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Serie Tv: Stranger Things torna ad Halloween. Il primo trailer

È stato uno dei fenomeni Tv dell’anno passato, e parte di quella ossessione nostalgica per gli anni 80 che sembrano aver preso gli Stati Uniti. Ieri Netflix, che produce la serie, ha messo mandato in onda durante gli intervalli del SuperBowl il primo piccolo spot di Stranger Things. Il mondo si sta capovolgendo sottosopra è lo slogan, che fa riferimento al mondo di sotto o parallelo che i teenager di una cittadina di provincia dell’Indiana scoprono durante le richerche di un loro amico scomparso (è una sintesi un po’ approssimativa, ma è un modo per non rivelare nulla a chi non ha visto la serie e non cambia granché a chi invece ha già visto le prima dieci puntate).
Al mondo capovolto allude anche il tweet che raffigura il cast al lavoro

Lo show è previsto per Halloween e i ragazzi sono vestiti da Ghostbusters, segno che anche la prima puntata si svolge in quel giorno.

Tra le cose che abbiamo capito è che Barb, il cui destino rimane ignoto alla fine della prima serie, dovrebbe tornare in qualche modo. La cosa ha fatto rumore sui social, come vedete qui sotto.

 

Per chi non l’avesse visto, il bel discorso di accettazione ai Screen Actors Guild Award, uno dei tanti politicizzati della serata: l’idea di fondo, in risposta al bando di Trump e facendo riferimento alla trama – i ragazzini che accolgono una sconosciuta che trovano nel bosco e le danno riparo – è «accogliamo chiunque ne abbia bisogno».

Non sparate sugli insegnanti: se gli studenti non sanno scrivere le cause sono molte

Studenti e professori all'ingresso del liceo Ennio Quirino Visconti per l'inizio del nuovo anno scolastico a Roma 12 Settembre 2016, ANSA/GIUSEPPE LAMI

È stata una domenica di passione quella di ieri per gli insegnanti italiani. Sono finiti sul banco d’accusa come non accadeva da molto tempo. Una sferzata di giustizialismo  ha attraversato tutti i media dopo l’appello “Contro il declino dell’italiano a scuola” lanciato dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità – questo il nome completo – sottoscritto poi da 600 docenti universitari. La sintesi è questa: “Gli studenti italiani arrivano all’università senza sapere né leggere e scrivere. Non sono capaci di fare discorsi secondo una logica compiuta, sono un branco di analfabeti”. Con l’ovvia conclusione implicita: colpa dei docenti, troppo lassisti, troppo accondiscendenti, troppo permissivi. In particolare nel testo della lettera rivolta alla ministra dell’Istruzione Fedeli, le critiche sono rivolte ai docenti del primo ciclo, in gran parte maestre. Si sollecitano quindi più attività nell’ambito della scrittura – dettato, riassunto, scrittura corsiva ecc. – che però sono già contenute nelle Indicazioni nazionali del 2012 e che forse gli estensori dell’appello non hanno letto.

Ma è davvero così giustificata questa impennata contro gli insegnanti?
Nel mare magnum dell’indignazione collettiva Massimo Cacciari, che pure anche lui aveva firmato l’appello, su Repubblica ha fatto notare che «la colpa non è tanto degli studenti né degli insegnanti ma di chi ha smantellato la scuola disorganizzandola». Ora, che il problema esista, è un fatto, dimostrato anche dalle statistiche Ocse che ci collocano sempre agli ultimi posti (in media, ma poi se vediamo nei dettagli, in certe regioni le cose vanno meglio). Ma forse il problema andrebbe analizzato nei dettagli e con più approfondimenti, senza sparare così, tout cort, sugli insegnanti che ormai è come sparare sulla Croce Rossa.

Va detto che la ribellione in rete è stata istantanea. Tantissimi i post di insegnanti che si sono sentiti trattati a dir poco come “delinquenti”, che distruggono le nuove generazioni. Che dire? È facile prendersela con gli insegnanti quando per decenni si è contribuito a delegittimare l’istruzione pubblica. Ma rimanendo ai fatti, vogliamo ricordare qualche tappa passata delle politiche scolastiche italiane? Così, tanto per rinfrescare la memoria. Otto miliardi (8) di euro di tagli sotto il duo Gelmini-Tremonti. Mai visto prima un simile disincentivo da parte dello Stato per la scuola pubblica. E questo mentre gli altri Paesi europei invece, pur nella crisi del 2008, hanno investito nell’istruzione. Ma prima ancora della mannaia tremontiana c’era stato il feeling del centrodestra per le tre i (Impresa, inglese e Internet), prima ancora la parificazione delle scuole private con quelle pubbliche (ahimè con il ministro ex comunista Luigi Berlinguer).

E poi, negli anni, a seguire, la riduzione delle ore di italiano nelle scuole medie e superiori, la scomparsa di certe materie come la storia dell’arte…
E poi non dimentichiamo cosa è arrivato dopo, con il governo di centrosinistra Renzi. Sissignori, è arrivata la Buona scuola, che non a caso è stata applaudita anche da Forza Italia perché ha completato l’opera gelminiana. Con un premier che alla lavagna spiegava le magnifiche sorti e progressive del preside manager e della scuola come azienda. Ma Renzi è solo l’ultimo protagonista di una storia che comincia da lontano. Un lungo cammino verso la delegittimazione della professione dell’insegnante, della riduzione della sua libertà d’insegnamento.

Esageriamo? Allora proviamo a scorrere una “giornata tipo” di un prof. Tra registri elettronici da riempire – così i genitori da casa possono seguire l’andamento scolastico dei figli e forse saranno meno aggressivi o forse non faranno ricorsi per le eventuali bocciature -, o le valutazioni Invalsi che fanno perdere tempo prezioso perché bisogna allenare gli studenti alle risposte standard per i quiz. E poi un’infinità di procedure burocratiche, tra Bes, Dsa, moduli per l’auto valutazione della scuola ecc. ecc. E poi cosa accade? Ti prendono altre ore di insegnamento, perché c’è l’alternanza scuola-lavoro – anche giusta ma forse da organizzare in un altro modo – e quindi, via, 200 ore nel triennio dei licei e 400 negli istituti tecnici. La scuola deve preparare al lavoro, la scuola non ha studenti ma clienti, dice il profeta della meritocrazia Roger Abravanel, molto in auge nel clima pre Buona scuola. Le competenze vengono ridotte, finalizzate all’unico scopo di imparare una professione. Con una miopia incredibile, perché è proprio in una situazione complessa come questa che stiamo vivendo che occorre un sapere complesso, come quello umanistico per esempio, da affiancare certo, a quello scientifico, per troppo tempo, questo è vero, vituperato in Italia. Come ha detto il filologo Luciano Canfora che ha firmato l’appello, bisognerebbe ritornare a studiare l’analisi logica e a tradurre dalle lingue, quelle antiche e quelle moderne per imparare a scrivere bene e anche a costruire un discorso con un minimo di logica. Qualche prof in rete si è lamentato anche per la novità contenuta in una delle deleghe della legge 107 che sono in esame nelle commissioni parlamentari. “Ma come? Adesso vogliono anche portare all’esame studenti con gravi insufficienze e poi ci accusano di non fare bene il nostro lavoro?”.

Che cosa sia la professione di insegnante lo spiega molto bene Franco Lorenzoni, il maestro di Giove (Terni) autore di un bel libro (I bambini pensano grande, Sellerio) che su Internazionale ha raccontato la sua avversità ai voti decimali alle scuole elementari. A un tipo di valutazione “fredda” che blinda il bambino in una gabbia da cui con difficoltà esce.
Sentite cosa scrive dell’essere insegnante: «Il nostro è un mestiere artigiano in cui dobbiamo avere la pazienza e il coraggio di mettere a punto gli strumenti del nostro operare ogni volta, perché ogni gruppo di bambini o ragazzi è un organismo complesso, composto da difficoltà e potenzialità sempre nuove, per affrontare le quali non ci sono ricette belle e pronte».

Contro l’abolizione dei voti decimali alla primaria si era schierato prontamente il Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità. Ma cos’è il Gruppo di Firenze? Intanto è nato nel 2005, fondato da Andrea Ragazzini, Sergio Casprini, Giorgio Ragazzini e Valerio Vagnoli, un preside e tre insegnanti in pensione. Le loro attività si possono scorrere nel sito. Convegni, incontri, appelli, lettere aperte ai docenti e ai politici. Nel 2008 una lettera del Gruppo di Firenze sulla necessità di un partito trasversale sul merito e la responsabilità prima delle elezioni politiche viene letta dalla ministra Gelmini nella prima audizione alla Camera dichiarando poi di fare suo il contenuto. Nel corso degli anni i membri del Gruppo di Firenze hanno alternato una dura critica alle occupazioni degli studenti alla protesta contro gli schiamazzi notturni in città. Le iniziative del gruppo di Firenze hanno sempre trovato molta attenzione da parte dei presidi. Eppure, sono proprio i presidi i primi, sostengono molti insegnanti, a impedire una valutazione troppo severa degli studenti da parte dei prof. “Ma come mai tutte queste insufficienze?” si sentono dire in tanti ai consigli di classe. È ovvio, tante bocciature non fanno fare una bella figura alla scuola e ormai siamo in un clima di scuola-azienda, di mercato…

Insomma,è molto semplice scaricare la colpa sui prof, quando le responsabilità sono di un intero sistema. Lo sosteneva anche Tullio De Mauro: se la scuola italiana non va bene dipende anche dall’assenza di una cultura di base. Per questo il grande linguista da poco scomparso, sosteneva a spada tratta la necessità di un’educazione permanente per gli adulti. Il ragionamento era semplice: se in una famiglia non si legge un libro, non si sente mai parlare di cinema o di teatro, è difficile che uno studente possa colmare il gap culturale solo con la scuola. Ma dell’educazione degli adulti o della promozione della cultura o della semplice lettura i vari governi succedutisi negli anni se ne sono bellamente disinteressati. E forse a poco serve che la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli oggi su Repubblica lanci la proposta di «attivare uno studio vivo del suo pensiero didattico». Tullio De Mauro, per la cronaca, era uno strenuo oppositore della Buona scuola.

Ordine anti-Islam: Trump furioso con i giudici. Tutti contro di lui

epa05773450 International travelers are welcomed by demonstrators at Dulles International Airport in Sterling, Virginia, USA, 05 February 2017. A federal judge on 03 February issued a temporary restraining order blocking enforcement of US President Trump's executive order from 27 January that banned people from seven mainly Muslim countries from entering the United States. EPA/Astrid Riecken

L’ordine esecutivo firmato da Donald Trump che impedisce l’ingresso ai cittadini di sette Paesi e che discrimina i musulmani rispetto ai cristiani rimarrà sospeso almeno fino alla giornata di oggi e continua a essere il centro dello scontro politico tra l’amministrazione repubblicana e il mondo.

Entro oggi infatti i due Stati che ne discutono la legittimità e la Casa Bianca dovranno produrre i loro argomenti legali di fronte a una corte d’appello. Prima gli uni e poi gli altri, in risposta agli argomenti dei primi. A quel punto la Corte deciderà se fissare un’udienza o proseguire nella sospensione dell’ordine, come già deciso al momento in cui gli è arrivata la richiesta di valutare l’ordine del giudice di Seattle che sospendeva la validità dell’ordine esecutivo. A seconda di cosa deciderà la Corte d’appello, Trump (o una delle 17 entità, tra Stati e associazioni che hanno contestato la legalità dell’ordine) porteranno il caso davanti alla Corte Suprema.

L’amministrazione ha reagito con rabbia alla decisione del giudice di Seattle e a quella della Corte d’Appello: Trump, come sempre su twitter, ha definito il giudice ha parlato di “cosiddetto giudice” e sostenuto che questi mette il Paese in pericolo e che se dovesse capitare qualcosa la colpa sarà del potere giudiziario. Non esattamente una risposta che rende giustizia all’equilibrio dei poteri previsto dalla costituzione americana.

Uno dei primi fronti di scontro politico parallelo a quello dell’ordine esecutivo è la nomina del giudice Gorsuch alla Corte Suprema. Visto il braccio di ferro in corso tra giudici e presidenza, il tema dell’indipendenza del potere giudiziario sarà al centro del dibattito sulla sua conferma: ritiene il giudice nominato che il presidente stia abusando degli ordini esecutivi? È pronto Gorusch a valutare in maniera indipendente questa modalità di governare? A differenza di casi in cui le domande poste al giudice nominato sono teoriche, qui ci si trova di fronte a un caso concreto che riguarda il presidente che ha scelto Gorusch. E che si è lasciato andare a insulti contro il potere giudiziario e le sue scelte che non sono abituali – un comunicato della casa Bianca, poi modificato, parlava di sentenza “scandalosa”.

Non è finita qui. Oltre alle manifestazioni di protesta che continuano in tutto il Paese, c’è un documento legale depositato presso la Corte d’appello che valuterà il caso firmato da 97 colossi dell’high tech, da Google a Facebook, da Apple a Uber, passando per Yelp, twitter, Mozilla. Manca solo Amazon – per ragioni oscure, visto che nemmeno Jeff Bezos sembra essere tenero con Trump. Queste compagnie hanno migliaia di dipendenti stranieri, sono forti anche grazia alla possibilità di reclutare il meglio che c’è al mondo e difendono un’idea che è un po’ parte del loro modo politically correct di presentarsi al mondo: multinazionali che rispettano le differenza di genere, religione, colore della pelle e che non discriminano. Resta il fatto che una mossa così unitaria da parte della Silicon valley è un brutto segnale per Trump.

L’ordine esecutivo è arrivato anche al Super Bowl che si è giocato a Houston e che, per la cronaca, i New England Patriots hanno vinto dopo una rimonta di 24 punti mai capitata prima nella finale annuale del football americano. Molti degli spot pubblicitari mandati in onda nell’intervallo alludevano direttamente alla scelta di Trump di discriminare le persone. AirBnB e Budweiser in maniera più diretta (lo spot della birra mostra la storia dell’immigrato tedesco, come la famiglia Trump, che ha fondato il marchio, con allusioni al viaggio dei rifugiati e al razzismo, mentre il portale di affitto stanze e appartamenti spiega “noi affittiamo a tutti”).

Ce n’è abbastanza per sapere che la scelta di emanare un ordine esecutivo così controverso e scritto male potrebbe rivelarsi un colossale errore. Aver distinto tra cristiani e musulmani, aver scelto alcuni Paesi e non altri e aver incluso (in un primo momento) anche i possessori di carta verde, sono tutte forzature dettate dall’ideologia. E potrebbero rivelarsi un boomerang. A meno che, come sostiene qualcuno, la decisione di alzare un polverone sul tema immigrazione dai Paesi islamici, non sia il frutto di una strategia di Steve Bannon, la mente di Trump, che potrebbe aver deciso di creare una controversia su una questione per far passare in secondo piano molte altre scelte fatte in queste ore. Mentre l’America si accapiglia attorno ai diritti di chi vive e lavora negli Usa, l’amministrazione Trump comincia infatti compie una serie di strappi in politica estera e comincia a demolire le regole imposte alle banche dopo la crisi finanziaria del 2008 – la legge Dodd-Frank. Un tema altrettanto cruciale e una scelta in totale contraddizione con la retorica anti poteri forti usata durante la campagna, che vedeva Hillary Clinton come la marionetta delle banche.

La Raggi (e Marino), l’avanspettacolo, il coraggio e la curiosità che diventa morbo

Rome Mayor Virginia Raggi leaves arriveas in Campidoglio, Italy, 03 February 2017. Rome's embattled Mayor Virginia Raggi said after emerging from eight hours of questioning by Rome prosecutors that she knew 'nothing' about a 30,000 euro assurance policy written out in her name by her former cabinet chief Salvatore Romeo. Raggi was questioned in a separate probe in which she is suspected of abuse of office for appointing Renato Marra, brother of her former right-hand man Raffaele Marra, as Rome tourist chief, ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Non amo la Raggi: la ritengo impreparata, con un pessimo fiuto nella scelta dei collaboratori e affetta da un pessimo (per i romani) timore reverenziale nei confronti del capo. Credo anche che un sindaco che esulta via chat per le dimissioni di un assessore della sua Giunta sia la fotografia di quella vecchissima politica che si riduce a gestione di piccoli poteri, cortili e beghe che non interessano ai cittadini e che soprattutto non fanno gli interessi dei cittadini.

Detto questo su Roma (con la Raggi ma pensandoci bene anche con Marino) si gioca una missione di demolizione morbosa che credo meriti una valutazione al di là degli attori (e dei partiti) attualmente in gioco: in questo Paese i bisogni reali (le real issues che ripete Sanders) spariscono perché a dettare l’agenda dell’avanspettacolo politico (di avanspettacolo del resto si tratta: tutti a dirci come potrebbe essere bello se ci fossero loro, in condizioni ideali che sono irrealizzabili) c’è un’oligarchia pavida e morbosa. Un’oligarchia che non è solo classe politica ma che abbraccia anche tutti gli attori dell’opinione pubblica: la disperazione di non essere ascoltati e letti ci ha reso tutti arrendevoli, proni alle notizia che gli altri vorrebbero leggere e fabbricatori di randelli (in carta o bit) per l’ordinaria ferocia.

Su L’Espresso di questa settimana, per fare un esempio, c’è un’inchiesta sul gioco d’azzardo (e sui mancati guadagni da parte dello Stato) che farebbe venire voglia di presidiare giorno e notte l’uscita del Parlamento per chiederne conto ai parlamentari, ad uno ad uno. Su Left in edicola Cecchino Antonini racconta il ritorno dell’eroina in un Paese che sta ripiombando nel pelo degli anni ottanta. Sulla rivista Lancet la scorsa settimana è stato riportato uno studio scientifico che racconta come le diseguaglianze sociali tolga salute e anni di vita più del fumo e del tabacco. Se vi venisse voglia di di approfondire la questione bancaria internazionale e dei grandi gruppi finanziari (basta un’intervista qualsiasi di Chomsky sulla distribuzione della ricchezza, senza troppo complottismi) per perdere fiducia nel genere umano. Oppure, senza andare troppo lontano, basterebbe salire su un treno di pendolari di prima mattina per ascoltare la povertà, la precarietà, la stanchezza e la disillusione senza bisogno di troppi sofismi.

Insomma c’è un carnet di emergenze per cui non basterebbero le pagine di un mensile su cui esercitare la curiosità critica e etica. Non è benaltrismo, sia chiaro: la guida della capitale italiana è un tema su cui vale la pena spendersi di sicuro, ma verrebbe da chiedersi se non sia possibile liberarsi una volta per tutte dalla morbosità delle due fazioni. Smetterla, intendo, con chi ritiene che la Raggi sia un novello Roosvelt attaccato dai poteri forti e dall’altra parte smetterla con chi vorrebbe trasformarla in un paradigma di fallimento a forma di randello sulla testa di Grillo. Sapere come pensa la Raggi di combattere la povertà, questo sì, mi interesserebbe, piuttosto. Perché poi Marino è stato assolto per la storia degli scontrini e si è scoperto che stava abbattendo il debito, ad esempio. Dopo, però.

Parlare dei temi nel merito. Ecco. Come andava di moda ripeterlo qualche mese fa. Ricordate?

Buon lunedì.

Chavela Vargas, l’immigrata simbolo di un Paese che non era il suo

Questa settimana su Left abbiamo fatto una chiacchierata con Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata su Chavela Vargas una delle voci che hanno segnato la musica dagli anni Quaranta a oggi. I due cantautori recentemente hanno intrapreso un viaggio da Palermo al Messico cercando di raccogliere storie e aneddoti sulla cantante costaricana diventata simbolo del Paese di Frida Kahlo e Diego Rivera. Il risultato di questa loro avventura è raccolto in un libro e in un cd entrambi intitolati Un Mondo raro in cui i due artisti ci raccontano e ci cantano la vita indomita e ribelle di quella che fu l’amante di Frida, ma anche una ragazzina di 17 anni che fuggiva dal suo Paese, il Costa Rica, perché omosessuale e perché sognava un futuro lontano dalla povertà. Impossibile, pensando a questo pezzo della storia di Chavela, non fare un parallelo con quello che accade oggi. «Questa parte della sua vita la rende per noi un’artista estremamente contemporanea» racconta Antonio Di Martino «Chavela era un’immigrata arrivata in Messico e diventata il simbolo della mexicanidad. Oggi l’accoglienza non è vista come era vista in quegli anni e soprattuto viviamo un’immigrazione che è più tragica perché la gente scappa da un posto dove c’è la guerra. Mi colpiscono molto storie come quella di Aeham Ahmed, il pianista di Yarmouk, che suonava fra le bombe». «Trovo che la storia di Chavela» aggiunge Fabrizio Cammarata «come quella di una persona che parte alla ricerca della propria felicità sia estremamente attuale. Forse per sensibilizzare di più un Paese come l’Italia ci vorrebbero storie come la sua. Sarebbe bello poter raccontare di un immigrato africano o siriano che arriva qui e si realizza al punto da diventare in qualche modo un simbolo del nostro Paese. È un peccato che da noi manchino questi simboli, altrove queste storie esistono. È successo a Chavela in Messico, ma anche a moltissimi in altri paesi di immigrazione, uno su tutti gli Stati Uniti dove quel sogno americano di cui tanto si parlava (e che ora con Trump sembra essere stato fatto a pezzi ndr) era proprio questo: felicità e realizzazione anche se si è stranieri. Un sogno italiano ancora non esiste».

#LeftPlay > LA PLAYLIST DI DI MARTINO E CAMMARATA PER CHAVELA

Sul canale Spotify di Left trovate anche una playlist che Antonio Di Martino e Fabrizio Cammarata hanno dedicato a Chavela Vargas tra canzoni scritte o eseguite da loro stessi, miti della musica ispanica come Mercedes Sosa, e internazionale come Billie Holiday. Buon ascolto.

Vi raccontiamo del “Mondo raro” di Chavela Vargas su Left in edicola

 

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Michele Maio, oncologo: «Così alleniamo il Superorganismo contro i tumori»

I quadri di Keith Haring danno decisamente una nota di colore al centro di Immuno-Oncologia del policlinico di Siena. E quelle linee e forme dell’artista pop americano sembrano quasi richiamare “l’intreccio” delle cellule del corpo umano. Cellule sane ma purtroppo anche malate. C’è un’opera di Haring anche nello studio di Michele Maio, il responsabile del centro diventato ormai punto di riferimento in Italia per l’immunoterapia contro il cancro. Ematologo ed oncologo, racconta a Left la “rivoluzione terapeutica” che ha descritto nel libro scritto insieme ad Agnese Codignola Il corpo anti cancro (Piemme). Lo abbiamo incontrato per capire come possa essere attivato e potenziato “il Superorganismo”, il sistema immunitario, del quale fino a trent’anni fa si pensava non potesse fare nulla contro i tumori. «Un dogma che è crollato», dice Maio. E così la quarta strada, l’immunoterapia, oltre alla chemioterapia, radioterapia e chirurgia, si sta rivelando uno strumento efficace nella lotta contro i tumori. Il melanoma soprattutto, poi il tumore del polmone, e altre patologie oncologiche visto che sperimentazioni sono in corso su tutti i tumori.
«È negli ultimi trent’anni – afferma Maio – che si è avuto un fortissimo incremento delle conoscenze sulla fisiologia del sistema immunitario, su come funziona e come può essere in grado di tenere sotto controllo tutto ciò che c’è di estraneo nel nostro organismo, compresi i tumori. Si è compreso molto anche sul versante dei tumori: le caratteristiche delle cellule tumorali, come queste interagiscono e sfuggono al controllo del sistema immunitario. Si è passati quindi da osservazioni di tipo empirico a testare in clinica la possibilità, usando vari tipi di agenti terapeutici, che questa interazione fra sistema immunitario e tumore potesse essere potenziata e quindi che si potesse realmente. Un processo con alti e bassi, fino alla svolta decisiva e definitiva negli ultimi dieci anni».
Nella lunga intervista Maio parla dei farmaci che hanno dato impulso all’immunoterapia e di come agiscono gli anticorpi, divisi in “agonisti” e “antagonisti”. Ma il focus è rivolto soprattutto alle prospettive future. Maio ci tiene a sottolineare: che «l’immunoterapia non è un ricostituente del sistema immunitario, l’immunoterapia si può anche sostituire del tutto alla chemioterapia ma solo quando abbiamo dati in tal senso che non possono che derivare dalle sperimentazioni cliniche in corso».

L’articolo integrale lo trovate su Left in edicola dal 4 febbraio

 

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I romanzi che smascherano Trump e il trumpismo

Il “fenomeno” Trump e il trumpismo non nascono dal nulla. Ma hanno radici nell’America profonda, razzista e suprematista, nella cultura arretrata e bigotta di aree come l’Appalachia, il Kentucky e la cosiddetta Bible Belt, la cintura più confessionale ed evangelica. Se vogliamo capire cosa sta accadendo Oltreoceano e chi sono gli elettori del neo presidente basta leggere western non convenzionali come Warlock (Sur) di Oakley Hall, che mostrano cosa nascondono il mito dello sceriffo armato fino ai denti e l’estremo individualismo dell’America selvaggia. Oppure ci si può rivolgere ai romanzi pulp di Joe R. Lansdale (che sarà ospite di Firenze libro aperto dal 17 al 19 febbraio), pieni “bifolchi texani”, di «gente che dorme con la pistola sotto il cuscino, che odia i messicani, che ce l’ha con gli immigrati», racconta Luca Briasco traduttore di Paradise sky (Einaudi) ma soprattutto autore di Americana (Minimum Fax) un appassionato viaggio nella letteratura nordamericana attraverso quaranta autori scelti da Michel Chabon a Jonathan Safran Foer. Un libro che, oltre a tracciare un percorso storico degli ultimi cinquant’anni racconta nuovi filoni letterari, prefigurando un nuovo canone contemporaneo in cui un posto di primo piano spetta alle nuove autrici, da Emma Cline,Le ragazze (Einaudi) a  Hanya Yanagihara  Una vita come tante (Sellerio).

Ma non solo. In Americana Briasco analizza la raffinata e profonda critica al turbo capitalismo americano di Don DeLillo e di Thomas Pinchon, a cui affianca la voce di Foster Wallace e, sul versante più realistico, quella di Kent Haruf, l’autore di Canto della pianura, terzo romanzo della trilogia pubblicata da NN editore. Autori che esprimo un punto di vista critico, ma anche «umano e partecipe», dice il critico e traduttore che il 4 febbraio presenta Americana alla Libreria volante di Lecco e poi a Roma, a La Spezia, a Firenze e in altre città. Sul nuovo numero di Left ci guida in un lungo e articolato viaggio fra i libri che aiutano a capire in profondità l’America di oggi.

L’articolo integrale lo trovate su Left in edicola dal 4 febbraio

 

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Federico Pizzarotti riparte. Dalla partecipazione e dai cittadini in fuga dai partiti

Federico Pizzarotti durante la conferenza stampa nella sede del municipio di Parma, 3 ottobe 2016. ANSA/ SANDRO CAPATTI

È pronto per un secondo mandato nella sua città, l’ex pentastellato sindaco di Parma Federico Pizzarotti. Del Movimento ha perso il marchio ma non il vizio, quello di puntare sulla democrazia partecipata, di credere nel coinvolgimento attivo dei cittadini e nell’amministrazione di squadra che non è l’alleanza di partiti. E perché no, anche nella Rete. E «con i principi con i quali siamo entrati e ai quali siamo rimasti fedeli fin dalle origini», si prepara assieme a tutta la sua squadra e alla sua lista “Effetto Parma”, alle elezioni amministrative della prossima primavera. Cosa che gli ha immediatamente attirato le ire dei pasdaran Cinquestelle.

«Ebbene sì, ci siamo ributtati della mischia». Ride, e parla sempre al plurale, Federico. Nella mischia da soli, dunque per adesso? «Ma per adesso e anche per dopo», risponde ironico ma perentorio. «Salvo l’apertura a dialogare con altre liste civiche. Ma nel panorama attualmente non ce ne sono, e quelle che ci sono esprimono valori che non vedono una nostra condivisione».

I valori di cui parla sono quelli di sinistra, della cui declinazione partitica però, il sindaco non salva niente: «Non condivido nulla di quello che il sedicente “centrosinistra” è o ha fatto. Gli esempi che mi trovo a citare sono uomini come Pertini o Berlinguer. Che con la sinistra attuale non hanno niente a che vedere».

E cos’è la sinistra quindi? «Principalmente buon senso». Nella lunga intervista sul numero di Left in edicola, con il primo cittadino parmense abbiamo parlato di democrazia – che è tale se è partecipata – , di amministrazione – che è buona se segue appunto il buon senso -, e di Movimento 5 stelle. Ormai molto, molto lontano da quello civico, orizzontale nato proprio in Emilia-Romagna.

Certo, a questo punto sono moltissimi gli ex-grillini in giro per l’Italia. Si può pensare di recuperare questo patrimonio disperso? A questo e a molto altro, il sindaco più grillino di Grillo risponde nell’intervista integrale in edicola da sabato.

 

L’intervista integrale la trovate su Left in edicola dal 4 febbraio

 

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Quello del governo non è un reddito minimo

epa05694399 Elderly people leave hand-in-hand with a bag full of food during a New Year's meal for the homeless and poor provided by the city of Athens, in Athens, Greece, 01 January 2017. The Athens municipality's Reception and Solidarity Centre served the traditional luncheon on New Year's Day to more than 1,000 poor citizens. EPA/SIMELA PANTZARTZI

Cibo, casa, vestiario, trasporti. Per 4 milioni e 600mila italiani – il 7,6 per cento della popolazione – reperirli è un problema. L’Istat direbbe che non raggiungono standard di vita “minimamente accettabile” e cioè che versano in condizioni di povertà assoluta. Un fenomeno che è cresciuto del 155% dall’inizio della crisi economica, quando erano 1 milione e 800mila, dati 2007. Poi, ci sono più di 8 milioni e 300mila che consumano meno della media e versano, quindi, in condizioni di povertà relativa. Ognuno di loro, in buona sostanza, deve arrabattassi tra file e labirintici sportelli per ottenere aiuti, sostegni, carità anche. Perché l’Italia non ha alcuna forma di sostegno universale per chi rimane indietro. E da gennaio è rimasta l’unica in Europa, adesso anche la Grecia avrà il suo reddito minimo. Eppure di welfare universale in Italia se ne discute da 70 anni.

La situazione si comincia a muovere un anno fa, quando il governo Renzi riapre il percorso parlamentare con una legge delega per l’introduzione del Reddito d’inclusione. L’acronimo è Rei, il 2 febbraio sono scaduti i termini per la presentazione degli emendamenti alla commissione di Palazzo Madama, ed è assai probabile che verrà presto presentato al Senato così come uscito dalla Camera. Senza modifiche e senza altre perdite di tempo. Si tratta di un assegno mensile variabile dai 350 ai 450 euro a cui avrebbero diritto tutte le famiglie o i soggetti che vivono sotto la soglia di povertà, secondo l’indice Isee, con precedenza alle famiglie con minori, anziani e disabili. Una misura rivolta a tutti i poveri, fanno sapere dal governo. Tutti? Quasi, in verità. La nuova legge sui poveri, abbraccerebbe solo 1 milione e 400mila cittadini dei più di 4 milioni e mezzo in estrema difficoltà.

Delle soluzioni adottate in Grecia e in Finlandia, delle proposte di Benoit Hamon in Francia, di quanto la crisi in Grecia ci abbia insegnato senza però alcuno scolaro (ne abbiamo discusso con Andreas Nefeloudis, segretario generale del ministero del Lavoro greco): di tutto questo si compone il nostro primo piano di questa settimana, dedicato al reddito minimo. E cerchiamo di fare un po’ d’ordine tra le tante diciture: reddito di base, reddito minimo, reddito d’inclusione, misura anti-povertà. Anche perché le elezioni sono dietro la porta. E ne sentiremo delle belle.

Lo speciale integrale lo trovate su Left in edicola dal 4 febbraio

 

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