni Paglia è stato deputato della XVII legislatura ed è esponente di Sinistra italiana

L’articolo è tratto dal numero di Left del 22 marzo


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