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Verso le europee, alta tensione in Spagna. Iglesias contro le “cloache di Stato” (video)

In Spagna il clima elettorale è sempre più rovente in vista del doppio appuntamento delle politiche del 28 aprile e poi delle europee. Pablo Iglesias, qui nel video, continua la sua richiesta di verità rispetto allo scandalo delle “cloache di Stato”. Si è aperta infatti con clamore una inchiesta della magistratura su settori istituzionali che ai tempi del primo governo Rajoy avrebbero costruito e provveduto a diffondere dossier per infangare personalità politiche. Tra questi Iglesias, e Podemos, chiamati in ballo per presunti finanziamenti (dal Venezuela).

L’attacco a Iglesias e Podemos fu particolarmente “mirato” in quanto all’epoca dopo le penultime elezioni nazionali era in discussione un possibile governo tra i socialisti e Unidos Podemos che poi non si fece arrivando ad un secondo voto e poi al secondo governo Rajoy cui anche il Psoe diede via libera mentre il segretario Sanchez veniva defenestrato.

Poi Sanchez tornò, Rajoy cadde e ci fu la stagione del governo socialista appoggiato dall’esterno da Unidos Podemos prima della crisi e di questo nuovo voto. Iglesias chiede conto delle “cloache di Stato” a tutti i partiti. Anche al Psoe che pose questioni anch’esso a Podemos rispetto ad una cosa che ora si manifesta come appunto una “cloaca di Stato”. [Left eu]

 

Torre Maura, cento contro uno: per i fascisti è normale (video)

Forti con i deboli. Cento contro uno, per i fascisti è normale e lo dicono anche. Senza vergogna, senza dignità.

Lui è un adolescente di Torre Maura e li affronta a viso aperto, con una forza disarmante, mentre va in scena l’indegno assalto alle famiglie rom a cui sono state assegnate case popolari nel quartiere orchestrato da Casapound e Forza nuova

«Nessuno deve essere lasciato indietro, né italiano, né rom, né africano, né qualsiasi altra persona» dice con fermezza il ragazzo al fascista bolso che gli si para davanti.

«Questa gente è trattata come merce, nessuno deve essere lasciato indietro – prosegue -. È sempre la stessa cosa, quando ti svaligia casa un rom tutti dobbiamo andargli contro, se lo fa un italiano allora stiamo tutti zitti. Si va sempre contro la minoranza, a me non mi sta bene».
Il lugubre bulletto gli risponde e pensa di intimidirlo: «Sei uno su cento, solo tu pensi queste cose».

«Almeno io penso» risponde il ragazzo. «Almeno io non mi faccio spingere dalle cose vostre per raccattare voti».
«E perché quelli della tua fazione politica non ci vengono qui?» replica il fascio come un automa.
«Io non ho fazione politica, io so’ de Torre Maura, tu di dove sei?», lo zittisce il nostro.

E cala il sipario sulla miseria umana.

Video di Alessandro Serranò – Agf

La cittadinanza, Gaber e Toto Cutugno

Italys Interior Minister and deputy PM Matteo Salvini gestures as he welcomes children on November 14, 2018 from a group of 51 migrants from Niger, entitled to international protection, upon their arrival at the Mario De Bernardi military airport in Pratica di Mare, south of Rome. (Photo by Alberto PIZZOLI / AFP) (Photo credit should read ALBERTO PIZZOLI/AFP/Getty Images)

La vicenda di Ramy e Adam ha riaperto le polemiche sullo ius soli e sull’accesso alla cittadinanza. E ha riproposto i dilemmi e le domande che hanno caratterizzato il dibattito negli ultimi anni: cosa significa essere italiano, e chi è degno di diventarlo? Un giovane nato e cresciuto nel nostro Paese va considerato «uno di noi», oppure le sue origini familiari (l’essere figlio di immigrati) ne fanno ancora un estraneo? Si può considerare italiano chi parla anche un’altra lingua, ereditata dai genitori, e magari pratica una religione diversa da quelle ritenute (a torto, ma questo è un altro discorso) «autoctone»?
A queste domande si possono dare, e si sono date, risposte diverse. Così, le destre variamente pentastellate sostengono che non basta nascere e crescere in Italia per essere «davvero italiani». Viceversa, dai banchi del centrosinistra si fa notare che chi vive da sempre nel nostro Paese, chi ha frequentato le nostre scuole, chi ha giocato a pallone coi nostri figli non può che essere «uno di noi». È rimasto famoso un manifesto affisso sui muri di Roma nell’ormai lontanissimo 2003, firmato dai Democratici di sinistra (antenati dell’attuale Pd): accanto alla foto di un bambino dai lineamenti cinesi, campeggiava lo slogan «va a scuola coi nostri figli, tifa per la Roma, adora la pizza: perché domani non dovrebbe votare italiano?». Tifa per la Roma e adora la pizza: più italiano di così… (con buona pace dei tifosi della Lazio, verrebbe da aggiungere).
È davvero una «questione di identità»?
Forse il problema sta proprio qui. Tutti sembrano dare per scontato che per ottenere la cittadinanza si debba «diventare italiani», cioè acquisire l’identità, la cultura o addirittura «i valori» degli italiani. Il che fa nascere la domanda su quali siano questi valori, quale sia l’«identità» o la «cultura» del nostro Paese: un tema su cui…

L’articolo di Sergio Bontempelli prosegue su Left in edicola dal 5 aprile 2019


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Solo i regimi negano il diritto di cittadinanza

Centocinquantamila dicono gli organizzatori. Al di là della disputa sui numeri indubbiamente una marea di donne e uomini hanno manifestato a Verona contro i contenuti clericofascisti del congresso internazionale delle famiglie che ha lanciato anatemi contro l’emancipazione e l’autonomia delle donne.
Con la benedizione di tre ministri della Repubblica nella città veneta è andato in scena un ridicolo circo horror con feti di plastica, croci e finti cilici.
Dio, patria e famiglia, come ai tempi del duce a cui ama alludere Salvini nel linguaggio e nella prassi. Con buona pace dei grillini che, nonostante il teatrino dei continui litigi, tengono ancora in piedi il governo giallonero. Ma la risposta della piazza è stata forte e chiara nel rifiutare gli attacchi alla legge 194 e il tentativo di imporre un’idea religiosa e antistorica di famiglia naturale. Una marea di persone oggi pretende il ritiro immediato del ddl Pillon che rende più difficile divorziare e vuole mettere la mordacchia alle donne e ai bambini che denunciano violenze in famiglia (additandoli come “manipolatrici” e “manipolati”). Tanto che il sottosegretario Spadafora si è affrettato a dire in tv che quel ddl «verrà archiviato e non andrà mai in aula». Non sa che tra i firmatari ci sono anche deputati dei Cinque stelle? Domanda pleonastica.
Ancora una volta fra i grillini c’è chi prova a fare la foglia di Fico. Ma il giochetto è ormai scoperto. Il Movimento che si autoproclama «né di destra né di sinistra» e anti ideologico, in questo anno di governo, ha contribuito a varare provvedimenti ideologicissimi e di ultra destra. Come la legge Salvini su sicurezza e immigrazione che – fra molto altro – toglie la protezione umanitaria, introduce la revoca della cittadinanza e va contro l’articolo 27 della Costituzione che prevede la presunzione di innocenza. Come la legittima difesa che apre al Far West della giustizia fai da te. Come la mini naja (di cui parliamo su questo numero) e molto altro. Minacciando fino all’altro ieri anche di introdurre la castrazione chimica come se fosse un mezzo legittimo e utile a fermare eventuali stupratori. La prassi politica di Salvini, abbracciata in toto da Conte e Di Maio, come è ormai chiaro da tempo, punta a indurre una sensazione di insicurezza nei cittadini agitando il fantasma di inesistenti invasioni di migranti, marchiando gli stranieri come un pericolo per i disoccupati e per le donne, cercando con provvedimenti choc di irretire e paralizzare il senso critico e di imbavagliare la corretta informazione che non si stanca di dimostrare dati alla mano – come ostinatamente facciamo ogni settimana – che la maggior parte delle violenze sulle donne e dei femminicidi avvengono in famiglia, e che in Italia vivono più di 5 milioni di stranieri ben integrati e che costituiscono tutt’altro che un pericolo.
Assai pericolosi sono invece i discorsi paranoicali e persecutori dei fascioleghisti in difesa dell’identità nazionale e dello ius sanguinis. E non si tratta solo di discorsi. Le politiche del governo giallonero negano i diritti umani e criminalizzano, non solo la solidarietà, ma il diritto stesso di avere diritti, come il diritto imposto dalla millenaria legge del mare centrata sull’obbligo di salvataggio, come il diritto ad un approdo sicuro, come il diritto di cittadinanza. Qualcuno lo faccia sapere al capo del Viminale, la cittadinanza non è più da molti secoli un privilegio di pochi, uomini, bianchi, liberi come accadeva nella Grecia antica. Non è più solo dei cives, come dall’antica Roma, dove erano unici titolari della patria potestas (che i crociati di Verona vorrebbero ripristinare) e del dominium su cose e schiavi. Ma non è neanche una concessione del principe o un premio da dare ai più meritevoli, come pretenderebbe Salvini, che dopo l’attentato allo scuolabus voleva togliere la cittadinanza al dirottatore e poi “regalarla” a Ramy e Adam che hanno permesso di evitare il peggio. I due giovanissimi e coraggiosi studenti fanno parte degli 825mila ragazzi, nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri che si sono visti negare lo ius soli da questo e dai precedenti governi. Sono italiani senza cittadinanza a cui hanno bellamente voltato le spalle anche il Pd e il M5s. Ricordiamo qui, brevemente che il definitivo naufragio dello ius soli avvenne il 23 dicembre del 2017 nell’ultima seduta prima della pausa natalizia, quando tutti i M5s e 29 Dem fecero mancare il numero legale al Senato. Alla lunga e inascoltata battaglia per lo ius soli abbiamo dedicato un numero di Left lo scorso agosto, per riportare in primo piano una questione assurdamente depennata dalla agenda politica. Bene che ora la battaglia riprenda, a partire dalle piazze. Saremo con i ragazzi che hanno diritto allo ius soli il 9 maggio.
In vista di questa importante data proponiamo nuovi approfondimenti su questo tema, tornando a parlare di apolidia, una condizione di assenza di diritti che rischia di rendere queste persone “invisibili”, pericolo che corrono anche i giovani italiani senza cittadinanza. Per questa via abbiamo cercato di allargare la riflessione interrogandoci su cosa significhi oggi la parola “cittadinanza” alla luce delle conquiste giuridiche e della scienza. La nascita è uguale per tutti ha dimostrato la moderna psichiatria. La capacità giuridica si acquisisce alla nascita, stabilisce il codice civile e non può essere revocata da Salvini o da chi per lui. Anche a partire da questi presupposti diciamo che la cittadinanza non può essere intesa come un’identità granitica ed escludente. Come ben argomenta Sergio Bontempelli in questa cover story PassaPorti aperti, la cittadinanza italiana è uno status, che comporta diritti e doveri, non è una identità etnico-religiosa basata sulle radici cristiane, o sul fatto di mangiare gli spaghetti ed essere tifosi di calcio! Con Roberto Musacchio poi allarghiamo lo sguardo all’Europa, interrogandoci sulla cittadinanza europea che ancora non c’è dal momento che l’Europa è solo un’Unione di mercati. Un tema che ci riguarda tutti da vicino pensando alle imminenti elezioni e auspicando un’Europa senza frontiere che metta al centro il diritto alla mobilità e alla residenza. Che non metta al centro le merci ma le persone.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 5 aprile 2019


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Caro Salvini, tu da Lucano hai solo da imparare

Caro ministro dell’inferno,

hai sbagliato nemico, con Mimmo Lucano, e non solo perché ti sei accanito come al solito mettendo alla berlina un uomo in difficoltà e un’intera comunità ma perché da Mimmo Lucano, uno come te, fatto di poco o niente, invece avrebbe molto da imparare. Molto.

Potresti imparare la semplicità, ad esempio, di chi ha pensato ai muli e alle persone in difficoltà per superare le barriere architettoniche di una città come Riace, aggrappata e strettissima, mentre tu ancora fai chiasso con le ruspe perché non sai vedere altro che deserto intorno a te.

Potresti imparare il garantismo, quello che qui non va più di moda, quello che in nome di una continua ricerca della vendetta alla fine è andato a farsi benedire con un ministro dell’interno che nell’ultimo anno ha additato come mostri persone che sono risultate poi innocenti senza nemmeno la dignità di porgere una scusa.

Potresti imparare come si affronta un processo. Senza buffonate in diretta video mentre si apre la lettera di indagine. Senza fanfaronate come quell’urlare “io non ho paura!” per poi cercare la sponda dagli amichetti di governo ed evitare così il processo. Lucano si difende nel processo, lo fa in silenzio, i rumori che sentite sono solo i molti che credono nel modello Riace che tutto il mondo ci invidiava e di cui sono rimaste le macerie. Lucano non si difende dal processo, come lei, ministro Salvini.

Potresti imparare l’umanità, anche se su questo punto non nutriamo troppa fiducia, di chi prova a dare agli ultimi una possibilità, una possibilità reale, di sentirsi utili, di essere ascoltati, di essere vivi. Avrebbe potuto vedere come un piccolo paese che era in mano alla ‘Ndrangheta fosse diventato un crogiolo di diverse nazionalità impegnate per rendere il proprio posto un luogo migliore. Ma bisogna avere occhi per accorgersene. E cuore.

Buon lavoro, ministro.

Contro la regionalizzazione della scuola, prove tecniche di sciopero generale

La regionalizzazione è vicina, ma anche lo sciopero generale della scuola è imminente. Nella prima decade di maggio, (il 17 ) lo stesso mese dell’ultima grande protesta, quella contro la Buona scuola, nel 2015. La conferma dello sciopero, che circolava già nell’aria da giorni, è arrivata dopo l’incontro di oggi, 4 aprile, al Miur. Non ci sono state risposte alle richieste avanzate dai sindacati. E allora si prende atto – si legge nel documento firmato da Cgil, Cigl e Uil, Gilda e Snals – dell’apertura dimostrata per un incontro fissato l’8 aprile ma in attesa viene confermato lo sciopero generale di tutto il comparto di istruzione e ricerca per l’intera giornata del 17 maggio. Alla protesta aderiscono anche i sindacati di base, per l’Unicobas, sottolinea il segretario D’Errico è il secondo sciopero contro la regionalizzazione, dopo quello del 27 febbraio.

Uno dei temi “caldi” che allarma tutto il mondo della scuola è proprio l’autonomia differenziata di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, accantonata a febbraio per non creare troppi grattacapi a M5s e Lega prima delle elezioni europee, che tornerà presto sul tavolo del governo e del Parlamento. Che non potrà fare granché, visto quanto prescrive l’articolo 116 della Costituzione, modificato con la riforma del Titolo V nel 2001: «La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».
Dal mondo della scuola è arrivata l’opposizione più forte. Un’istruzione su misura, con dirigenti scolastici e capi degli uffici scolastici regionali alle dipendenze della Regione e con i docenti di nuova nomina negli albi regionali è qualcosa che proprio non va giù. Sarebbe la distruzione dei diritti dei cittadini a ricevere un’istruzione secondo i principi sanciti dalla Costituzione, uguale per tutti, con una minaccia nemmeno tanto velata alla libertà d’insegnamento.

La regionalizzazione del sistema di istruzione figura tra i punti, insieme al rinnovo del contratto nazionale e la stabilizzazione dei precari della scuola e della ricerca, della piattaforma alla base dello stato di agitazione proclamato il 29 marzo dai sindacati Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda.
Nel documento si ribadisce «la centralità del Contratto nazionale di lavoro come strumento di potenziamento della funzione unificante che il sistema di istruzione e Ricerca svolge per l’intero Paese: diritti, doveri e salario debbono essere gli stessi, indipendentemente dal luogo in cui viene resa la prestazione lavorativa». Come sostiene il giurista Mario Ricciardi (v. Left del 4 marzo 2019) la regionalizzazione del comparto scuola è un grimaldello che le destre potrebbero usare per scardinare l’intero impianto della pubblica amministrazione.

I sindacati hanno spiegato in un incontro avvenuto lunedì 1 aprile le ragioni del no alla regionalizzazione da parte del comparto scuola al presidente dell’Anci Antonio Decaro che ha sottoscritto il loro appello.

Risale a febbraio l’appello che tutti i rappresentanti del mondo della scuola, per la prima volta uniti al di là delle appartenenze politiche e delle differenze ideologiche, hanno sottoscritto e che ognuno può firmare qui. «La scuola – si legge nel documento – non è un semplice servizio, ma una funzione primaria garantita dallo Stato a tutti i cittadini italiani, quali che siano la regione in cui risiedono, il loro reddito, la loro identità culturale e religiosa. L’unitarietà culturale e politica del sistema di istruzione e ricerca è condizione irrinunciabile per garantire uguaglianza di opportunità alle nuove generazioni nell’accesso alla cultura, all’istruzione e alla formazione fino ai suoi più alti livelli».

Non solo lo stato di agitazione che prefigura lo sciopero generale. Sono in programma altre iniziative, dopo quelle che si sono tenute in tutta Italia nei giorni di febbraio. Una in particolare è nel cuore della regione autonomista per antonomasia, il Veneto. Passate le tracce del Congresso mondiale delle famiglie e delle loro tesi antiscientifiche (alla presenza del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, notare bene), Verona il 6 aprile sarà il teatro della Conferenza nazionale per il ritiro di qualunque progetto di regionalizzazione dell’istruzione. A promuovere questo evento una rete di associazioni: dalla Lip scuola al gruppo No Invalsi, dall’associazione nazionale per la scuola della Repubblica agli autoconvocati della scuola, fino al Coordinamento per la democrazia costituzionale. Intervengono Floriana Cerniglia docente di Scienze delle finanze all’Università Cattolica di Milano e tra i primi a lanciare l’allarme sull’ipotesi regionalizzazione, Marco Esposito, giornalista de Il Mattino e autore del libro Zero al Sud (Rubettino) una critica approfondita sul federalismo fiscale che penalizza il Mezzogiorno.  Coordinano la docente Rossella Latempa e il dirigente scolastico Lorenzo Varaldo del gruppo dei 500 di Torino. Saranno presenti anche gli insegnanti Marina Boscaino e Carlo Salmaso (Lip scuola), Anna Angelucci, Renata Puleo, e molti altri in rappresentanza di comitati sparsi in tutta Italia.

Il 10 aprile a Bologna, organizzato da Scuola e Costituzione Bologna si svolge una giornata di mobilitazione all’Università con la presenza di sindacalisti, rappresentanti delle associazioni di studenti, insegnanti e genitori. Con approfondimenti teorici di Andrea Morrone, docente di diritto costituzionale e Mario Ricciardi docente di diritto del lavoro. L’Emilia Romagna è la regione con la linea più “morbida” rispetto a Veneto e Lombardia. Per quanto riguarda il sistema scolastico, la regione guidata da Stefano Bonaccini (Pd) chiede di poter gestire la sola istruzione professionale, «la possibilità di integrare l’organico statale con un organico regionale e risorse certe per programmare l’offerta scolastica», si legge nella presentazione dell’evento di Bologna. La conclusione è sempre la stessa: il rischio di avere «tanti sistemi scolastici diversi regione per regione, con programmi, titoli di studio e gestione del personale locali».

 

Storie di donne e migranti al festival del cinema africano

Sarà stata una casualità quasi beffarda, ma proprio nella settimana del lugubre raduno internazionale di bigotti misogini a Verona , il mio percorso, casuale ma obbligato, al Festival del cinema africano, Asia ed America Latina (FESSCAAL 2019) a Milano, è stato guidato prevalentemente da degli sguardi femminili, sia che si trattasse di opere di registe, sia di storie personaggi femminili che narrano il proprio mondo o testimoniano quello altrui.
E’andata così sin dall’anteprima Youth, kolossal melò dello specialista di cinepanettoni ( o meglio cinecapodanni inteso alla cinese, come ha spiegato prima della proiezione Marco Muller) Feng Xiaogang, dove la storia di una compagnia di ballo patriottico ai tempi della Rivoluzione Culturale viene narrata attraverso il percorso divergente di due componenti femminili della stessa troupe : il risultato è un viaggio tra generi diversi, dove la danza di plastiche guardie rosse o eroi della rivoluzione precede la visione di trucide sequenze di guerra, in cui però le operazioni belliche sembrano la continuazione del balletto realsocialista di poco prima.
Uno sguardo invece femminile è quello di Fiore Gemello (in foto) di Laura Lucchetti, film di apertura che vedrete in sala, una storia non convenzionale sul fenomeno dei migranti, che merita uno sguardo anche per la straordinaria intensità dei giovani protagonisti, due non attori di cui sicuramente sentiremo ancora parlare.
Dubito invece che vedrete mai, se non lo incocciate a qualche festival, il bel corto del fotografo Alessandro Basile, Fashion Victims, inquietante mix di interviste a giovani operaie del tessile nel Tamil indiano e immagini splendide della natura in loco : se pensate che una televisione italiana vi faccia vedere cosa c’è dietro il capo a poco prezzo (ma anche più costoso) che tanto vi ha deliziato il pomeriggio di shopping, credo che siate parecchio ottimisti, anche perché, come è stato detto in sala nel dibattito dopo la proiezione, si fa prima a dire quali siano i marchi italiani che non comprano in questa zona che a dire i nomi di quello che invece lo fanno.
Incide invece altrove lo sguardo femminile in modo lucidissimo, rivolgendosi contro le contraddizioni di un mondo che resta abbarbicato a tradizioni religiose e culturali che vogliono la donna esclusa e subordinata, come nel piacevole Freedom Fields di Nazima Arebi, documentario sulle donne della nazionale di calcio femminile libica, che traggono dal gruppo e dalla solidarietà tra loro la forza di sfidare il caos del loro paese e i pregiudizi dei bigotti.
Oppure l’opera prima di Rima Das Bulbul Can Sing, film che per un tratto sembra un idillio bucolico adolescenziale nella campagna dell’Assam, ma che si trasforma improvvisamente nel duro scontro dei sogni d’amore e di libertà con la terribile morale di una società patriarcale che spazza via tutto e tutti.
Società patriarcale che non lascia nessuna pietà per nessuno che sia diverso dalla norma, come in Retablo di Alvaro Delgado – Aparicio, ambientato invece dall’altra parte del mondo, sulle Ande, un altra storia che inizia come un idillio bucolico artistico, un apprendistato all’arte nominata dal titolo (fabbricare piccole scatole decorate con dentro delle statuette) su cui cala all’improvviso una scoperta spiazzante sul conto del padre maestro, fatta per caso da parte del figlio allievo : quando anche la comunità lo scoprirà, la reazione sarà violenta è inesorabile, solo il figlio riuscirà a comprendere e a restare accanto al povero artista fino alla sua fine.
Dopo la visione di questo film mi sono potuto immergere infine nella storia del cinema africano, chiudendo l’ultima serata con la visione dell’omaggio a Djibril Diop Mambéty, con la proiezione di Hyenes, sfavillante adattamento da La visita della Vecchia Signora di Durrenmatt in mezzo all’Africa, e del corto Parlons Grand -Mer, making – off di Yaaba di Idrissa Quédraogo.
Ho fatto solo una rapida rassegna di una parte di quel che ho visto, oltretutto raccontando in pillole film difficilmente visibili dal pubblico che frequenta le sale, dispiaciuto poi anche per il fatto che il gioco tra gli impegni personali, gli orari dei film nelle varie sale sparse nel centro della città, qualche ritardo tecnico, l’effetto maratona festivaliera (dopo il terzo film consecutivo, anche un cinefilo maniaco come me accusa un briciolo di stanchezza) non mi hanno permesso la visione né di Baby di Liu Jie, il vincitore del concorso dei lunghi, né dei vincitori del concorso corti africani

(Brotherhood di Merayam Joobeur) e italiani (La Gita di Salvatore Allocca), ma confido vivamente in qualcuna delle sempre presenti iniziative collaterali del festival, proiezioni speciali che mi
possano colmare questa lacuna, perdonabile dopo dieci giorni intensi di visioni inusuali da un immaginario cinematografici inconsueto.

L’Albania come non l’avete mai vista in Italia, alla Casa del cinema di Roma

«I film albanesi del secondo dopoguerra mi ricordano l’infanzia. Li vedevamo a casa, la domenica all’ora di pranzo perché la domenica la programmazione televisiva era tutto il giorno. Invece durante la settimana partiva dalle 6 del pomeriggio» racconta Nensi Bego, presidente dell’associazione culturale CulturalPro. «Sono film con grandi attori, una bella fotografia e che raccontano un’Albania che non c’è più. Un’Albania bellissima, a livello di paesaggio, di costumi» prosegue Nensi. È vero, nei film di quegli anni è rappresentata un’Albania bellissima. A volte alcuni passaggi di quei film hanno preso vita nel linguaggio quotidiano degli albanesi. Frasi prese in prestito per fare, ad esempio, una battuta. Ad ogni modo sono film che rappresentano un vero patrimonio perché tra il ’46 e il ’90 sono stati realizzati circa 300 lungometraggi. Questo patrimonio del cinema albanese partendo dal secondo dopoguerra fino ad oggi è proposto dal 4 al 7 aprile presso la Casa del cinema di Roma con la prima edizione di Albania, si gira! 

«Questo progetto – prosegue Nensi Bego – è nato da un idea di mio fratello Fabio Bego, esperto di storia dei balcani e cinefilo nonché socio di Aisseco (Associazione italiana studi di storia dell’Europa centrale e orientale, ndr) suscitando immediatamente l’entusiasmo di tutti noi perché è un festival del cinema storico». In effetti, in programma alla Casa del cinema ci sono alcuni dei film che hanno fatto la storia del cinema albanese, con pellicole (35 mm) dell’Archivio centrale di Stato del cinema d’Albania per la prima volta proiettate fuori dai confini nazionali e tradotte in italiano. Ne citiamo qui alcune.

Generale Grammofono/Gjeneral Gramafoni e Concerto nell’anno 1936/Koncert ne vitin 1936 Entrambi parlano di musica e di due percezioni diverse che gli albanesi hanno degli italiani. Sono entrambi film della propaganda comunista.

L’uomo con il cannone/Njeriu me top e Caro Nemico/I dashur armik trattano lo stesso tema, l’ospitalità del popolo albanese che durante la guerra ha rischiato la vita per nascondere anche gli ex-nemici. I film sono stati realizzati in due periodi storici diversi, durante e dopo il comunismo. Caro Nemico ha vinto il premio Miglior Sceneggiatura al Sundance Film Festival.

L’ultima volontà/Amaneti, Bota Cafè e Papaveri rossi sui muri/Lulekuqet mbi mure I primi due parlano della persecuzione politica e i suoi effetti. Mentre l’ultimo parla dell’occupazione fascista, la guerriglia comunista e la mobilitazione dei giovani nella guerra antifascista.

Est Ovest Est/Lindje Perendim Lindje e Lettere al Vento/Letra ere Entrambi parlano del periodo della fine della dittatura in due modi completamente diversi. Lettere al Vento tratta il tema dell’esodo degli albanesi verso l’Italia mentre Est Ovest Est parla di cinque ciclisti che si ritrovano incastrati in Italia, alla caduta del regime, abbandonati dallo Stato che non esiste più e senza soldi (in una controtendenza) cercano di rientrare in patria mentre tutti fuggono. Est Ovest Est ha avuto tra gli altri premi anche una Nomination all’83 esimo Academy Awards come Miglior Film in Lingua Straniera.

Il festival – ideato e curato dall’associazione culturale CulturalPro in collaborazione con l’ambasciata della Repubblica d’Albania in Italia, il ministero della Cultura albanese, l’Archivio centrale di Stato del cinema d’Albania e il patrocinio dell’associazione italiana Studi di storia dell’Europa centrale e orientale e l’associazione Integra onlus – è ad ingresso gratuito e ospiterà quotidianamente esponenti del mondo cinefilo albanese e italiano – registi, musicisti, sceneggiatori. Da segnalare infine i contributi di storici dell’Aisseco che accompagneranno il pubblico in una doppia esplorazione: da un lato facendo scoprire come la cinematografia albanese ha riflesso e in parte forgiato l’identità storica e sociale del Paese, dall’altro il modo in cui si sono articolate le relazioni tra albanesi ed italiani.

Info su: http://festivaldelcinemalbanese.it/

La forza dei rifugiati, vittime due volte

O. è originario del Gambia, ha studiato e parla diverse lingue. Membro dei servizi segreti gambiani, nel 2012 si trova in Europa per lavoro. Accusato di collaborazione con l’opposizione, è costretto a restare fuori dal suo Paese, lasciando moglie e due figli. Vagabonda per l’Europa per oltre due anni, restando ai margini della società, vivendo per la strada e mangiando dalla spazzatura, finché non viene rintracciato dalla sorella che vive a Roma. Preoccupata per il suo stato di salute, lei lo porta a fare una visita medica al centro Samifo (Centro salute migranti forzati a valenza regionale della Asl Roma1/Centro Astalli). O. manifesta allucinazioni uditive (persone conosciute e sconosciute che lo deridono), isolamento e deliri persecutori; rifiuta il cibo dei familiari e si alimenta dalla spazzatura, forse per paura di essere avvelenato, le sue condizioni igieniche sono pessime. Ha reazioni aggressive soprattutto nei confronti delle forze dell’ordine, che gli rievocano il lavoro nei servizi segreti. Viene preso in carico presso il Samifo e, dopo diversi tentativi di terapia e ricoveri in ospedale, si riesce a costruire con lui un progetto di cura. Nel frattempo, O. ottiene la protezione e l’inserimento presso un centro di seconda accoglienza (Sprar) per disagio mentale. Effettua ora un progetto terapeutico-riabilitativo in strutture del Dipartimento di salute mentale della Asl Roma 1 e ha anche svolto un percorso di acquisizione di specifiche competenze nella ristorazione nell’ambito del progetto Fari (vedi box a pag. 58, ndr). La presenza della sorella, la relazione di fiducia con gli operatori del centro Samifo e la presa in carico sanitaria e psichiatrica hanno permesso a O. di migliorare la propria condizione di salute raggiungendo una soddisfacente stabilità psichica. Ma questo purtroppo non accade di frequente; spesso i bisogni primari dei richiedenti asilo o titolari di protezione (Rtp) vengono soddisfatti, ma non quelli di salute e sociali. Perché? E come possiamo intervenire?…

Rossella Carnevali è una psichiatra e psicoterapeuta. Ha partecipato al progetto Fari 1 (Formare assistere riabilitare inserire) di Roma. Il 7 aprile (ore 15) nell’ambito de Lo Spiraglio filmfestival, al Maxxi di Roma, sarà proiettato il docufilm fuori concorso “Reaching Terminus: vignettes of refugees’ daily life in Rome” che racconta attività realizzate nell’ambito del progetto Fari.

L’articolo di Rossella Carnevali prosegue su Left in edicola dal 5 aprile 2019


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Cambiare metodo

epa07474813 Slovak presidential candidate Zuzana Caputova speaks to journalists during an elections night at her election headquartes in the Slovakia's presidential election run-off in Bratislava, Slovakia, 30 March 2019. After most of votes counted Zuzana Caputova is heading for victory in the presidential run-off elections and Slovakia's first female president. EPA/MARTIN DIVISEK

Dicono che non funzioni, cambiare il metodo con cui si sta cercando di combattere i populisti sovranisti. Ci dicono che siano irrefrenabili nella cavalcata verso le europee e intanto si spremono per raccontarli brutti, sporchi e cattivi. Il messaggio politico è sostanzialmente questo: votate noi perché siamo meno peggio di loro. Come se non sapessero che la politica del meno peggio porta sempre al peggio, è matematico. Così come inseguire la destra farà vincere sempre la destra. E così l’alternativa, spesso, si riduce al promettere che non ci saranno più quelli come se fosse davvero un messaggio politicamente interessante, degno di attenzione e di voti e soprattutto come se davvero si possa intravedere un progetto diverso di Paese dietro tutta questa banalità.

In Slovacchia, non so se ve lo siete perso, ha vinto le elezioni, a sorpresa, Zuzana Caputova, una donna che nel 2016 ha vinto il Goldman Environmental Prize 2016, il Nobel per l’ambiente, per dire. Una donna senza mezze misure ma con idee talmente chiare da non avere nessun bisogno di alzare la voce o di lasciarsi andare a fanfaronate di sorta. Caputova ha iniziato a fare la politica, quella vera, che si occupa dei propri spazi, partendo dalla città in cui viveva, Pezinok nella Slovacchia occidentale, dove ha impedito la costruzione di una nuova discarica non solo con le sue doti da avvocatessa ma mettendo insieme giornalisti, artisti, cittadini, produttori di vino con concerti, mostre fotografiche e manifestazioni pacifiche. Ha trovato la sintesi di diversi bisogni governandoli per ottenere un risultato. Se non è politica questa.

Sono quelli che spesso i giornalisti con una certa superficialità chiamano rivoluzione gentile e che invece dimostra come l’ambientalismo (e le donne) siano il futuro di una politica capace di cambiare metodo, di utilizzare un vocabolario nuovo non solo nelle parole ma anche, e soprattutto, in una visione del mondo. «In nome della correttezza, del diritto, di ogni vero valore cristiano, anche verso gli Lgbt e i migranti. Io mi batto per la gente stanca delle ingiustizie, per i citoyens, i cittadini coraggiosi decisi a dire basta a ogni strapotere e a ogni ingiustizia e abuso, per i cittadini scesi in piazza in una mobilitazione senza precedenti protestando contro l’orribile assassinio del giornalista Jan Kuciak e della sua fidanzata. Io sono qui per tentare di incarnare il cambiamento, l’alternativa, e dare voce al cambiamento, per aiutare i cittadini a costruire una Slovacchia dignitosa Stato di diritto, una democrazia dove dominerà la gentilezza e correttezza nel confronto politico», ha detto Zuzana. E quasi viene voglia di riaccendere la speranza.

Buon mercoledì.