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Non una di meno all’attacco del governo giallonero

La manifestazione di protesta in piazza San Domenico a napoli di alcune decine di attivisti della rete '#Nonunadimeno' si sono radunate gridando con slogan ed esonendo striscioni contro ddl Pillon sull'affido. 9 novembre 2018 ANSA / CIRO FUSCO

Da Bologna a Pisa, fino a Catania. In tutta Italia, con manifestazioni e iniziative simboliche, è partito il countdown verso lo sciopero femminista dell’8 marzo indetto dal movimento internazionale Non una di meno. A due anni dalla prima volta in cui le donne incrociarono le braccia in tutto il mondo, bisogna riconoscere loro il merito di aver liberato dalla polvere una celebrazione fatta, in precedenza, solo di mimose e di buoni propositi. Di fronte a femminicidi (uno ogni tre giorni, lo scorso anno), violenze, molestie, una differenza salariale ancora pesante e un montante clericofascismo maschilista che si propaga dalle istituzioni del nostro Paese, questo sciopero è una sfida che vuole riportare al centro del dibattito pubblico l’urgenza – non più rimandabile – del riconoscimento dell’identità femminile.

Esplicitamente negata dal ddl Pillon, che rappresenta non a caso il bersaglio critico privilegiato del movimento, tacciato di «attaccare le donne, strumentalizzando i figli». Un provvedimento contrario alle norme internazionali sulla tutela dei minori (Convenzione di New York, 1989) e sul contrasto alla violenza sulle donne (Convenzione di Istanbul, 2011), come è arrivata a segnalare persino l’Onu.

Tra i punti più contestati, la bigenitorialità perfetta, che divide in modo ottusamente paritetico i tempi di permanenza del figlio presso entrambi i genitori. Trattando i bambini – di fatto – alla stregua di una “valigia”. E poi l’abolizione del mantenimento, l’obbligo del ricorso alla mediazione familiare che impone di incontrarsi e trattare anche col coniuge violento, gli ostacoli che vengono posti alla fuoriuscita da situazioni di violenza domestica, a partire dalle sanzioni e ritorsioni sull’affidamento previste nel caso in cui la denuncia del partner non porti ad una condanna.

Contro questo attacco, il movimento internazionale ha avuto la capacità – e questo è forse il suo pregio più grande – di proporre una visione radicalmente diversa della società. Per questo, anche la legge “immigrazione e sicurezza” voluta da Salvini è nel mirino delle attiviste. La norma che ha tolto tutele ai migranti è l’altra faccia di una stessa ideologia, che punta a ridurre alcuni esseri umani a pura forza lavoro – che…

L’inchiesta di Leonardo Filippi prosegue su Left in edicola dal 15 febbraio 2019


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Riapre la caccia a Satana. Come e perché in Italia gli esorcisti sono tornati di moda

Roma, 7 lug. (askanews) - "Nei cuori e nelle menti dei governanti e in ognuna delle fasi d`attuazione delle misure politiche c`è bisogno di dare priorità assoluta ai poveri, ai profughi, ai sofferenti, agli sfollati e agli esclusi, senza distinzione di nazione, razza, religione o cultura, e di rigettare i conflitti armati". Lo ha scritto Papa Francesco in un messaggio inviato ad Angela Merkel in occasione dell`apertura dei lavori del vertice del G20 ad Amburgo. "La gravità, la complessità e l`interconnessione delle problematiche mondiali - prosegue il Papa - sono tali che non esistono soluzioni immediate e del tutto soddisfacenti. Purtroppo, il dramma delle migrazioni, inseparabile dalla povertà ed esacerbato dalle guerre, ne è una prova. E` possibile invece mettere in moto processi che siano capaci di offrire soluzioni progressive e non traumatiche e di condurre, in tempi relativamente brevi, ad una libera circolazione e alla stabilità delle persone che siano vantaggiosi per tutti". "Tuttavia, questa tensione tra spazio e tempo, tra limite e pienezza, richiede un movimento esattamente contrario nella coscienza dei governanti e dei potenti. Una efficace soluzione distesa necessariamente nel tempo sarà possibile solo se l`obiettivo finale del processo è chiaramente presente nella sua progettualità", conclude Francesco.

Il nostro Giulio Cavalli ha scoperto che tra le proposte formative per docenti del ministero dell’Istruzione, università e ricerca figura anche un corso su esorcismo e preghiera di liberazione. A noi di Left questa inquietante notizia non sorprende perché questo corso lo abbiamo seguito tre anni fa, come giornalisti accreditati ovviamente. Ed ecco cosa scoprimmo…

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La distanza tra il XXI secolo e il Medioevo più retrivo si misura in una rampa di scale. Quella che si scende lasciando alle spalle la soleggiata campagna romana lungo l’Aurelia antica, per seguire (come giornalisti accreditati) l’XI Corso di base sul ministero dell’esorcismo nel buio auditorium del Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Dal palco parlano quattro esorcisti di grido (per chi è del ramo): don Aldo Buonaiuto (proprio colui che durante il festival di Sanremo si è scagliato contro Virginia Raffaele con la “benedizione” del ministro dell’Interno Salvini, ndr), padre Francois Dermine, monsignor Larry Hogan e don Antonio Mattatelli. Di fronte a loro una platea di circa 200 persone, in gran parte ecclesiastici e quasi tutti stranieri (asiatici e africani). La tavola rotonda di sabato 9 aprile chiude una settimana di studi e formazione «aperta anche ai laici» durante la quale, recita il depliant, si insegnano le pratiche del rito di liberazione dalle possessioni e dalle influenze diaboliche. Nel programma figurano nomi di giuristi, avvocati, professori universitari italiani, tra cui Anna Maria Giannini, docente di Psicologia clinica alla Sapienza di Roma, che si è occupata degli «aspetti psicologici della manipolazione mentale». Il compito, specie per gli avvocati, è quello di insegnare ai futuri esorcisti come difendersi e come evitare eventuali denunce per maltrattamenti, abusi, violenze di vario genere che i presunti “posseduti” ritengono di aver subito dal prete esorcista e dai suoi collaboratori durante il rito di liberazione dal demonio. Cosa che evidentemente accade non di rado. «Abitando in una società molto secolarizzata nella quale più che in passato vi è la tendenza ad aprire le porte all’occultismo e all’esoterismo, l’azione diabolica è favorita dalle pratiche magiche e dal ricorso agli indovini, che possono avere un influsso reale fino alla possessione» ammonisce padre Pedro Barrajon, moderatore della tavola rotonda. I relatori, sulla base delle rispettive esperienze, dispensano consigli e invitano a distinguere con prudenza i diversi casi. Esistono infatti dei criteri precisi per riconoscere un indemoniato. Sono gli stessi del famoso film-horror del 1973: «La repulsione degli oggetti sacri, la capacità di parlare lingue morte, una forza sovrumana e la presenza indesiderata nel soggetto di un altro essere». Tuttavia, osservano i quattro esperti, l’inganno o l’errore è sempre in agguato: se necessario, è fondamentale agire in collaborazione con psichiatri e psicologi. «Un prete può intuire se il caso va trattato con la psichiatria e con l’esorcismo», osserva l’esorcista Buonaiuto. Come se fossero discipline equivalenti. «In questo modo – prosegue – si possono affrontare i diversi pericoli che provengono dalle sette, le pratiche esoteriche, magiche o sataniche». Interviene quindi un medico dell’Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici che, auspicando l’intensificarsi delle collaborazioni, conferma convinto: «In seduta faccio sempre recitare una preghiera di liberazione ai miei pazienti». Chissà cosa ne pensa l’Ordine dei medici? Non esistono dati certi sulla diffusione del fenomeno nel nostro Paese e i quattro esorcisti si tengono sul vago affermando che è in aumento. Nel 2012 un’inchiesta di Panorama parlava di circa 500mila persone che ogni anno chiedono di essere liberate dal diavolo e calcolando che 10 milioni di italiani almeno una volta nella vita si sono rivolti a un mago o a un esorcista. Ma sono dati identici a quelli resi noti sempre dalla Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici già a partire dal 2002 e senza fornire indicazioni sulle fonti e sul metodo di ricerca. Quindi molto probabilmente falsi. Più precise sono le cifre del ministero dell’Interno relative alle sette che soggiogano le persone e si pongono in “competizione” con la Chiesa cattolica: la polizia individua 2-300 affiliati l’anno. (Davvero poca cosa, diversamente da quello che sostiene il ministro Salvini su “consiglio” dell’esorcista Buonaiuto il quale per anni, fino a quando è esistita, è stato consulente proprio della Squadra antisette della Polizia di Stato).

I docenti del master pontificio affermano che l’esorcismo è sempre gratuito e me lo confermano dietro assicurazione di anonimato tre “studenti” del corso. Quello che costa caro è prendere dimestichezza con Satana: 300 euro per l’iscrizione, 250 per la traduzione simultanea richiesta da quasi tutti i 200 aspiranti esorcisti. E poi ci sono i libri di testo, quelli consigliati e così via. Per avere un attestato di frequenza si spendono almeno 7-800 euro. Moltiplicando per il numero degli iscritti fa 160mila euro nelle casse degli organizzatori: l’Ateneo, il Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa e l’Associazione internazionale esorcisti (Aie). Verrebbe da dire ricorrendo a un vecchio detto popolare che «è nei dettagli che il diavolo nasconde la sua coda». (Nell’articolo  di Giulio Cavalli emerge che il corso proposto dal ministero della Pubblica istruzione agli insegnanti italiani verrebbe a costare 400 euro! Oltre i libri, immaginiamo…). Sebbene questo corso di formazione si sia auto attribuito, oltre a quello teologico, anche un carattere di scientificità, l’esistenza del demonio non è mai stata messa in discussione. Del resto questa convinzione è un punto fermo della Chiesa, anche di Bergoglio. È stato lui a benedire nel 2014 il riconoscimento giuridico dell’Aie che oggi conta circa 300 adepti (quasi tutti italiani: sono ben 240 gli esorcisti nel nostro Paese!), da parte della Congregazione per il clero. E, dopo aver citato il demonio ben quattro volte nei primi dieci giorni del suo pontificato, Francesco lo ha nominato con cadenza regolare nelle sue omelie. Il diavolo avrebbe anche la responsabilità di tutti gli scandali che hanno colpito la Chiesa dall’interno, degli affari illegali targati Ior, della pedofilia clericale, delle guerre intestine che minacciano la stabilità della Curia, delle fughe di notizie riservate sulla Santa Sede. Ma Satana per il papa è anche il «padre delle guerre». Di più, «è il padre dell’odio, delle bugie, delle menzogne, perché non vuole l’unità» tra gli esseri umani. Lo ha detto ad alcuni bambini durante una visita alla parrocchia di San Michele Arcangelo nel 2015 spaventandoli. Secondo papa Francesco, tutti i bambini hanno a che fare con il demonio: «Quando voi sentite nel cuore odio, gelosia, invidia state attenti perché viene dal diavolo; quando sentite la pace, viene da Dio» ha detto loro. Si tratta di una citazione degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola – «l’uomo vive sotto il soffio di due venti, quello di Dio e quello di Satana» – ed è facile intuire il terrore che può incutere in un bimbo di sei anni. Ma nessuno si è indignato. «Nel “posseduto” – spiega a Left lo psichiatra Domenico Fargnoli – si è creata una frattura apparente con la comunità ecclesiale. Paradossalmente in lui c’è un tentativo di liberarsi dal delirio, di ribellarsi a Dio, attraverso il demonio. Ma ovviamente senza una cura psichiatrica valida e adeguata non ce la fa. In tal senso l’esorcismo serve a ricondurre l’indemoniato verso un delirio “condiviso”. È la vecchia formula del trattamento morale: combattere il delirio “individuale” demoniaco per condurre la persona al rispetto di quelle che sono credenze condivise dalla comunità cattolica, vale a dire la legge divina. Il massimo che riescono a concettualizzare gli esorcisti e chi dà loro credito, è questo. In pratica si passa da una forma di delirio a un’altra».

Articolo pubblicato su Left del 16 aprile 2016

PER APPROFONDIRE:

Left del 21 dicembre 2018 Non gli resta che il diavolo

Giustizia divina di Emanuela Provera e Federico Tulli (Chiarelettere, 2018)

Mi piacerebbe

Mi piacerebbe, proprio mi piacerebbe tantissimo, ascoltare gente in giro che si scosta, che dice mi scusi, che chiede per cortesia, e che si ammorbidisce di fronte a vecchi e bambini, che siano gialli, rossi, neri, bianchi, storpi, sani, malati, alti, nani, belli, bruttini, simpatici, rognosi.

Mi piacerebbe incontrare gente che mi dice grazie, o per favore e mi piacerebbe imparare a non limitarmi a porre le domande per cortesia ma addirittura ascoltare le risposte, come fa il Bubu. Ascoltare, sapere, occuparsi, preoccuparsi di come sta la gente che ho intorno, che incrocio, con cui ho a che fare e che troppo spesso ci inciampo come se fossero marciapiedi o sassi. E invece sono persone.

Mi piacerebbe prendere una siringa, un estrattore, uno di quei marchingegni da scienziati topi di laboratorio e riuscire a rubare il fluido che tiene insieme le persone. Che le tiene insieme nonostante tutto. Quelle che riescono a dire di qualche parente o di una persona che amano “questo di lui proprio non lo sopporto” e lo dicono con il cuore che sanguina amore.

Mi piacerebbe vivere in un Paese in cui incontro gente che mi dica “no, questo non lo so fare” , oppure “per fare questo c’è gente molto più preparata di me”. Sarebbe incredibile, vero?

Mi piacerebbe sentire “ho sbagliato” e avere il coraggio di dirlo più spesso. Al bar, sentire bullarsi delle proprie sconfitte, oltre che delle vittorie, raccontando come in fondo siamo tutti così fallibili, soli e persi, in questo mondo.

Mi piacerebbe che un’opinione non marchiasse la sua persona. Ma che abbia il dovere di essere argomentata. Altrimenti sarebbe uno spot. E allora mi piacerebbe alzare la mano e urlare “e no! e basta! con ‘sti spot! Anche fuori dall’intervallo dei partite o dei film! Basta con gli spot fuori dalla televisione! Ma non vi sentite ridicoli a fare gli spot ambulanti, dal vivo, come gli uomini hamburger che invitano ad approfittare del cheeseburger in offerta a un dollaro!”.

Mi piacerebbe vivere in un Paese in cui stare male sia un problema talmente diffuso che chiunque stia troppo bene abbia il dubbio di godere di qualcosa che forse sarebbe meglio dare agli altri. Ve li immaginate? Milioni di persone che si incontrano in piazza e si dicono: “Ti devo qualcosa?” oppure “ho esagerato in qualcosa” e tutti che si mettono d’accordo. A posto così.

Mi piacerebbe vivere in un Paese giusto. Mica giusto perché ha fatto i conti giusti con la giustizia. Giusto perché ognuno pensa di averci messo del suo, per quel che può.

Buon giovedì.

Galeotte furono le grandi opere

“Aguzzate la vista”: su grandi opere e privatizzazioni sembra che Pd e Lega si differenzino solo per alcuni piccoli particolari. Il paesaggio politico richiama così uno dei giochi della nota rivista che vanta innumerevoli tentativi di imitazione. È il partito delle grandi opere. Tra la legge Obiettivo di Berlusconi (definita «criminogena» dall’autorità anti-corruzione) e il contratto di governo giallonero ci sono anche i vari Salva Italia, Sblocca Italia e il Regolamento Madia del 2016 che affida al premier i poteri in caso di grandi opere strategiche. Un nastro di asfalto e cemento armato, insomma, lega centrodestra e centrosinistra: un business che sta tutto nella costruzione, messo al riparo da un vero controllo democratico.

Quella delle grandi opere è l’ideologia di un solido conglomerato di interessi imprenditoriali, politici, finanziari e accademici; è trasversale e strettamente abbarbicata a un’idea di sviluppo che fa leva, in questi tempi di decrescita infelice, sulla nostalgia per gli anni del boom economico, come dimostra il successo della chiamata delle madamine torinesi che ha riempito di leghisti e piddini una piazza di Torino in nome del Tav, o il richiamo a quell’opera perfino nella piattaforma di Cgil, Cisl e Uil da piazza S. Giovanni, a Roma, solo pochi giorni fa.
Tap, terzo valico, trivelle, Mose, quadrilateri, pedemontane, stadi, olimpiadi fino a quel Ponte sullo Stretto mai archiviato, non c’è grande opera che non veda Pd e Lega schierati insieme nel decantarne le magnifiche doti. Prendiamo la BreBeMi, sigla che sta per Brescia-Bergamo-Milano, una delle 418 opere previste dalla legge Obiettivo: si tratta di un’autostrada parallela a un’altra esistente, nella regione che già possiede la maggiore densità di infrastrutture stradali, dove il livello di inquinamento dell’aria è tra i peggiori d’Europa e proprio nel Paese che consuma più suolo nel Vecchio continente.

Un’operazione spacciata come…

L’inchiesta di Checchino Antonini prosegue su Left in edicola dal 15 febbraio 2019


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Vita di Pi

Nel secondo anniversario della scomparsa di Massimo Fagioli, vi proponiamo una lettura originale del film di Ang Lee firmata nel 2014 dallo psichiatra dell’Analisi collettiva

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È un film di Ang Lee che narra, splendidamente, la storia di un ragazzo indiano che, per un naufragio, rimane in una barca insieme ad una tigre del Bengala. Alla fine svela che è un uomo adulto che aveva raccontato la sua storia. Era la sera di Capodanno. Senza sognare vidi che il film parlava del rapporto bambino-madre. Mi sentii, subito, ragazzo indiano… e la tigre? Il giorno dopo, in quella piccola ed anomala siesta tra sonno e veglia, che anticipa quella del primo pomeriggio, vennero le memorie di un tempo passato quando la Democrazia cristiana veniva chiamata “Balena bianca”. Ma la tigre era troppo grande e affascinante per essere la grossa e pesante Dc. Poi pensai: è meglio vedere, nella bellezza e forza della tigre feroce, il comunismo che seduce e porta, come Circe la diva fatale, ad essere animali, perché ha pensato soltanto ai bisogni e non alla realtà mentale ed alle esigenze. Poi la memoria disegnò, tracciando una linea a semicerchio, il legno e la sua forma all’interno dello studio di via Roma Libera e le parole pronunciarono un suono che disse: la barca! Vidi l’immagine non pensabile dell’Analisi collettiva che fu dialettica mortale. Avevo avuto sempre uno strano amore per un rapporto, mai esistito, tra un ragazzo “indiano” e la realtà della mente umana, detta inconscio, di migliaia e migliaia di persone sconosciute. La mano, spinta dal braccio, si allungò a prendere il Fatto quotidiano del 31 dicembre che stava, forse dimenticato, sulla mensola dello studio dalle pareti di vetro. Mi guardo intorno e vedo che pochi gabbiani riescono a lanciare lo sguardo all’interno anche se è posto in alto, all’ultimo piano di un antico palazzo. Mi dissero che i gabbiani sono stupidi, non vedono bene gli oggetti ma soltanto ombre perché si muovono veloci nell’aria pensando soltanto agli insetti che possono ingoiare tenendo il becco aperto. Non mi ero soffermato a leggere il giornale del 31 dicembre anche se, nel mezzo di una larga colonna in prima pagina, venivo nominato. “È la solita ingiuria per l’antico odio misterioso, espresso con il termine «poetico» di psicoguru, un santone speciale”, pensai. Non esistono una laurea in medicina con lode, una specializzazione in Neuropsichiatria con il massimo dei voti. Non esiste il posto di ruolo negli ospedali di Venezia e Padova, il primario della Comunità terapeutica a Kreuzlingen, in Svizzera dal famoso Binswanger. Non esiste il training detto psicoanalitico, non esistono 16 volumi di teoria sulla realtà mentale umana.

Non esistono i giudizi dei colleghi medici «uno dei più illustri psichiatri italiani del secolo scorso o francesi: il più grande psichiatra italiano». Non esiste “la medaglia d’oro dell’Ordine dei Medici” per una vita professionale qualificante, inequivocabile, esemplare. Non esistono undici anni di corsi di psicologia dinamica all’Università di Chieti. Non esistono 38 anni di psicoterapia di gruppo con l’interpretazione dei sogni che non è potuta mai esistere perché si credeva che i sogni erano mandati dagli dei, dal dio unico o dal diavolo. Non esiste una ricerca di 70 e 40 anni, molto di sinistra, insieme a tutti coloro che liberamente scelgono di venire, senza differenze di classe e di possibilità economica. Non esistono otto anni di costante collaborazione con Left. Sul Fatto quotidiano c’era soltanto il travaglio del ridacchiare scemo che avevo visto il 23 ottobre, con i termini “Fagiology, Scientology”. Ma, mentre ero contento che tale noto giornalista “non capisse niente” dei miei scritti, mi fermai attento sulla frase «Così, aggiungo io, risolverete come me il tragico problema dei fagiolini». Non riesco a fermare il ricordo di scene cinematografiche in cui Himmler e camerati discutevano su come risolvere il tragico problema degli ebrei, zingari, omosessuali e comunisti, ovvero chiunque non fosse (democris…) di razza ariana. E viene l’idea, forse per una crisi di buonismo di cui sono affetto, che dovrei ringraziare Travaglio che mi avverte che “dietro” c’è una destra e qualcuno di “sinistra” che vogliono eliminare oltre l’Unità, Left, L’Asino d’oro edizioni… e l’Analisi collettiva. E viene il superbo pensiero che sta nel ricordo di quando, a Campo de’ fiori, mi sedevo sul piedistallo di Giordano Bruno. O è un tragico umorismo che nasconde altrettanta voglia di rendere non esistente una ricerca che, in mezzo secolo, si è sviluppata ed approfondita? E (non) riesco a pensare alla giornalista russa che si è suicidata per essere stata diffamata e calunniata. Difficile pensare ad una cattiveria da parte di persone mai viste e conosciute. È ideologia politica o credenza religiosa? Ma non importa. Vedrò se il Fatto quotidiano riuscirà a dire meglio ciò che Anna Homberg prima, poi Left e l’Unità con De Simone e Profeti hanno rivelato, ovvero che la matrice del nazismo sta nel pensiero del cattolicissimo Heidegger, come ha confermato Faye con il suo “negazionismo ontologico”, quando fa il nesso con la scoperta della pulsione di annullamento. Lo avevo intuito da piccolo, che nel nazifascismo c’era l’istinto di morte. Lo scrissi quasi cinquanta anni fa dicendo che la nascita umana è fantasia di sparizione e realtà biologica nuova con la memoria-fantasia dell’esperienza fisica avuta nel contatto della pelle del feto, ancora senza vita umana, con il liquido amniotico, e non Geworfenheit che è parto animale. Nella nascita umana c’è una trasformazione che crea una realtà biologica che gli animali non hanno.

Articolo pubblicato su Left del 18 gennaio 2014

La rivoluzione del pensiero

Stiamo vivendo una stagione molto dura e difficile, che spinge a pensare al peggio. Se solo ci facciamo soffocare da quello che una volta si sarebbe chiamato lo zeitgeist (lo “spirito del tempo”) si dovrebbe rimanere paralizzati. Tutto sembra andare a rovescio; diritti e conquiste sociali raggiunti con fatica sembrano dimenticati, si riaffacciano fantasmi del passato che credevamo sconfitti, e, fatto forse ancora più grave, tutto sembra come oscurato da una coltre pesante di costruzioni dottrinarie violentissime nei confronti delle donne degli uomini. Si tratta di un pulviscolo denso che entra negli occhi, e offusca la vista ma non dice la verità. La verità è che gli esseri umani nel corso della loro storia sono stati schiacciati e talvolta annichiliti per lunghi periodi da sistemi politici ed economici spesso dispotici, sono stati confusi e soggiogati da teorizzazioni e affermazioni il cui unico scopo consisteva nell’impedir loro di pensare e di vedere la realtà. La storia umana ci racconta però di una capacità di resistenza, di una ribellione, ora silente ora esplicita, in grado di tenere accesa la fiamma della vitalità e dell’immaginazione. Anche nei periodi più aridi e inospitali (penso che questo riassuma la storia millenaria delle donne) gli abitanti del pianeta sanno fare come i torrenti nelle regioni desertiche: conservano le loro preziose gocce d’acqua scegliendo di adattarsi a percorsi sotterranei e, mentre sembrano svaniti, sono capaci di riemergere con la forza della stagione nuova. Di questa indomita opposizione è necessario parlare. Per questo è importante che facciamo coraggiosamente ricerca. Certo non dimenticheremo di protestare e di lottare sempre, dove necessario, opponendoci all’ingiustizia e alla violenza, ma la cosa più radicale di tutte è opporsi al pensiero dominante che giustifica e legittima quell’ingiustizia e quella violenza. È sul pensiero che si gioca la partita più importante, perché da sempre l’ingenuità e la fragilità umana concedono credito a narrazioni costruite per accecare e dominare, a ideologie che dicono il falso sulla realtà umana. La società Venti secondi ha proposto, fin dall’anno passato e raccogliendo un sentimento condiviso da molti, un ciclo di incontri tesi a ricostruire la “storia” delle origini, indagando sulle condizioni iniziali dell’abitare umano e su quali siano stati i primi passi nel campo dell’arte, del linguaggio e della scrittura, della “politica” e dell’“economia” (ante litteram). La suggestione profonda che ha dato il via a questa audace avventura stava tutta nella Teoria della nascita e nella prassi terapeutica e di ricerca dello psichiatra Massimo Fagioli, scomparso il 13 febbraio 2017. L’iniziativa intendeva scandagliare le ricadute dirompenti che il pensiero di Massimo aveva già cominciato a dispiegare in campi del sapere e della conoscenza anche non direttamente contigui al mestiere di psichiatra che pure fu la sua ragione di vita. C’era finalmente la certezza che la scoperta dell’origine biologica del pensiero e dell’identità umana fondata sul non cosciente, sulla fusione tra corpo e mente, sull’immagine prima che sul linguaggio articolato, sulla donna e sul bambino prima che sull’uomo adulto raziocinante, sovvertisse (e rifiutasse) un pensiero millenario che ha pesato sull’umanità più del macigno di Sisifo, obbligandoci a credere all’esistenza del male dentro di noi, alla “mancanza” originale (il peccato), ad un’impotenza ontologica. Ci siamo dunque chiesti, in molti, come custodire e tutelare questo lascito, ma soprattutto come proseguire un lavoro di studio e di ricerca che riuscisse a porre nuove domande, a suggerire l’apertura di nuovi percorsi, a consolidare gli antichi, a coinvolgere e stimolare nuove generazioni a dare contributi inaspettati e fecondi. L’investigazione sui caratteri dell’umanità alle origini, con la commovente immersione nella fantasmagoria delle pitture rupestri, in una società non bellicosa e guerriera (smentendo Kubrick), sostanzialmente egualitaria e rispettosa del ruolo femminile, è stata un’esperienza rigenerante; dalle incisioni astratte di Blombos ai flauti del paleolitico, dalla venere di Brassempouy ai capolavori di Chauvet, abbiamo toccato con mano una cultura raffinatissima trainata dalle donne, per arrivare poi alla stanzialità, alla scrittura cuneiforme, a Gilgamesh ad Omero… e vedere progressivamente il piano della vicenda umana sempre più inclinato verso la prigione del patriarcato, dei monoteismi e del logos … Con lo stesso spirito quest’anno gli incontri proposti dalla Venti secondi e coordinati da Elena Pappagallo affrontano, nello spazio di via Roma Libera in Trastevere – in quella che è stata per tanti anni sede dei seminari dell’Analisi collettiva – il tema delle “rotture” del pensiero e dei paradigmi costituiti. Uno sguardo che si posa su alcuni protagonisti delle “rivoluzioni”…

L’articolo di Ugo Tonietti prosegue su Left in edicola fino al 14 febbraio 2019


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«Figurati se andiamo a prendere una di Palermo»

Dicono che la mail sia partita per errore. Può essere, per carità. È piuttosto oggettivo però che le mail non si scrivano da sole e quindi qualcuno l’ha scritta e probabilmente ha pensato bene anche prima di scriverla e potrebbe essere che ci abbia fatto sopra una grassa risata con qualche collega. Quelle belle risate che sbrodolano rabbia, quelle razziste. E infatti, il finale, dopo ci arriviamo, è sempre quello.

La storia la racconta Erminia Muscolino, 30 anni, di Muscarazzi, Palermo, biologa pronta a specializzarsi in biotecnologia medica e medicina molecolare:

«Prima di terminare un altro corso di alta formazione in ricerca chimica missione Cra che sto seguendo – ha detto la giovane – ho mandato vari curricula in centri in Italia che si occupano di ricerca clinica fra cui uno l’ho spedito in provincia di Pordenone in Fvg, naturalmente essendo disponibile ad andare fuori anche a titolo gratuito, e per sbaglio ho ricevuto una risposta da questa struttura dove c’era scritto: “giù ricevuta anche io…. Figurati se andiamo a prendere una da Palermo”. Era una comunicazione interna arrivata a me per errore come ho potuto appurare essendo la mail indirizzata ad un’altra persona ma che faceva riferimenti alla mia richiesta».

Erminia non l’ha presa benissimo, ovviamente, e ha voluto che questa storia si raccontasse in giro il più possibile. Ovviamente. Quelli si sono scusati dicendo che si è trattato di un errore e ovviamente si dissociano dal contenuto. Come vi dicevo prima: queste storie di razzistelli finiscono sempre con qualcuno che frigna di codardia e non ha nemmeno il fisico per tenere il ruolo.

Ma l’insegnamento vero è un altro. Noi ora crediamo di vivere in un Paese dove si odiano i negri. Ma non è vero. Ora sono i negri. Ieri e domani i negri sono i terroni. Poi l’odio avrà sempre più fame perché da sempre l’odio ha sempre fame e alla fine verranno a toccare qualcuno vicino a noi, non addirittura qualcuno di noi. E lì sarà troppo tardi accorgersi che le radici velenose danno frutti mortiferi.

Buon mercoledì.

Rivolta del latte, la protesta dei pastori sardi arriva in Toscana

Oltre 600 pastori e allevatori, provenienti da tutta Italia, non solo dalla Toscana, si sono presentati a Grosseto, in piazza Barsanti per solidarizzare con i colleghi sardi. 'Armati' di bidoni di latte, hanno gettato il contenuto a terra protestando contro il prezzo del latte allo slogan 'Mai più sotto un euro'. Tra due giorni, il 14 febbraio, è in programma un'altra manifestazione, sempre a Grosseto, questa volta nel centro storico. ANSA

Sessanta centesimi al litro contro gli 85 dell’anno scorso, i pastori più capaci non riescono a far scendere il costo sotto gli 80 centesimi. Così un’azienda media perde 20mila euro secchi. In Sardegna, da alcuni giorni, il latte imbianca le strade, cola dai cavalcavia, i pastori sono sul piede di guerra, la trattativa si trascinava da tre mesi senza risultati. E i pastori sono così arrabbiati da minacciare di disertare le urne delle imminenti regionali. Anche ieri, 12 febbraio, c’è stata la serrata dei negozi a Nuoro e migliaia di persone in piazza con centinaia di studenti in testa al corteo. Un altro gruppo di allevatori dal quartiere della Solitudine è arrivato davanti al Municipio dove i pastori hanno sversato centinaia di litri di latte. «Sono figlio di pastore di Orune. Non pagano agnelli, latte, lana. Cosa facciamo?», era scritto sul cartello appeso al collo di un bimbo di 11 anni. La Carlo Felice, la statale 131, l’unica arteria a tagliare l’isola da Nord a Sud è bloccata.
Spiega Marcello Floris, del Movimento pastori sardi, Mps: «La nostra è una protesta che viene da lontano, dall’abuso di potere di chi acquista il nostro latte, gli industriali della trasformazione, dal loro abuso di potere che scarica tutti i costi sul pastore». L’epicentro di questa vicenda è in Sardegna dove insiste il 50% del patrimonio ovino nazionale e si produce il 60% del latte, «nel Mediterraneo siamo la regione più produttiva di latte ovino quanto la Francia o la Spagna – continua Floris – una produzione importante perché distribuita in un territorio disagiato al 50%, utilizzabile solo per la pascolare il bestiame. Diciottomila le aziende sarde, “costrette” a esportare, e 100mila occupati diretti o indiretti, «una vera industria verde che non può essere lasciata in solitudine. La gente che c’è in piazza non risponde alle sigle ma a sé stessa e alle sue necessità di sopravvivenza non faremo nulla per fermarla ma la organizzeremo».
Circa un milione di litri di latte è stato lavorato per essere dato in beneficienza, dato in pasto agli animali o gettato per colpa dell’atteggiamento irresponsabile degli industriali, dati Coldiretti. E il 13 febbraio saranno i sindaci, protagonisti con i pastori, a scendere in piazza con gli allevatori sardi contro il crollo del prezzo del latte. Tra le manifestazioni previste si annuncia imponente quella della provincia di Nuoro, organizzata nella zone industriale di Sologo (Lula) in un’area baricentrica. I sindaci dell’Unione dei Comuni, più altri del territorio si ritroveranno insieme ai pastori allo svincolo con la statale, a metà strada tra Nuoro e Siniscola. I commercianti che aderiranno alla protesta chiuderanno la propria attività commerciale o artigianale dalle 10 alle 12. Una manifestazione s’è svolta anche alla periferia est di Grosseto con la partecipazione di allevatori anche da Viterbo, Umbria, Arezzo, Siena, Pisa. Parte di loro ha origini sarde. La volatilità del prezzo espone i pastori a una grande debolezza e le norme Ue hanno stravolto il settore rendendo impossibile forme di economie di sussistenza, per i piccoli allevatori, in un contesto in cui aumentano i costi e le esigenze di ammodernamento delle aziende.
Intanto una delegazione degli allevatori di Coldiretti è stata ricevuta al Viminale (perché il problema è di ordine pubblico) dove Salvini ha promesso interventi di sostegno ai pastori per le perdite economiche, legate alla mancata produzione e ai bassi prezzi, e la sospensione delle attività del Consorzio di tutela del pecorino romano Dop, finalizzata all’approvazione di un nuovo piano di produzione. Cruciale il rapporto con il Consorzio del pecorino romano che assorbe buona parte dei 300 milioni di litri di latte prodotti in Sardegna. Ma quel consorzio ha prodotto 340mila invece dei 280mila quintali di formaggio previsti per il 2018 dal piano di programmazione del 2018, fissando una sanzione di soli 16 cent al chilo per chi “splafonava”. Ma così si scarica tutto il peso della sovrapproduzione sui pastori proprio come gli industriali si rifanno sui salari delle turbolenze dei mercati. Il prezzo del pecorino è sceso da 7,50 euro al chilo a 5,40 euro al chilo e gli industriali hanno abbattuto il prezzo del latte da 85 a 55-60 centesimi al litro.
Lamenta il movimento pastori che chi trasforma non può svendere l’esubero di latte “tal quale”, altrimenti i pastori non hanno alcun potere di contrattazione. «Sessanta centesimi al litro per il latte di pecora sardo sono un insulto, non è un prezzo minimo. Non ci fermiamo», dice a Left il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini dopo la manifestazione davanti a Montecitorio. La proposta del ministro dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio di sospendere la protesta sino al 21 febbraio, quando verrà convocato un tavolo di filiera a Roma, non sarà presa in considerazione. «Non c’è una giusta remunerazione del prezzo latte pagato alla stalla. Noi chiediamo un prezzo di riconoscimento non inferiore a 1 euro più Iva. Andremo avanti con la mobilitazione finchè non otterremo un giusto prezzo e contestualmente anche il commissariamento del Consorzio del Pecorino romano».

Il futuro dell’Europa ci chiede di essere partigiane

Signor presidente Conte,

intendo porle alcune domande a partire dalla convinzione che quanto sta accadendo e accadrà in Italia è particolarmente rilevante per il futuro dell’Europa, su cui insistono due opzioni, fra loro fortemente interconnesse e nefaste: la prosecuzione delle politiche neoliberiste e il crescente consenso di una onda nera reazionaria. Chi vi parla a nome di questo Gruppo è impegnato nella costruzione di un terzo spazio, di una alternativa per l’Europa fondata sull’autodeterminazione di donne, uomini, popoli.

Le domande che intendo porle sul Futuro dell’Europa forse si possono così sintetizzare: se il governo intende continuare a tradire la sua promesse di rimettere in discussione le politiche neoliberiste di questa Ue e alimentare politiche reazionarie razziste, sessiste quando non apertamente neofasciste che riemergono in Europa.

Ecco, dunque, le mie domande al Primo Ministro italiano sul futuro dell’Europa. La prima. Il 25 ottobre 2018, anche a seguito di una aggressione avvenuta a Bari da parte di alcuni militanti di Casapound a me e altr@ manifestanti antirazzisti, questo Parlamento ha approvato una risoluzione che “esorta gli Stati membri (…) a contrastare le organizzazioni che incitano all’odio e alla violenza negli spazi pubblici e online e a vietare di fatto i gruppi neofascisti e neonazisti e qualsiasi altra fondazione o associazione che esalta e glorifica il nazismo e il fascismo”. Come intende il Governo italiano contribuire alla sua applicazione? Come giudica le relazioni fra il Ministro degli Interni e i neofascisti di Casapound documentati tra l’altro in questa foto?

Ma alla radice di ogni fascismo, come ci insegna Hannah Arendt, c’è un processo di disumanizzazione dell’altro: lo stesso che è alla base della guerra alle persone migranti. Ero sulla Open Arms nel luglio scorso e indossavo questa felpa, che non è una divisa ma segno di solidarietà, come altre deputati europei di diversi gruppi politici, quando ricevemmo la notizia che i porti italiani erano chiusi per quelle 59 persone che erano state soccorse in mare. Erano i giorni del Consiglio sui migranti: le chiedo, Presidente, perché il governo italiano non ha supportato e non supporta la posizione del Parlamento europeo sulla riforma del Regolamento di Dublino e la relocation obbligatoria? Perché preferisce fare asse con Orban, e continuare a raccontare la menzogna che le Ong aumentino le partenze dalla Libia, menzogna smentita tra l’altro da questa ricerca dell’Ispi? La linea del rigore e della paura è quella di chi oggi è accusato del sequestro di 177 persone, confonde soccorso e traffico, smantella l’accoglienza come sta avvenendo col decreto sicurezza/migranti? Li ha mai visti i segni della tortura sui corpi delle persone che deteniamo nei Cpr, i mucchietti di psicofarmaci che gli somministriamo in nome della fermezza? Come ha recentemente affermato la sindaca di Barcellona, insieme ad altri sindaci in una azione di sostegno alle Ong a cui mi unisco, “riteniamo che l’europa nauufraghi quando viola la legge del mare, quando accusa di traffico di esseri umani chi li soccorre, Esigiamo che il governo italiano e spagnolo e la Commissione europea abbandonino la strategia di bloccare e criminalizzare le Ong.

In questa Plenaria, signor Presidente, discuteremo dei passi indietro sui diritti delle donne in Ue. È consapevole che la Commissione Femm di questo Parlamento ha prima audito e poi visitato in delegazione gli spazi di autodeterminazione delle donne, come la Casa internazionale delle donne e Lucha y Siesta a Roma, che in Italia sono sotto attacco? Che la presenza di medici obiettori impedisce il diritto alla salute sessuale e riproduttiva? Delle conseguenze del DL Pillon?

L’8 marzo le donne sciopereranno in tutta Europa, in Italia a partire da un piano contro la violenza che chiede reddito di autodeterminazione e salario minimo europeo.

È da queste proposte che pensiamo che il Futuro dell’Europa possa ripartire: non dal tradimento del suo Governo, del tutto prono rispetto alle politiche neoliberiste: si è piegato ai vincoli sullo sforamento deficit/pil, ha lasciato inalterato il pareggio di bilancio in Costituzione, propone una autonomia differenziata che è il contrario delle politiche di coesione che sarebbero necessarie per dare una risposta alla questione meridionale come questione europea, ha dato il via libera a grandi opere come TAP e terzo valico e infine varato una proposta di workfare con il reddito di sudditanza. 21 italiani hanno il reddito di 12 milioni di persone secondo i dati oxfam: ma voi fate la flat tax al posto della patrimoniale.

Il futuro dell’Europa, signor presidente, ci chiede di essere partigiane.

Carceri, in tempi di giustizialismo disumano la sfida si chiama giustizia riparativa

20091011 - ROMA - SOI - BERLUSCONI, MERCOLEDI' PIANO NUOVE CARCERI 20MILA POSTI.Una foto di archivio dell'interno di un carcere. " Mercoledì, con Angelino Alfano, metteremo a punto un piano per realizzare in meno di due anni prigioni civili per 20mila posti " . Lo ha detto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nel corso di un comizio alla festa del Pdl a Benevento, sottolineando che in questo modo l'Italia " tornerà ad essere uno Stato civile " . ANSA/ ALESSANDRO DI MEO/ DC

In una realtà carceraria come quella italiana che, nell’ultimo decennio, è stata il contenimento dei danni di leggi perniciose come la Fini-Giovanardi (sulle droghe) e la Bossi-Fini (sull’immigrazione) e dove, invece, la reclusione per reati economico-finanziari è pari allo 0,4 per cento, l’unico paradigma applicabile, per evitare che un detenuto su quattro, terminata la pena, non sappia dove andare, è la giustizia riparativa.
Se ne è parlato a Roma, qualche giorno fa, al convegno “Mediazione, riparazione e riconciliazione. La comunità di fronte alla sfida della giustizia riparativa”. La quale è un modello che si prende cura dell’autore del reato, della vittima e della comunità coinvolta, abbassando, così, la conflittualità sociale e prevenendo nuovi illeciti. Ricercando, per dirla con (uno dei suoi fondatori) Howard Zehr, «una soluzione che promuove la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo»: deve essere riconosciuto e valorizzato il ruolo attivo delle vittime, superata la solitudine del reo e costruita una comunità che ripara e mette al riparo, restituendo attenzione alla dimensione personale e sociale che investe il crimine.
«Non è semplice, in questa fase della politica e della società, in cui giustizialismo, assolutezza della pena, legittima difesa sono il suono maggioritario, parlare di giustizia riparativa, recupero del condannato, inclusione e reinserimento sociale del reo», dice a Left, la consigliera regionale del Lazio, Marta Bonafoni, che ha contribuito ai lavori del convegno.
Di fronte al giustizialismo scatenato, di cui i ministri della Repubblica si fanno fieri portatori, bisogna sventolare l’articolo 27 della Costituzione e i principi dello Stato di diritto. «Alla logica del “buttiamo la chiave”, che nei programmi dell’attuale governo prevede una moltiplicazione infinita di queste “chiavi”, con la spinta decisa alla costruzione di nuove carceri – continua Bonafoni – occorre contrapporre la forza paziente di altre parole». Mediazione, umanizzazione, pene alternative, giustizia riparativa, appunto, che «seppur non rinunciando a una gerarchia netta tra vittime e autori di reato, cerca di coinvolgerli entrambi nel recupero, con l’obiettivo di produrre un avanzamento per tutti, comunità di appartenenza compresa».
Senza distinzioni né capri espiatori. Neppure se qualcuno si fosse macchiato del peggiore dei reati. «Esiste una recentissima data spartiacque in questa battaglia a difesa dello Stato di diritto: il 13 gennaio scorso, il giorno dell’arresto di Cesare Battisti e della sua esposizione al pubblico ludibrio, in barba all’ordinamento penitenziario, al codice penale nonché ai diritti e alla dignità dell’essere umano», sostiene Marta Bonafoni. Che chiosa: «Per uscire dall’angolo di questa visione di giustizia (feroce) è necessario sostituire all’ideologia di una sicurezza vuota, la ricerca caparbia e tenace della sicurezza sociale oltreché raccontare gli effetti positivi del recupero dei detenuti attraverso la misurazione dell’impatto dei percorsi inclusivi». Primo fra tutti, il dato sulle recidive, che scende dal 70 al 20 per cento in presenza di progetti di riconciliazione e di reinserimento dei reclusi. All’opposto di quanto accade con l’approccio meramente giustizialista e punitivo: un’afflizione dagli esiti alienanti.