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Non è il “dipartimento mamme”, il problema. Non solo

Dunque il Pd lancia il “dipartimento mamme”. In realtà, a ben vedere, è solo uno dei dipartimenti pensati “per affrontare al meglio le sfide dei prossimi mesi”, come scrive la nota ufficiale del partito, ma il “dipartimento mamme” inevitabilmente ha suscitato più di qualche perplessità e se qualcuno con cattiveria ha fatto notare che sarebbe stato il caso anche di un “responsabile babbi” (come ha scritto Chiara Geloni su twitter, riferendosi chiaramente alle vicende giudiziarie di Tiziano Renzi e a Banca Etruria per la famiglia Boschi) molti altri, anche tra i democratici, hanno colto un senso politico chiaro. Renzi, si sa, è uomo devoto alla comunicazione (quella di vacuo ottimismo sotto slogan spinti figlia del berlusconismo) e difficilmente scivolerebbe sul “titolo” di un pezzo così importante della sua cabina di regia in vista della prossima campagna elettorale.

Del resto già lo scorso 7 marzo il segretario del Pd aveva indicato le tre priorità: lavoro, casa e (appunto) mamme. Giulia Siviero, giornalista de Il Post, aveva colto perfettamente il senso in una sua lettera indirizzata proprio a Renzi:

«Lei non ha mai pronunciato la parola donne (e basta o uomini), non ha scelto le donne come centro della sua futura pratica politica, ma ha scelto di tornare a uno scenario anacronistico e ingiusto. Parlare solo di “mamme” esclude immediatamente non solo le donne che non lo sono, ma le madri stesse che al di là e al di qua della maternità sono altro, sempre e comunque altro: sono donne che vanno a scuola, che lavorano, che vengono pagate meno, che cercano lavoro o vengono licenziate, che scioperano, che si sostituiscono al welfare, che guardano la tv e leggono i giornali, che non vogliono essere madri, che vogliono avere un figlio in modi diversi, che subiscono violenza, che arrivano e che partono».

Ma c’è di più, se riusciamo ad allargare lo sguardo: le “mamme” sono state, da tempo, tra le parole chiave dell’egemonia culturale conservatrice. Come dire: tra i temi da “non regalare alla destra” (che è l’ossessione ripetuta da Renzi per giustificare la propria deriva, a destra) ora c’è da riprendersi anche questo, con buona pace degli intenti progressisti che stavano nella fondazione stessa del Partito democratico. “Un dipartimento mamme manco nella Dc anni Cinquanta”, ha scritto Aurelio Mancuso, che del Pd è componente dell’Assemblea nazionale.

Il “dipartimento mamme”, del resto, dimostra anche che il “Family day” e tutta la comunicazione che ci stava intorno probabilmente sono qualcosa di più di un semplice inciampo di governo, come il Pd aveva sostenuto. E forse è un caso – o forse no – che tra i dipartimenti manchi ora quello dei “diritti civili”, ben diverso dal senso del “dipartimento delle pari opportunità” come ben sa chiunque, Renzi in testa, ha a che fare con queste diciture in questi ultimi anni.

Infine una curiosità, grigia: ha trovato un ruolo anche Walter Verini. Per chi non sapesse chi sia bisogna tornare al ddl Scalfarotto che estendeva la legge Mancino ai reati determinati da odio per questioni di orientamento sessuale e identità di genere: Verini fu quello che, con un furbo subemendamento cofirmato con l’onorevole Gatti, “azzoppò” la legge secondo i timori delle associazioni e degli operatori del settore. Eccolo. Proprio lui.

Tanto per avere un quadro largo, insomma.

Buon lunedì.

Musei, agli Uffizi come in hotel. Mai in alta stagione

©ANSA/MAURIZIO DEGL INNOCENTI

«Prometto che non arriveremo ai prezzi imposti dai bagarini, ma con il biglietto a 20 euro ci uniformiamo a tutti gli altri grandi musei europei, come il Louvre di Parigi, il Prado di Madrid, il Belvedere di Vienna e il Rijksmuseum o l’Hermitage di Amsterdam, il cui ingresso varia tra i 17 e i 20 euro». Il direttore della Galleria degli Uffizi, Eike Schmidt, parla della sua proposta, aggiungendo che «con questo provvedimento, poi, il costo d’ingresso dipenderà solo dalle stagioni e non più dalle mostre che organizzeremo perché non è giusto che le persone paghino per le decisioni dei curatori. Il nostro intento è creare la situazione ottimale per una fruizione più profonda e ripetuta nel tempo».

Insomma, nuovo tariffario da marzo 2018. Dagli attuali 8 a 20 euro, ma con la possibilità, da novembre a febbraio, di poter entrare beneficiando di uno sconto che potrà arrivare fino al 50%. Naturalmente fermo restando i 4 euro di prenotazione.
«Abbiamo deciso di usare il prezzo come strumento attivo per gestire i flussi e creare fruibilità, ma anche per dare un valore a quella che io chiamo l’esperienza Uffizi»dice Schmidt. Ad ispirare la nuova misura «oltre ad alcune esperienze americane anche hotel e trasporti pubblici».
Il nuovo tariffario, parte della rivoluzione promessa dal direttore di uno dei siti turistici più visitati anche nel 2016, niente altro è che una duplicazione di quanto propongono le strutture ricettive. Ma come? Un museo, anzi un grande museo, che guarda agli hotel? Qual é il nesso che li lega? Risposta semplice semplice: la monetizzazione della loro fruizione!

Quindi prezzi alle stelle durante l’alta stagione, più accessibili durante gli altri mesi. Schmidt non sembra avere dubbi. D’altra parte, la valorizzazione perseguita dal ministro Franceschini e della quale il direttore appare un indiscusso emulo, non contempla deroghe. È necessario incrementare la bigliettazione, come possibile. Aldilà delle dichiarazioni la realtà é rilevabile, con chiarezza. Prima il turismo e poi i beni culturali. Quanto il disegno del direttore potrà incidere sull’afflusso dei visitatori non é possibile dirlo. Quanto potrà regolare l’arrivo delle masse dei turisti nel corso dell’anno é incerto. Ma intanto rimane la sensazione che, insieme agli ipotizzabili benefici, ci potranno essere tutt’altro che irrilevanti svantaggi.

Infatti, non é difficile prevedere che a subire maggiormente i nuovi aumenti saranno alcune categorie, a partire dalle famiglie e dai pensionati. Fasce importanti della popolazione che saranno sostanzialmente fatte fuori dalla fruizione del museo italiano con più appeal. Naturalmente per i più disagiati economicamente rimane la possibilità di andare in bassa stagione. Cimabue e Caravaggio, Giotto e Leonardo, Michelangelo e Raffaello, Mantegna e Tiziano, Rubens e Rembrandt saranno allo stesso posto anche da novembre a febbraio. Ma gli “sconti fino al 50%” promessi da Schmidt hanno tanto l’aria di assomigliare ai saldi di abbigliamento e calzature. Il più delle volte lo sconto non raggiunge quel che si pubblicizza.

La fruizione della cultura deve essere assicurata a tutti, indistintamente. Un Museo non é un campo da golf all’interno di un circolo esclusivo, nel quale può entrare solo chi ne sia socio. Proprio per queste ragioni il tariffario degli Uffizi sembra innanzi tutto l’ennesimo tentativo di incrementare gli incassi. Poco importa se con un’operazione che, piuttosto che implementare la fruizione, dilatandone i limiti, la renda possibile solo a determinate categorie di persone.

«Come Uffizi vogliamo tornare a fare avanguardia, così come si faceva in passato. A me piacerebbe tanto che i fiorentini tornassero a sentire proprio questo museo, ci stiamo provando in tutti i modi, vediamo se il tempo ci darà ragione», sostiene Schmidt. I numeri complessivi, le cifre, alla fine dell’anno gli potranno anche dare ragione. Ma non é così che il museo fa realmente parte della città. Come si verificava, ad esempio, per i portici che delimitavano il Templum Pacis, uno dei grandi complessi forensi della Roma imperiale, nei quali erano esposte al pubblico godimento tante opere d’arte. I Musei, nonostante tutto, non sono hotel.

Mary e la Bestia: i 200 anni di Frankenstein

The Academy of Motion Picture Arts and Sciences will host a month-long series of screenings of classic horror films with “Universal’s Legacy of Horror” in October. The series is part of the studio’s year-long 100th anniversary celebration engaging Universal’s fans and all movie lovers in the art of moviemaking. Pictured: Boris Karloff and Elsa Lanchester in BRIDE OF FRANKENSTEIN, 1935.

È nell’“anno senza estate” che Mary Shelley concepisce l’idea di Frankenstein, o il moderno Prometeo. L’eruzione del Tambora, vulcano di una remota isola dell’Oceano Indiano, avvolge di polveri l’emisfero settentrionale, riduce la radiazione solare e sconvolge le stagioni. Tutto avviene in quella fredda estate di 200 anni fa sul lago di Ginevra, dove la diciottenne Mary, assieme al futuro marito Percy Shelley, è ospite di Lord Byron, della sorellastra Claire Clairmont, amante del poeta, e del loro medico John Polidori a Villa Diodati. Costretta in casa dal maltempo, la compagnia inganna le ore leggendo storie di fantasmi e Byron, in una sorta di concorso letterario, lancia una sfida: ognuno di loro dovrà scrivere un racconto dell’orrore. Tutti si impegnano ma solo due onorano la scommessa, Mary con Frankenstein e John Polidori con il racconto Il Vampiro che suggerirà Dracula a Bram Stoker. L’ispirazione, che per la Shelley tarda a venire, si palesa con forza una notte nel dormiveglia: «Vidi lo scienziato dall’arte sacrilega, inginocchiarsi, pallido, accanto alla cosa che aveva messo assieme, l’orrida forma di un uomo disteso, vidi una macchina che entrava in azione e il cadavere che mostrava segni di vita. Aprì gli occhi e io sgranai i miei per il terrore».
Nasce così un fenomeno letterario unico che attraversa intramontabile questi due secoli: travalica i confini del gotico per affondare nelle paure del Romanticismo; sfrutta il romanzo epistolare per adottare una rarità assoluta; genera il primo romanzo di fantascienza per entrare come mito nella cultura popolare. Un’opera cioè senza tempo e senza contesto che talvolta si fa solo titolo. Chi ode la parola Frankenstein crea in sé un’immagine o un pensiero, ma dietro sono spesso scomparsi l’autrice, la trama, i personaggi. È curioso infatti che Frankenstein vada spesso erroneamente ad identificare l’essere deforme richiamato alla vita dalla materia inanimata e non il suo creatore Victor, «scienziato dall’arte sacrilega». Il mostro è, e va osservato, senza nome. Ma questo banale quanto comune equivoco può essere il pretesto per approfondire la ricerca e cogliere, dietro gli apparenti aspetti di continuità, i tratti del romanzo che creano una rottura con la tradizione letteraria e filosofica dell’epoca.

 

 

L’articolo di Cecilia Iannaco prosegue su Left in edicola


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Il ciclone RHCP ha lasciato l’Italia (e si avvicina a Parigi)

epa06095452 Anthony Kiedis, left, and Chad Smith, right, from US rock band Red Hot Chili Peppers perform onstage during the first day of the 42nd Paleo Festival, in Nyon, Switzerland, 18 July 2017. The event runs until 23 July. EPA/VALENTIN FLAURAUD EDITORIAL USE ONLY

In una rovente serata di mezza estate a Roma, sul palco dell’Ippodromo delle Capannelle è esploso il rock. Per due ore consecutive Anthony Kiedis e compagni hanno trascinato il pubblico in un flusso di energia ininterrotto e inebriante.

Nella prima delle due tappe italiane (la seconda è stata Milano) i Red Hot Chili Peppers hanno dato il meglio di sé.

Gli scatenati californiani hanno aperto con “Can’t stop” e chiuso con “Give it away”, eseguendo tra l’uno e l’altro i brani più belli e suggestivi prodotti dal 1984 ad oggi.

Se, come ha fatto intendere Chad Smith in una recente intervista, questo potrebbe essere l’ultimo tour internazionale della band, l’atmosfera non era certo né nostalgica né decadente. L’entusiasmo e la vitalità dei tre componenti storici (Kiedis, Flea e Smith 54 anni ognuno) hanno cancellato ogni categoria temporale per concentrarsi in un presente intensissimo dove i RHCP sembrava vivessero per la prima volta l’ebbrezza del successo mondiale. Ed è questo che il pubblico ha sentito insieme a loro in due ore adrenaliniche dove non “pogare” era impossibile.

Nessuno si è risparmiato sul palco, dal vulcanico e storico batterista Chad Smith al più giovane della band Josh Klinghoffe che, dopo aver definitivamente sostituito Jack Frusciante nel 2009 diventando il chitarrista ufficiale, ci ha regalato un’inedita versione di “Io sono quello che sono” di Mina.

Inesauribile la carica di Flea che con i suoi assolo mirabolanti ha portato il basso ad un sound a tratti irriconoscibile e che per resistenza fisica ed esuberanza ha conteso il primato a Keidis il quale, a sua volta, ha saltato e piroettato sul palco per due ore senza soluzione di continuità.

Frontman indiscusso ed anima sensuale del gruppo Anthony Kiedis ha interpretato ogni brano con quel lieve scarto dalla traccia originale sufficiente a far sentire unica ogni esecuzione, per poi raggiungere l’apice in una versione struggente di Under the bridge.

Insomma i Red Hot Chili Peppers sono stati una perfetta macchina da musica che non ha sbagliato un colpo, compreso l’omaggio agli Stooges con “I wanna be your dog”. E forse è proprio questa perfezione a nascondere l’unico neo di un concerto sicuramente storico. Perché nell’esecuzione appassionata e ineccepibile si è un po’ perso, forse, il rapporto con il pubblico, pochi gli scambi, un paio di tentativi faticosi di ringraziare in un italiano stentato un pubblico adorante.

Ma da vere rock star hanno saputo stupire e recuperare la defaillance quando Kiedis ha invitato sul palco Everly Bear, il figlio di dieci anni, per cantare con lui “Goodbye angels”: di nuovo presente e passato fusi insieme in un’emozione contagiosa.

Curioso che il pubblico fosse composto soprattutto da chi non era ancora nato quando i RHCP hanno iniziato la parabola del successo: venti, venticinque anni al massimo l’età media, meno della metà i fan storici.

Come dire: i giovani riconoscono bene la buona musica. Quando c’è. E a Roma ce n’è stata tanta.

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Le prossime date del Tour

I RHCP si esibiranno stasera a Parigi (Lollapalooza) e martedì al Cracovia Stadium (Polonia); il 27 luglio si sposteranno in Lettonia a Riga (Lucavsala Island); il Tour europeo proseguirà quindi a Helsinki (29 luglio) e Reykjavik (31 luglio, Nyja Laugardalshollin); dopo una pausa ad agosto, la band di Flea, Kiedis&Co. riprenderà a esibirsi negli Usa: in California a Del Mar (15 settembre, Kaaboo del mar) e a New York (17 settembre, The Meadows music & arts). Il 20-21 è in programma una doppia data irlandese, all’Arena di Dublino; il 24 settembre saranno in Brasile, a Rock in Rio. Infine le ultime sei date: 7-14 ottobre in Texas, Austin city limits music festival; 10-11 ottobre a Città del Messico (Sports palace); 16 ottobre in Colorado al Pepsi center di Denver; tappa conclusiva in Arizona, alla Gila river arena di Glendale il 18 ottobre. (A cura della redazione)

Immigrazione, un apartheid silenzioso avvelena la convivenza civile

Un momento della manifestazione di Forza Italia e del contropresidio dei centri sociali davanti all'hub di via Mattei, nodo regionale di smistamento dei migranti, Bologna 7 gennaio 2016. ANSA/GIORGIO BENVENUTI

Quando, in primavera, si andrà al voto, lo scontro tra i partiti verterà principalmente sulle questioni dell’immigrazione. In vista di una ossessiva campagna che rischia di essere monotematica, tutta incardinata sulla sicurezza e sulle scorribande barbariche alle porte, i toni del confronto subiranno una accentuazione retorica ancor più incontrollata di adesso. Lo ius soli è, in questo quadro, la vittima annunciata di una esasperazione del tutto strumentale delle istanze di difesa dei confini etnico-culturali di un territorio raffigurato come impotente luogo di conquista destinato all’invasione di alieni, spesso dal colore scuro. Nel momento stesso in cui Renzi ha scandito il motto salviniano dell’aiutiamoli a casa loro, i diritti di cittadinanza delle persone che nascono, vivono, studiano e lavorano in Italia cadevano nell’oblio. L’unità politica dei cattolici è stata ripristinata sul collante di un tema etico-politico come quello della cittadinanza da negare e il postdemocristiano Renzi si riconcilia con il postdemocristiano Alfano alfiere della crociata contro gli infedeli che affluiscono in occidente. Considerare straniero chi nasce e risiede in Italia, condivide cioè le stesse passioni e conduce le stesse pratiche di vita che maturano in un territorio comune, alimenta una visione bellica della convivenza di persone che occupano lo stesso spazio. Questo apartheid silenzioso, che divide lo stesso territorio in un ambito amico riservato ai bianchi, e magari cattolici e in un universo nemico popolato da corpi di altro colore e con altri simboli di fede, in prospettiva produrrà problemi enormi nella convivenza civile. Il rifiuto della inclusione attraverso gli strumenti giuridici della cittadinanza solo in apparenza è un segno di forza. In realtà la chiusura nelle strategie della cittadinanza è una manifestazione di debolezza e inaugura una stagione di profonda regressione nel tessuto civile del Paese. Il piccolo padroncino, che sostiene la destra leghista, per i suoi interessi economici si serve dell’immigrazione, anche di quella incontrollata, perché percepisce, nella creazione anomala di un esercito industriale di riserva, lo strumento per una contrazione dei diritti del lavoro, per la riduzione dei costi, per il ricatto sui dipendenti. Dopo essersi avvalso del lavoro dei migranti come calmiere del salario e come riduttore dei diritti, il padroncino organizza la protesta politica contro gli immigrati che producono insicurezza, disagio, abbandono degli spazi pubblici. Attorno allo ius soli si gioca anche un piccolo episodio di lotta di classe. Mantenere milioni di lavoratori senza diritti di cittadinanza è infatti una maniera antica per dividere il mondo dei subalterni tramite la reclusione civile di schiere di proletari e di sottoproletari che sono condannati a rimanere afoni dinanzi alla potenza del padrone. Costruendo barriere etico-giuridiche tra corpi che lavorano e convivono negli stessi luoghi della produzione e distribuzione delle merci, il capitale racimola ulteriori effetti di padronanza. Mettendo al centro della contesa il tema rinverdito della difesa della purezza etnico-nazionale calpestata dai figli dei migranti, la politica subirà un ulteriore scivolamento culturale verso destra. E meno diritti per la persona che lavora, e che ha un altro colore, non significa certo conservare i diritti per gli italici che, con una fabbrica mediatica della falsificazione, si sentono assediati e non più padroni a casa loro.

Il commento di Michele Prospero è tratto dal numero di Left in edicola


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L’Arabia Saudita umilia le donne e l’Onu la premia

MECCA, SAUDI ARABIA - JUNE 21: (----EDITORIAL USE ONLY MANDATORY CREDIT - "BANDAR ALGALOUD / SAUDI ROYAL COUNCIL / HANDOUT" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS----) Saudi Crown Prince Mohammad bin Salman al-Saud (not seen) attends a ceremony held for pleding Saudi local emirs and other notable people's allegiance to him as the new Crown Prince of Saudi Arabia in Mecca, Saudi Arabia on June 21, 2017. Saudi Arabia's king has appointed his son Mohammed bin Salman as his crown prince, deposing his nephew Mohammed bin Nayef. In a royal decree early Wednesday, King Salman bin Abdulaziz placed deputy crown prince Mohammed bin Salman, 31, as the first in line to the throne. The decree relieved prince Mohammed bin Nayef, 57, from his position as the deputy prime minister and interior minister. (Photo by Bandar Algaloud / Saudi Royal Council / Handout/Anadolu Agency/Getty Images)

C’è chi sostiene che il vero “Stato islamico” esista già e la sua capitale non sia Raqqa ma Riad. «È evidente come le attività di controllo e di coercizione, lo Stato poliziesco e l’uso del terrore attraverso punizioni corporali e la morte, il mancato rispetto dei più elementari diritti umani, l’applicazione delle pene coraniche, l’utilizzo dell’Islam come ideologia e indottrinamento di Stato, il totale disprezzo per la democrazia e il pluralismo, rendano l’Is e l’Arabia Saudita complanari», rimarca in proposito Barbara De Poli, docente di Storia delle istituzioni dei Paesi islamici e Storia del pensiero politico dei Paesi islamici all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Teocrazia più petrodollari: l’Arabia Saudita.
Con l’avvento della manna petrolifera, come scrive lo studioso francese Gilles Kepel, gli obiettivi dei sauditi erano diventati quelli di «espandersi, diffondendo il wahhabismo in tutto il mondo musulmano, di ‘wahhabizzare’ l’Islam», riducendo così la pluralità delle voci all’interno di questa religione in un unico credo, un movimento che avrebbe trasceso le divisioni nazionali. Rilancia Kamel Daoud in un articolo sul New York Times: «L’Arabia Saudita, sorta di Is bianco, resta un alleato dell’Occidente nel gioco delle alleanze mediorientali. Viene preferita all’Iran, un Is grigio. Ma si tratta di una trappola che, attraverso la negazione, produce un equilibrio illusorio: il jihadismo viene denunciato come il male del secolo ma non ci si concentra su ciò che lo ha creato e lo sostiene. Questo permette di salvare la faccia, ma non le vite umane». Lo Stato islamico, aggiunge Daoud, «ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia Saudita e la sua industria ideologica. Se l’intervento occidentale ha fornito delle ragioni ai disperati del mondo arabo, il regno saudita gli ha offerto un credo e delle convinzioni. Se non lo capiamo, perderemo la guerra anche se dovessimo vincere delle battaglie. Uccideremo dei jihadisti ma questi rinasceranno nelle prossime generazioni, nutriti dagli stessi libri».
Tra le vergogne occidentali c’è quella di rappresentare l’Arabia Saudita come un Paese retto da un regime “moderato”. Niente di più falso. Cosa c’è di “moderato” ….

 

L’articolo di Umberto De Giovannangeli prosegue su Left in edicola


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Testamento biologico, due parole (di e) su Rodotà

Stefano Rodot‡ a Palazzo San Macuto durante il convegno "Costituzione e Parlamento" a Roma, 8 aprile 2013. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Il 25 luglio, la legge sul testamento biologico arriva in Senato dopo essere stata approvata in aprile dalla Camera. Potrebbe pertanto chiudersi un iter iniziato nove anni fa dopo la morte di Eluana Englaro. Fortunatamente lo scellerato ddl che fu presentato allora dalle destre negli anni ha cambiato “volto” e relatori. Erano i tempi in cui il senatore Quagliariello urlava sguaiatamente: «Eluana non è morta, l’hanno ammazzata». Si voleva far passare l’idea falsa e antiscientifica secondo cui interrompere il flusso di un sondino nasogastrico equivalesse a far morire di fame una persona in stato vegetativo persistente. Circa un anno dopo, nell’aprile del 2010, ebbi la fortuna di poter rivolgere alcune domande a Stefano Rodotà. Il ddl caro a Quagliarello, Berlusconi e compagnia era arenato in Parlamento ma toccammo lo stesso questo tema. Ancora oggi le sue risposte rimangono di estrema attualità. Anche per questo sappiamo già che il 25 luglio sentiremo più che mai la mancanza di una persona, di un intellettuale, di un laico come il grande giurista scomparso di recente.

Professor Rodotà, le istituzioni stanno perdendo il senso di laicità dello Stato. C’è il rischio che accada anche in ambito scientifico-culturale?

Se usiamo la categoria della laicità, io penso che sia corretto farlo pensando alla laicità come autonomia. Nel momento in cui la ricerca scientifica perde autonomia, diventa “strumento di”. In qualche modo è indotta o costretta ad allinearsi e perde di rigore scientifico e in misura notevole altera la qualità del dibattito pubblico.

Ci spieghi meglio.

I sintomi sono diversi. Ormai, in alcune materie particolarmente sensibili appena si prende una posizione si viene etichettati. Guardiamo alla bioetica. Oggi il dibattito è in questi termini: stai dalla parte della maggioranza o dell’opposizione? Pensiamo a come è gestita la presenza degli studiosi nei media. In tv ci deve essere sempre il contraddittorio con chi studioso non è, i giornali presentano sempre due pareri contrapposti, uno pro e uno contro. In questo modo viene banalizzato l’intervento e si da la sensazione che non ci sia la possibilità di sfuggire a questa categorizzazione.

Pensando alla legge 40, agli attacchi contro l’aborto, all’assenza di una legge sul Testamento biologico, oggi ci ritroviamo impegnati in battaglie per difendere diritti che si davano per acquisiti.

C’è stata una fase in cui il rapporto tra politica e cultura era molto intenso. Non c’era subordinazione e nemmeno c’erano i “consiglieri del principe”.

L’intervista inedita a Stefano Rodotà prosegue su Left in edicola


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Macron e quei cinque centimetri in più che “deve avere un presidente”

epa06096877 French President Emmanuel Macron wavess toward spectators on the finish line of the 17th stage of the 104th edition of the Tour de France cycling race over 183km between La Mure and Serre Chevalier, France, 19 July 2017. EPA/GUILLAUME HORCAJUELO

Ventiquattro ore dopo le dimissioni del capo di Stato maggiore dell’esercito francese, il generale Pierre de Villiers, è stata la volta di un sindaco a essere indignato. Romain Senoble, il sindaco di Forges (Seine-et-Marne), eletto con una lista civica, si sfoga sui social network. Il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, ha infatti voluto per sé stesso un ritratto ufficiale più grande di quello dei suoi predecessori. Finora il formato della fotografia ufficiale del presidente della Repubblica era di 50 x 65cm. «Chissà perché, scrive il sindaco, quella di Emmanuelle Macron è di 50 x 70 cm». Ovvero 5 cm di troppo.

Eppure già lo scorso febbraio in un’intervista al settimanale francese l’Obs, Emmanuel Macron annunciava il suo gusto per l’eccesso, dichiarando: «La funzione di presidente della Repubblica esige dell’estetismo e della trascendenza»; e aggiungeva che «essere un candidato alla presidenza è avere un modo di vedere e uno stile». Uno stile che lascia basito Romain Senoble, il quale sottolinea che 36.000 comuni di Francia dovranno acquistare per 77 euro, la tariffa Sedi (azienda che vende attrezzature per municipi), una nuova cornice, spendendo complessivamente, secondo i suoi calcoli, 2.772.000 euro. Di contro Le Figaro smentisce che sia in atto un’operazione del genere, mentre l’Eliseo tace.

Ma la vera ragione della rabbia di Senoble è l’annuncio da parte del governo, che gli enti locali (regioni, dipartimenti, comuni …) dovranno risparmiare tredici miliardi di euro prima della fine dei cinque anni presidenziali. Tre volte di più di quanto era indicato nel programma del candidato Macron.

Al contempo Emmanuel Macron ha annunciato la sua intenzione di ridurre il numero dei consiglieri negli enti locali: «Meno eletti ma più protetti, meglio pagati e più liberi di agire». Più protetti da cosa, ci si chiede? Una logica, la sua, che lascia senza parole. I politici locali entrano in allarme per questa minaccia ma non solo: vedono anche il loro budget diminuito in modo draconiano a causa della l’eliminazione prevista dal governo delle tasse sulle abitazioni.

Al di là delle ambiguità, «meno eletti, ma più liberi», l’obiettivo finale della politica di Macron è quello di conseguire 4,5 miliardi di euro di risparmi, per portare il deficit della Francia al 3 per cento del Pil, come prevedono i trattati europei. Macron applica ricette neoliberiste in nome del pragmatismo come aveva riassunto in una intervista del 2013 alla testata online Mediapart. Macron, allora vice segretario generale dell’Eliseo, dichiarava: «Secondo i periodi della storia, ci si può più o meno liberare dai vincoli della realtà. (..) Oggi, l’equazione è storicamente sovradeterminata dalle sollecitazioni esterne, sia della finanza che dell’europea, che delle richieste sociali. Dobbiamo quindi accettare le condizioni per come sono, questo è il momento di raddrizzare il paese».

Ma le condizioni come sono rappresentano anche un rischio per Macron. La destra tradizionale vede l’opportunità di raccogliere il malcontento degli enti locali per recuperare il consenso perduto dopo la sconfitta di Fillon alle presidenziali. Con la riforma del lavoro in corso, le clamorose dimissioni del capo di Stato maggiore, ed ora la crisi nei rapporti con gli enti locali, Macron potrebbe essere già in difficoltà. Sembra più facile apparire in pompa magna accanto a Putin e Trump piuttosto che affrontare i problemi del paese. Nel frattempo, per risolvere il problema di 5 cm e risparmiare sulle nuove cornici, c’è chi sussurra di tagliare la testa del presidente, un vecchio vizio del paese. Peraltro sono passati pochi giorni dal 14 luglio.

In Palestina si muore a ventitré anni

Foto di Chiara Cruciati

Prima un selfie davanti alla Cupola della Roccia, poi le pistole: alle 7 del mattino di venerdì 14 luglio la Spianata delle moschee è stata teatro della morte di cinque persone, due poliziotti israeliani e i tre aggressori palestinesi. Si chiamavano tutti Mohammed Jabarin e venivano da Umm al Fahem, città araba di Israele nel cosiddetto “triangolo”, area a maggioranza palestinese marginalizzata e dimenticata dalle autorità di Tel Aviv. Mohammed Ahmed Mohammed Jabarin, 29 anni, Mohamed Hamad Abdel Atif Jabarin, 19, e Mohammed Ahmed Mufdal Jabarin, 19, hanno aperto il fuoco sulla polizia che come ogni giorno presidia il terzo luogo sacro dell’Islam. E come tanti prima di loro sono stati uccisi, mentre fuori Israele blindava Gerusalemme e imponeva chiusure punitive per il resto della popolazione palestinese.

Due giorni prima, il 12 luglio, l’esercito israeliano è entrato nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, alle prime ore dell’alba. I residenti sono usciti dalle case attaccate l’una all’altra, ricostruite con difficoltà dopo la devastazione e il massacro dell’operazione Scudo difensivo dell’aprile 2002. I giovani hanno lanciato pietre, i soldati lacrimogeni e granate stordenti, mezzi di “dispersione” della folla che in passato non hanno mancato di uccidere. Poi hanno aperto il fuoco, pallottole vere, e hanno ucciso due ragazzi. Uno di loro aveva 17 anni, Aws Mohammed Salama; il secondo 21, Sa’ad Hasan Salah, un fratello prigioniero politico e un altro ex detenuto nelle carceri israeliane. È stato colpito alla testa. Il 10 luglio a morire sotto i colpi dei soldati era stato il 24enne Muhammad Ibrahim Jibri, residente nel villaggio di Tuqu’, Betlemme, piccola comunità circondata dalle colonie. Con la sua auto avrebbe tentato di investire

Il reportage di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola da sabato 22 luglio


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Ius soli, la politica si nasconde dietro un dito annullando #1milione di giovani

Lo ius soli è diventato di tendenza: è bastata una foto per far diventare virale la legge sulla cittadinanza. La foto è di Youness Warhou, tra i fondatori del movimento Italiani senza cittadinanza, che dallo scorso 17 luglio impazza sui social. «Tutto è partito dal rinvio di Gentiloni: non ce lo aspettavamo e la rabbia è stata fortissima», ci ha detto Youness «mi sentivo intrappolato in quelli che sono i protocolli del linguaggio istituzionale che impone determinate barriere, mentre io avevo il bisogno dire come mi sentivo senza filtri».
Da questo bisogno è nata una fotografia, postata sui social a poche ore dal rinvio dell’approvazione dello ius soli e che è diventata immediatamente virale: scatenando un vero e proprio movimento intorno all’hashtag #1milione. «Mi trovavo in piazza Vittoria a Reggio Emilia», ci racconta Youness «e mi sono scattato una fotografia con un dito alzato, a simbolo di quel milione di ragazzi che il governo aveva deciso di ignorare per l’ennesima volta».

All’apparenza un gesto semplice, che però è stato in grado di arrivare a moltissime persone che si sono sentiti parte di questa lotta: «In poche ore centinaia di persone hanno cominciato a condividere la mia fotografia, e da lì è partita una fortissima campagna social. Le persone hanno cominciato ad imitare il mio gesto e a rilanciare l’hashtag #1milione e in poco tempo è diventato di tendenza». Il gesto degli Italiani senza cittadinanza è stato imitato da centinaia di persone che hanno così mostrato solidarietà al movimento, e hanno condiviso il gesto anche alcuni esponenti politici, fra cui Andrea Maestri e tutto il gruppo di Possibile, che hanno fatto una forte campagna social legata a #1milione.

Mentre i cittadini si muovono in questa direzione, la politica sembra però avere ben altre intenzioni. Le dimissioni del 19 luglio scorso di Enrico Costa dalla carica di ministro per gli Affari Regionali e il suo ritorno fra le schiere di Forza Italia era già nell’aria quando Costa aveva minacciato di dimettersi se lo ius soli fosse stato approvato. Non è stata quindi una novità, ma è un segnale preoccupante per la maggioranza e per la tenuta del gruppo centrista in Senato; segnale che già si era manifestato proprio con la decisione del governo di rimandare a dopo l’estate l’approvazione definitiva della legge sulla cittadinanza. Un bastian contrario sembra essere Pietro Grasso, deciso a non candidarsi alle prossime elezioni in Sicilia, ma che intima ai partiti di varare in tempi brevi la legge sulla cittadinanza, rendendola una priorità.