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Le foto della settimana dal mondo

(EPA ANSA/ LISI Niesner)

28 gennaio 2017. Santa Olga, Cile. Il paesaggio lasciato da una serie di incendi alimentati dai forti venti e dalla siccità hanno devastato circa 273.000 ettari in circa una settimana, uccidendo circa 10 persone e migliaia sono gli sfollati.

29 gennaio 2017. Pantin, Parigi. Un nuotatore professionista nuota sotto il ghiaccio nel canale dell’Ourcq

29 gennaio 2017. Vienna, Austria. Il Danubio gelato (EPA ANSA/ LISI Niesner)

30 gennaio 2017. Ennore, Chennai, India. Un uomo del Pollution Response Team raccoglie campioni della fuoriuscita di petrolio avvenuto dopo che una petroliera e una nave cisterna piena di GPL si sono scontrate domenica 29 gennaio al largo del porto di Kamarajar

Lerwick, Shetland. La tradizionale festa del fuoco, nota come Up Helly Aa, si svolge ogni anno l’ultimo Martedì di gennaio.

Manila, Filippine. Un ragazzo si protegge dalla pioggia usando una vecchia valigia.

Jakarta, Indonesia. Le modelle dello stilista del Myanmar Myat Waso. (ANSA EPA / ADI WEDA)

1 febbraio 2017. Ramallah, Cisgiordania. Coloni oltranzisti vengono allontanati dalle forze di sicurezza israeliane dopo che una sentenza dell’Alta Corte ha riconosciuto che le case sono state costruite su terreni privati palestinesi.

Il ponte del Patriarca nel centro di Mosca in una giornata invernale

Un carro armato delle Forze ucraine in un cortile in uno dei punti caldi della città di Avdiivka a nord di Donetsk, Ucraina

2 febbraio 2017. New York. Proteste contro l’ordine esecutivo emanato da Trump che vieta l’ingresso in America a immigrati e rifugiati provenienti da sette paesi a maggioranza musulmana

Ha Nam, Vietnam. Sono arrivati da tutto il mondo per partecipare al concorso per artisti per dipingere i bufali durante il ‘Painting on Buffalo’ festival. (ANSA EPA / LUONG THAI)

3 febbraio, 2017. Porto di Lesconil, Francia. Onde alte e vento forte su alcune aree della costa francese.

Non c’è più tempo per i vecchi tatticismi

Anna Falcone, vice presidente del Comitato per il 'No' al referendum di Ottobre durante un' iniziativa organizzata a Napoli, 15 Giugno 2016. ANSA/CIRO FUSCO

Non c’è più tempo. Non c’è più tempo per i tatticismi, per le liturgie della vecchia politica, per i congressi orfani di militanti e di idee, quelli fatti per contarsi (quelli che sono rimasti) o per vendicarsi degli oppositori e sistemare al meglio i fedelissimi. L’Italia e gli italiani sono già altrove. E la Sinistra, in questo altrove, ancora non c’è. Non c’è perché, nel logorante dibattito di questi ultimi giorni, emerge prepotentemente la miopia di chi, fattosi classe dirigente grazie alle ultime leggi elettorali dei ‘nominati’, è tutto proteso a garantirsi un posto al sole anche nella prossima legislatura, invece che a garantire un futuro al Paese. E, invece, ciò che conta, ciò che conterà alle future elezioni non saranno le attuali proiezioni elettorali delle forze politiche in campo o di quelle che si potranno formare dalla scissione e riorganizzazione degli attuali partiti. Ciò che conta è l’idea di Paese che si proporrà agli italiani. Sfida non facile, visto che una sinistra con ambizioni di governo (e una sinistra che creda realmente ai suoi ideali non può non averne) deve fare i conti con una realtà che è profondamente mutata e le cui criticità non posso essere risolte con le tradizionali categorie di analisi del pensiero di sinistra. Poche cruciali domande chiedono immediate risposte, ad esempio: come affrontare la fine del lavoro, ovvero l’inevitabile avanzamento dei processi di automazione della produzione a scapito del lavoro individuale?

Quale modello di sviluppo proporre per far convivere progresso e tutela delle risorse umane e naturali? Come risolvere il problema della sovrappopolazione, della tutela della salute su larga scala, dell’accesso alle tecnologie, alle informazioni e a una istruzione di qualità? Come garantire equità fiscale, sovranità monetaria e un modello di Europa solidale ed equilibrato fra gli Stati membri? Non ultimo, quali soluzioni per redistribuire i mezzi di produzione della ricchezza in un contesto globale in cui singole multinazionali superano – e spesso di molto – il PIL di tanti Paesi, mettendo in crisi il modello e l’esistenza stessa dello Stato sociale di diritto? Questi sono solo alcuni dei temi centrali a cui dare risposta immediata: i grandi assenti nel dibattito politico post-referendario.

Noi del “Comitato per il No” abbiamo dato una traccia: iniziamo dall’attuazione della Costituzione. Sarebbe un primo, cruciale punto di partenza, e pure non basterebbe, perché i problemi delle società post-moderne superano le previsioni storicamente condizionate della nostra Carta e ci pongono davanti a interrogativi ulteriori, dove, ad esempio, il reddito di cittadinanza rischia di essere un palliativo, e la riduzione a 6 ore della giornata lavorativa potrebbe non bastare a garantire la dignità delle persone e le pari opportunità fra i cittadini: figurarsi l’uguaglianza! Ma allora – ed è questa forse la vera domanda – cosa osta a raccogliere intorno a un tavolo le migliori teste, i nostri ricercatori più bravi (quelli che dovremmo riportare in paria al posto di quale ministro inutile e ridondante), gli attori sociali e i protagonisti delle best practices, in Italia e all’estero, nel mondo dell’associazionismo, della cultura ecc., per delineare un progetto di sviluppo del Paese in cui diritti, solidarietà e sviluppo equo e sostenibile vadano finalmente d’accordo con la parola “modernità”? Perché se una lezione è arrivata dal voto del 4 dicembre è che un’altra Italia, più giusta, più solidale, più meritocratica, più democratica, è possibile, ma occorre mobilitarsi tutti, in una grande operazione di democrazia propositiva e partecipativa, non restare a guardare le auspicabili scissioni e riunificazioni di sigle ormai logore agli occhi dei più. L’unità in un nuovo soggetto della Sinistra riformista, profondamente innovativa e all’altezza dei tempi e delle persone parte dai temi e dalle idee. Liberiamole e misuriamoci su queste! Perché le liste unitarie e le alleanze di una stagione non funzionano e non bastano più. A nessuno. Pensiamoci. Perché questa rischia di essere l’ultima occasione per ciò che resta degli attuali partiti. O i cittadini si organizzeranno da soli in un nuovo inizio politico, più coerente e funzionale alla realizzazione di quegli ideali che i vecchi partiti non rispecchiano più.

Di sinistra continuiamo a parlare su Left in edicola dal 4 febbraio

 

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«L’eroina non basta più. Vi racconto le droghe di oggi». Danny Boyle, non solo su Trainspotting2

Simon (Jonny Lee Miller) and Mark Renton (Ewan McGregor) in TriStar Pictures’ T2: TRAINSPOTTING

«Dopo la prima ho messo su il vinile dei Pink Floyd, The Wall. Un album affascinante, uno dei migliori in assoluto». Inizia così la nostra intervista al regista Danny Boyle, che in questi giorni presenta T2 Trainspotting, sequel atteso per più di vent’anni, in cui al centro permangono gli effetti delle droghe e delle dipendenze, e le conseguenti evoluzioni delle stesse. «La ricerca del passato è diventata la dipendenza più forte per Renton e compagni», ci confida Boyle. E forse la citazione del vinile è un effetto di quella dipendenza, dello spasmodico bisogno di un ritorno a un passato idealizzato, in cui si è certi di vivere meglio rispetto al presente.

Trainspotting affrontava con cinismo e razionalità la questione dell’abuso delle sostanze stupefacenti, in particolare dell’eroina, nelle giovani generazioni. Come sono cambiate quelle dipendenze?

Si può intuire già dal trailer del film, in cui il celebre discorso del protagonista, Mark Renton, interpretato da Ewan McGregor, cambia rispetto a Trainspotting: stila un elenco delle nuove dipendenze moderne, diverse da quelle che potevamo avere negli anni 90.

Sì, «Scegliete facebook, twitter, instagram, e sperate che, da qualche parte, a qualcuno, freghi qualcosa», dice Renton, i tempi sono cambiati. Ma la dipendenza consumistica del 1996 era diversa, per esempio spappolarsi il cervello davanti ai quiz in tv ingozzandosi di schifezze…

In T2 Trainspotting il passaggio a nuove dipendenze è rilevante ed evidente, non solo nel discorso motivazionale del protagonista, è qualcosa che percepiamo senza neanche accorgercene. Ci sono scene in cui vediamo gente seduta al ristorante che si comporta esattamente come noi, che non schiodiamo gli occhi dal cellulare neanche quando attraversiamo la strada, dipendenti da tutte queste informazioni che viaggiano veloci, e di cui non riusciamo a fare a meno.

Nel film l’eroina e gli effetti devastanti dell’Aids lasciano il posto a twitter e facebook, ok. Però c’è la cocaina, Sick Boy (Jonny Lee Miller) se ne fa ambasciatore anche se non è più lo stesso. Adesso la sua attenzione è canalizzata sul porno e, salvo una ricaduta in nome dei “bei vecchi tempi”, la droga della sua adolescenza, l’eroina, lascia il posto alla polvere bianca. Cosa è cambiato?

Il primo film è incentrato sulla sfida che rappresenta l’adolescenza, sullo sbeffeggiare le scelte che la vita apparentemente impone, in contrasto con la ricerca del piacere e dell’evasione che invece la droga, specialmente l’eroina, comporta per i protagonisti. A distanza di vent’anni, nel pieno di un periodo che dovrebbe comportare consapevolezza e responsabilità, quel discorso assume un ruolo diverso.

La lunga intervista a Danny Boyle e lo speciale sull’eroina lo trovate su Left in edicola dal 4 febbraio

 

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Ma com’è che a Virginia Raggi non dicono mai niente?

Il sindaco di Roma Virginia Raggi durante la celebrazione del Giorno della Memoria in Campidoglio insieme con gli studenti delle scuole romane che hanno partecipato alle iniziative per il Ricordo a Roma, 27 gennaio 2017. ANSA/Massimo Percossi

Eh no, Virginia, questa non te la passano. Si accettano amicizie con loschi figuri (Raffaele Marra, braccio destro della Raggi poi arrestati per corruzione); passino avvisi di garanzia ad assessori (Paola Muraro) che hai difeso a spada tratta, di cui non sapevi proprio subito; e passi anche quel dossierino che ha fatto fuori il tuo sfidante e collega consigliere Marcello De Vito. Va anche bene che ti indaghino per qualche nomina di manica larga (con le accuse di abuso d’ufficio e falso) – tanto, guarda un po’, c’è un codice di comportamento che te lo consente, se lo dici a Beppe. Passino anche i video all’una di notte e i post alle 5 di mattina, ma la polizza sulla vita a tua insaputa no! Questa volta la Rete non ci sta, e tra il serio e il faceto si ribella.

Ma la questione è ben più seria. Dopo otto ore di interrogatorio, nell’ambito dell’indagine della Procura di Roma sulle nomine del sindaco capitolino, condotta dai pm Paolo Ielo e Francesco Dall’Olioviene fuori anche una polizza assicurativa che il fedelissimo (e probabilmente qualcosa di più) Salvatore Romeo avrebbe intestato alla prima cittadina durante la corsa alla candidatura da sindaco. Sei mesi dopo, lei vince le elezioni e lo promuove da semplice dipendente a capo della segreteria politica. Con un balzo di stipendio equivalente: da 39mila a 110mila (che l’Anac di Cantone gli farà poi ridurre a 93mila).

Beneficiaria di un’attenzione solitamente riservata a un familiare, il sindaco “casca dal tetto”. In caso di morte del dipendente pubblico, il sindaco incasserebbe 30mila euro. Ma lei, non ne sapeva niente: «Della polizza stipulata per me da Romeo ho appreso questa sera. Sono sconvolta». Inevitabile il richiamo alle dichiarazioni dell’ex ministro Claudio Scajola, al quale “a sua insaputa” avevano addirittura intestato una casa vista Colosseo (dalla cui vendita ha incasssato nel 2014 ben 1,63 milioni di euro).

In realtà, la normativa antiriciclaggio (il decreto legislativo 231/2007) prevede che le compagnie di assicurazione, in qualità di intermediari, debbano effettuare l’attività di “adeguata verifica” dei propri clienti. Ovvero, quando si stipula una polizza potrebbe esserci un modulo da firmare, di Adeguata verifica clientela, appunto. Ma a quanto pare, stando alle dichiarazioni di Raggi, «queste polizze possono essere fatte senza informare il beneficiario, non devono essere controfirmate».

Oltre a quella del sindaco, sarebbero uscite nel frattempo altre 10 polizze intestate ad attivisti M5s e parenti, per un valore complessico di circa 100mila euro. Fatto grave, sul quale gli inquirenti stanno continuando a scavare in attesa di capire la ragione di questi investimenti.

Ripensando alle dichiarazioni di Virginia Raggi in questi mesi, però, viene spontaneo chiedersi: ma non le dicono mai niente?

La prima “supercazzola” Virginia ce la propina un anno fa, il 25 febbraio 2016, nella sua conferenza stampa d’esordio da candidato sindaco. Alla domanda sul perché nella presentazione del suo curriculum sul blog avesse omesso il particolare che il tirocinio da avvocato l’aveva svolto nello studio di Previti, lei, educata ma con quel pizzico di strafottenza e piglio finto naiv che la caratterizza, replica: «Non ho nemmeno scritto tutti i luoghi in cui ho fatto la baby sitter, se è per questo». Ma no, Virginia, non era “per quello”.

Un’altra sequela di dichiarazioni di dubbia credibilità, ce la propina durante le indagini che vedono protagonista il suo (ormai ex) assessore all’Ambiente, Paola Muraro. Prima nega e blinda: «La Muraro non si tocca», poi in commissione Ecomafie a settembre scorso, la definisce «presunta contestazione». Dopodiché, in un’intervista a Repubblica, tenta di spiegaci che ci sono strani movimenti di rifiuti ingombranti («Non ho mai visto tanti rifiuti pesanti, divani, frigoriferi abbandonati per strada – innesca la polemica la sindaca – non so se vengono fatti dei traslochi, se tanta gente sta rinnovando casa, ma è strano…»). A dicembre invece, quando proprio non si può negare l’evidenza, pubblica un video in notturna che tutti ricordiamo.

Ora, addirittura viene fuori (dalla chat dei “quattro amici al bar” con Frongia, Marra e Romeo) che la blindatissima delegata all’Ambiente non era stata una nomina voluta da lei. “Mi hanno imposto questa Muraro, è legata ad un sistema di potere, sono molto preoccupata” è la frase che riporta il Messaggero.

Anche su Raffaele Marra, da lei nominato vice capo di gabinetto prima, capo del personale poi, e arrestato il 16 dicembre scorso, ce ne ha riservate parecchie: l’uomo che tutto muoveva, e che sembrerebbe addirittura aver pilotato la stessa elezione a candidata ufficiale del Movimento 5 stelle, sarebbe stato solo «uno dei 23 mila dipendenti del Comune». Peccato che, stando alla testimonianza resa dal capo dell’avvocatura del Campidoglio Rodolfo Murra, «la sindaca Virginia Raggi convocava le riunioni soltanto se lui era presente». Se l’avesse fatto con tutti e 23mila i dipendenti, altroché assemblee fiume. Anche qui, la tesi preponderante è: «Non sapevo. È stata una sorpresa». Chiede scusa, il 16 dicembre, in una conferenza stampa immediatamente dopo l’arresto (sempre col fidato Romeo affianco), ma toppa anche qui le motivazioni: «Marra era già un dirigente dell’amministrazione precedente e ci siamo fidati». Di quale amministrazione precedente parla, esattamente? Di quella di Marino, che per molto meno ha avuto Di Battista e tutto il Movimento sotto il campidoglio per settimane, o di quella di Alemanno?

Ora, della strana liason con il suo ex capo della segreteria, e dall’indagine in corso, siamo sicuri che usciranno altre sorprese. Soprattutto per il sindaco di Roma, Virginia Raggi. E qui, la domanda sorge spontanea: Virginia, ma com’è che a te non dicono mai niente?

Come pubblicare un libro, da esordiente. Guadagnando

Avete un romanzo nel cassetto? Volete che sia letto e valutato da case editrici importanti? Non avete soldi per pagare delle agenzie letterarie ed esperti di editing? Sono le questioni che tormentano tutti gli scrittori in erba, giovani e o meno, costretti a fare un immane lavoro per trovare i “canali giusti”, per proporsi, costretti a passare le giornate a spedire manoscritti come messaggi in bottiglia che, di solito, restano senza risposta. Un percorso faticoso che alla fine spinge molti potenziali esordienti ad accontentarsi del self publishing.

Per far incontrare chi scrive e chi pubblica in modo reciprocamente vantaggioso Stefano Mauri, presidente del gruppo editoriale Mauri-Spagnol ha inventato il torneo Io scrittore. Iscriversi non costa niente. Basta pubblicare l’incipit del propria opere sul sito www.ioscrittore.it entro il 7 febbraio, perché sia valutato da lettori e da editor professionisti. Cosa viene chiesto in cambio? Di leggere con cura gli incipit degli altri partecipanti al torneo, per poi esprimere un proprio giudizio in maniera costruttiva, che possa essere utile all’autore per migliorare il proprio lavoro. « Nel corso degli anni il meccanismo di funzionamento del torneo è stato affinato» racconta Elena Pavanetto, responsabile marketing del gruppo GeMS.«Pubblicare solo l’incipit, invece che l’opera intera come veniva richiesto anni fa, per esempio, permette agli autori di poterla modificare strada facendo, traendo vantaggio dai consigli ricevuti, dagli altri concorrenti e dagli editor del gruppo GeMS che fanno supervisione». Ma non solo. Dal sito di Io scrittore si può scaricare gratuitamente anche un e-book in cui autori già affermati come ad esempio Clara Sanchez danno consigli su come migliorare il plot, come tratteggiare i personaggi, come curare la struttura e addirittura la grammatica.

Certo, il talento non si insegna, ma migliorare la forma di certo non nuoce, in vista della gara per il premio finale: la pubblicazione della propria opera in e-book, «firmando un regolare contratto con una delle case editrici del gruppo, che prevede delle royalties per lo scrittore, nel rispetto del diritto d’autore», dichiara Pavanetto. Vincitrice di una passata edizione di Io Scrittore, Valentina D’Urbano ha pubblicato  Il rumore dei tuoi passi con Longanesi nel 2012,  romanzo che  ha venduto 130mila copie.  E non è la sola.  Altri autori emersi con Io scrittore sono Ennio Tarantino Sto bene, è solo la fine del mondo (Bollati Boringhieri) e Susanna Raule L’ombra del commissario Sensi.

I numeri di Io scrittore sono abbastanza impressionanti: 114.655  giudizi sulle opere partecipanti, 3.988 nuovi scrittori all’ultima edizione, 12.244 opere valutate,  98  nuove voci pubblicate in e-book, 11 nuovi autori in libreria, 100mila euro di Royalties distribuite agli autori.

Il trucco qual è? «Nessun trucco, è il risultato dell’impegno di tutti i partecipanti al torneo, degli autori ai quali viene chiesto non solo di leggere gli incipit, ma nelle fasi successive del premio, una trentina di opere per intero. E dell’impegno degli editor del gruppo che mettono a disposizione le proprie competenze» spiega  Elena Pavanetto di GeMS, annunciando le tappe successive del torneo, che si terranno a Tempo di Libri  la nuova fiera milanese dell’editoria che si tiene ad aprile (in quella occasione saranno annunciate le 300 opere selezionate) e  poi a Book City quando verranno annunciati i vincitori finali.

Qui per iscriversi al torneo Io scrittore:www.ioscrittore.it/ioscrittore2014/preiscrizione.aspx
Qui il regolamento:Regolamento www.ioscrittore.it/regolamento

«Obbliga i vescovi a denunciare i preti pedofili». L’appello delle vittime a papa Francesco

La manifestazione contro gli abusi sessuali da parte dei preti pedofili organizzata dall'associazione americana Survivors Voice, oggi 29 ottobre 2011 davanti al Vaticano, a Roma. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Papa Francesco faccia seguire i fatti alle parole e crei le condizioni affinché i preti pedofili vengano incriminati e processati. La richiesta giunge direttamente dalle vittime dell’Istituto per sordomuti Provolo di Verona, che insieme ad altre vittime italiane denunciano in un video l’atteggiamento contraddittorio del papa in merito agli abusi da parte del clero italiano. La Conferenza episcopale italiana, infatti, nelle sue linee guida anti pedofilia non ha inserito l’obbligo di denunciare i pedofili alla magistratura e in 15 anni su oltre 150 sacerdoti inquisiti nemmeno uno è stato segnalato dai suoi superiori. Perché – chiedono le vittime – il papa non obbliga i vescovi italiani a denunciare?

https://www.youtube.com/watch?v=ngq37tgMRuk

«Papa Francesco, siamo qui, ancora una volta. Ora basta!» avvertono le vittime esprimendo il loro sdegno nel vedere gli stessi sacerdoti che in passato abusarono di loro, violentare ancora oggi dopo essere stati trasferiti in Argentina, gli unici provvedimenti adottati, denunciano, sono stati gli allontanamenti da Verona dei casi più problematici. La vicenda più recente riguarda don Nicola Corradi, allontanato in tutta fretta anni fa dopo le molteplici denunce degli ex allievi dell’Istituto Provolo di Verona, nascosto nell’omonimo istituto per bambini sordi Inchiesta per pedofilia a Lujan de Cuyo in Argentina e riapparso da alcune settimane in carcere a Corradilla, con l’accusa di aver abusato numerosi minori a lui affidati.

Eppure sono tanti i documenti e le testimonianze raccolti dalla Rete L’Abuso, che ha prodotto il video con la collaborazione dell’associazione Sordi Provolo onlus, e dai libri-inchiesta pubblicati tra il 2010 e il 2014 da Federico Tulli per L’Asino d’oro edizioni. E non sono pochi i preti che malgrado denunce o condanne continuano come a esercitare il ministero sacerdotale. Don Giampiero Bracchi che aveva già patteggiato una condanna a 2 anni nel 2008 e che nel 2014 patteggia una seconda volta. Don Tiziano Miani arrestato nel 2003 e fatto fuggire negli Stati Uniti dove nel 2010 sarà nuovamente accusato e processato. Don Pascal Manca, già denunciato nel 2012, trasferito in un’altra parrocchia e arrestato nel maggio del 2015. Don Calcedonio Di Maggio, condannato ben 3 volte e mai “spretato”.

Brexit, Jeremy Corbyn alle prese con l’ennesimo scontro nel Labour

epa05764899 Protesters demonstrate against parliament's vote to invoke Article 50 outside parliament in London, Britain, 01 February 2017. Parliament is holding its final day in a two-day long debate on the bill to trigger Article 50 and Britains exit from the EU. MP's will vote to trigger Article 50 on 01 February. EPA/ANDY RAIN

Il conflitto interno al partito laburista britannico non si assopisce. Anzi, in un contesto politico in cui tutto ruota intorno alla Brexit, la leadership di Jeremy Corbyn continua a essere appesa a un filo. E la settimana appena passata non ha certo aiutato il politico originario di Chippenham.

La svolta riguardo alla Brexit, è arrivata mercoledì, quando Westminster ha approvato, con una maggioranza solida, l’attivazione dell’articolo 50, la clausola del Trattato di Lisbona che disciplina l’uscita di uno stato membro dall’Unione europea (Ue).

498 voti a favore e 114 contrari: una sentenza indiscutibile appunto. Ma tra i 114 contrari ci sono ben 47 deputati laburisti. Certo, la principale forza politica a opporsi contro l’articolo 50 è stato il partito nazionalista scozzese (Snp), ma, a prescindere dalla direzione di voto, quest’ultimo si è mosso in maniera ordinata. La linea ufficiale del Labour era infatti quella di votare a favore dell’articolo 50.

Corbyn è quindi alle prese con l’ennesimo scontro interno al partito. Un’analisi del voto parlamentare a cura di Ashley Kirk per il Telegraph sottolinea che ben 17 dei così detti “frontbencher” (un termine che indica i deputati delle prime file dell’aula parlamentare – di solito si tratta, nel caso dell’opposizione, dei ministri ombra e dei leader più importanti) hanno apertamente sfidato la linea dettata da Corbyn. All’interno del Labour, la maggior parte di coloro che si è rifiutata di votare contro l’articolo 50, lo ha fatto giustificandosi sulla base delle proporzioni di voto tra “remainers” e “leavers” nelle rispettive circoscrizioni elettorali, in occasione del referendum del giugno scorso. Eppure, c’è qualche eccezione: Corbyn, per esempio, il quale, a fronte di una maggioranza schiacciante (76,5 per cento) per il “remain” nella propria circoscrizione, ha dettato la linea dell’attivazione dell’articolo 50.

Nel partito laburista, circa un quinto dei deputati ha votato contro la linea della leadership. Dei 17 “frontbencher”, ben 4 erano ministri ombra: Rachael Maskell, Dawn Butler, Tulip Saddiq e Jo Stevens. Tutti e quattro hanno consegnato le dimissioni. Diane Abott, ministro ombra alla salute, non si è presentata durante le votazioni per “un’improvvisa emicrania” diventando così bersaglio delle critiche di John Mann (Labour), il quale ha definito Abott niente meno che «una codarda». Senza contare che, tra i disertori della linea di partito, c’è anche Owen Smith, ex-contendente alla leadership del partito nel 2016. In una parola: caos. Basti pensare che, tra i Tories, un solo deputato si è ribellato alla linea del partito.

Cosa accadrà nei prossimi giorni? Sebbene mercoledì il Parlamento abbia approvato l’articolo 50, settimana prossima ci sarà un’ulteriore lettura del testo – successivamente la legge dovrà passare anche per la Camera dei Lord. Nel frattempo, c’è spazio per gli emendamenti. E il Labour spingerà per modifiche significative al testo. L’obiettivo è quello di garantire che l’approvazione dell’articolo 50 non si trasformi in un via libera per il governo a trasformare il Regno Unito in una sorta di paradiso fiscale caratterizzato da tassazione e regolamentazioni sul lavoro inesistenti. Il problema è che Corbyn deve convincere i moderati del partito conservatore – una componente essenziale per far approvare le modifiche– ad appoggiare una “Brexit” meno dura di quella prevista dal Governo.

A detta di molti analisti, il tentativo appare disperato. E il dramma non finisce qui. Se il testo dell’articolo 50 dovesse rimanere lo stesso, è probabile che i numeri della ribellione interna al Labour aumenterebbero. Molti deputati laburisti hanno infatti votato a favore mercoledì, ma non hanno garantito un simile comportamento nel voto finale. Nel frattempo, Jeremy Corbyn, provvederà al terzo rimpasto di governo ombra in 18 mesi.

Intanto, giovedì 2 febbraio, il governo del Regno Unito ha pubblicato il Libro bianco sulla Brexit, un documento di 77 pagine che ha l’ambizione di rappresentare gli obiettivi e la strategia del Paese per le negoziazioni con l’Unione europea (Ue). Eppure, secondo la maggior parte degli analisti, il testo rappresenta un buco nell’acqua, visto che contiene pochi dettagli in più rispetto a quanto già affermato da Theresa May sul tema, qualche settimana fa. Ma in una situazione in cui il Labour, il principale partito di opposizione, sembra un giostra di autoscontro, i Tory hanno vita facile e si possono permettere di pubblicare qualsiasi cosa.

All’interno del Libro bianco, nel primo capitolo – “Provvedere certezza e chiarezza” – Downing Street conferma che, a fine negoziazioni, il Parlamento avrà l’ultima parola sull’accordo raggiunto con l’Unione europea. Si accettano scommesse se, a quel punto, ci sarà ancora Jeremy Corbyn a dettare la linea del Labour.

 

La polizza di Romeo inguaia Raggi e tutto il Movimento

Raggi e Romeo in consiglio comunale

La vicenda è disarmante in ogni caso. Fosse vero che Raggi non sapeva niente della polizza sarebbe dimostrata ancora una volta, dopo il caso Marra, un’allarmante incapacità di scegliere i collaboratori, avendo dato le chiavi della propria segreteria a un assicuratore seriale dotato di così scarsa cultura istituzionale da non porsi neanche il problema dell’opportunità di certi investimenti.

Se invece quello di Romeo è un gesto che nasconde una relazione affettiva (l’aveva già fatto con una precedente fidanzata), grave è averlo promosso, tripicandogli lo stipendio, senza almeno render pubblico il legame, evidentemente più profondo della sola comune militanza.

Infine: se invece Raggi sapeva, ha acconsentito, taciuto e poi promosso (ringraziato), beh, non ci sarebbe chiarimento possibile – posto che un chiarimento sia possibile – e chiedendo le dimissioni del proprio sindaco, il Movimento dovrebbe aprire una seria riflessione sulla selezione della propria classe dirigente.

Sulla classe dirigente, sì, e non solo sui candidati, sugli eletti: perché i partiti (o movimenti, come vi pare!) sono organizzazioni che richiedono esperienze professionali, dirigenti interni per il loro funzionamento e dirigenti interni o di area per affrontare le diverse sfide amministrative o istituzionali. E se di gente strana (a volte simpaticamente strana), di ignoranti, di complottisti, di mitomani o anche di furbacchioni o disonesti – vedremo cos’è Romeo – ce ne è in tutti i partiti, se i tuoi finiscono così spesso ai vertici il problema non è solo di Virginia Raggi. Il problema è anche di Roberta Lombardi, per capirci, che denuncia da mesi il “raggio magico”; il problema è anche di quelli che – son sicuro – saranno prontissimi a scaricare Raggi per salvare il Movimento, quando e se sarà impossibile fare altrimenti.
Troppo facile.

L’accordo con la Libia è inumano e non può funzionare. Ecco perché

Italian Prime Minister Paolo Gentiloni (R) and Prime Minister of Libya Fayez al-Sarraj (Fayez al-Serraj) sign an agreement on Immigration at Chigi palace in Rome, Italy, 02 February 2017. ANSA/ETTORE FERRARI

Come era già largamente annunciato dalle visite del ministro degli Interni Minniti in Libia, il governo italiano ha preceduto l’Unione europea e fatto da sé, siglando un protocollo con il governo libico internazionalmente riconosciuto (qui il testo), quello noto però per essere la parte di politica libica – se vogliamo chiamarla così – che sta perdendo terreno e territorio. L’Italia mette soldi e training, il governo Serraj si impegna a controllare i flussi e a non violare oltre misura i diritti umani delle persone che transitano per la Libia.

Il presidente del Consiglio europeo, il polacco Tusk, ha elogiato la mossa dell’Italia. Oggi, a Malta, l’Unione europea avrà da discutere molto, delle relazioni con gli Stati Uniti di Trump e di migranti e Libia, ma senza dover elaborare una proposta. Da Malta dovrebbe uscire un memorandum simile a quello già firmato fra Italia e governo Serraj: formazione del personale, soldi, monitoraggio a aiuto con i centri di detenzione, aiuti al rimpatrio e lotta al traffico. Benone? Non tanto.

Da un punto di vista tecnico, l’accordo con la Libia è il tentativo di costruire un muro, facendo fermare i migranti da qualcun altro. E senza mettere piede sul suolo libico – per non dare al generale Haftar, o ad altri, argomenti per dire che Serraj è una marionetta degli stranieri. In futuro l’ipotesi sarebbe quella di far gestire le domande d’asilo a Paesi meno caotici, magari la Tunisia. Da un lato il centro di detenzione, dall’altro la burocrazia.

L’accordo ricorda molto quelli siglati con Gheddafi, con alcune differenze: al dittatore libico si appaltava il lavoro sporco ma questi controllava davvero il territorio. I diritti umani, in quel caso, si menzionavano sapendo che si trattava solo di parole. Questa volta, in teoria, c’è un po’ più di margine: le organizzazioni internazionali dovrebbero e potrebbero monitorare e organizzare i rimpatri come in parte fa già l’Oim nel Sud del Paese. Perché questo avvenga in maniera seria e compiuta, però, serve in grande impegno e risorse europee. Non sarebbe abbastanza, sarebbe comunque un muro, ma sarebbe meglio di quanto capita adesso alle persone prese e detenute dai libici.

La questione è dunque legata alla volontà dell’Europa e dell’Italia di occuparsi dei migranti e non solo di impedire il loro arrivo. Ad oggi, ogni volta che si sono fatti tentativi di questo tipo, ad esempio con la Turchia, la parte frontiere chiuse è stata implementata, quella umanitaria molto meno.

Tutti, da Unhcr a Medici senza frontiere hanno criticato o condannato l’accordo. «L’Unione Europea e i suoi stati membri devono prendere atto della realtà. La Libia non è un paese sicuro, per questo non possiamo considerare questa proposta come un approccio umano alla migrazione» ha affermato Arjan Hehenkamp, uno dei direttori generali di Msf, tornato ieri da una missione in Libia, dove ha visitato molte persone detenute a Tripoli. E questa la dichiarazione congiunta Oim e Unhcr, più velata nella critica, essendo queste due agenzie istituzioni  internazionali: «Chiediamo che in Libia venga immediatamente abbandonata una gestione dei flussi migratori basata sulla detenzione automatica di rifugiati e migranti in condizioni disumane, e si costruiscano, invece, adeguati servizi di accoglienza. I centri di prima accoglienza devono offrire condizioni sicure e dignitose, anche per i minori e le vittime di tratta, e rispettare le garanzie di protezione fondamentali. Siamo fermamente convinti che, data la situazione attuale, non si possa considerare la Libia un Paese terzo sicuro né si possano avviare procedure extraterritoriali per l’esame delle domande di asilo in Nord Africa».

Ecco, il tema dunque è quello e solo quello: c’è un problema di scelte politiche, cosa fare e come affrontare l’ondata migratoria in maniera seria e umana. E poi c’è un problema di realismo: pur prendendo per buone le intenzioni dell’Europa e dell’Italia – e non lo sono fino in fondo – pur credendo che il lavoro così come delineato potrebbe funzionare se stessimo parlando di un Paese più o meno stabile, oggi la Libia è in mano a gruppi diversi, nessuno prevale, la frontiera Sud è un colabrodo e le strutture con le quali occorrerebbe coordinarsi sono corrotte. Non certo i partner migliori per occuparsi di persone che hanno diritti e bisogno di aiuto.

[divider]Il rebus libico[/divider]

Qual è la situazione in Libia. Ne abbiamo scritto su Left n.3 del 2017, parlando con diversi esperti. Ripubblichiamo l’articolo. Da gennaio non è cambiato praticamente nulla.

Se vi capitasse di cercare Libia su YouTube, tra i video recenti vi capiterebbe un improbabile generale Haftar a Mosca, vestito in maniera che ricorda Totò e Peppino a Milano e la visita dello stesso uomo forte libico su una nave da guerra russa. L’altro genere di video che troverete sono reportage dai centri di raccolta di migranti che attraversano il Paese, documentano le condizioni in cui vengono trattenuti e le operazioni di rimpatrio di centinaia di africani. Due vicende molto diverse, quella dei flussi di migranti verso l’Europa e del futuro del Paese del Maghreb, che si intrecciano tra loro e riguardano da vicino anche l’Italia.

Per gestire e controllare i flussi di migranti, infatti, servono istituzioni e, oggi, in Libia, di istituzioni vere non ne esistono. Al momento ci sono due Libie e mezzo, dove il mezzo è il governo di salvezza nazionale a Tripoli, poi l’Accordo nazionale che ha un controllo almeno nominale su Ovest e Sud e poi c’è il governo di Abdullah al Thani a Tobruk, dove chi comanda è, appunto, l’uomo forte del momento, il generale Haftar. In questo contesto le potenze regionali e internazionali giocano la loro partita. E qui torniamo al buffo colbacco del generale in visita a Mosca, che si sposa bene con i buffi capelli di un’altra figura del momento, il presidente Donald Trump.

«Dopo l’8 novembre è cambiato molto: l’inviato speciale statunitense era attivo e ha contribuito a costruire le risoluzioni Onu che hanno evitato situazioni simili a quelle irachena o siriana – ci dice Mattia Toaldo, Senior Policy Fellow allo European Council on Foreign Relations di Londra – Con Trump tutto cambia, se non altro perché è plausibile che privilegi la lotta all’Isis e non gli interessi la stabilità. Scegliessero questa direzione, gli americani potrebbero convergere con la Russia, l’Egitto, gli emirati» – e la Francia, aggiungiamo, che gioca due partita parallele, una in sede Onu, l’altra per difendere i propri interessi in Cirenaica. L’Egitto è entusiasta dell’elezione del repubblicano: una delegazione è a Washington con un rapporto sui “crimini” della Fratellanza musulmana, proprio per convincere TheDonald che al Sisi (e Haftar) sono i partner giusti per debellare la mala pianta del terrorismo islamico. Che poi si tratti di gruppi dalla lunga storia e radicamento come i “Fratelli” o dei tagliagole dell’Isis, poco importa: Trump in campagna elettorale si è lasciato andare a commenti di ogni tipo sui musulmani.

Haftar di ritorno da Mosca ha annunciato che la Russia gli ha promesso di rimuovere l’embargo di armi imposto dall’Onu. Armi che, spiega il generale, servono per fare la guerra ai terroristi. Il generale ha ottenuto successi contro l’Isis, anche grazie agli aerei occidentali, e usa la minaccia terroristica come schermo: per combattere il nemico di tutti non servono elezioni o democrazia ma l’esercito. E l’esercito forte, in Libia, lo comando io.

Il suo Esercito Nazionale Libico ha fatto passi in avanti a Ovest e a Sud ed è lui, grazie alla dinamica internazionale, l’uomo del momento. Eppure, i territori sotto il suo controllo non sono pacificati né governati e in diverse città c’è ancora una forte presenza dell’Isis o di altre milizie islamiche a lui ostili. Le uniche istituzioni libiche rimaste in piedi sono la Banca centrale che paga gli stipendi di tutti, compresi quelli degli assistenti di campo di Haftar, la società del petrolio che firma i contratti e la Libia investment authority, il fondo sovrano che ha anche quote in Eni e Unicredit.

In questo contesto ingarbugliato, l’apertura dell’ambasciata italiana è un segnale forte di sostegno al processo messo in campo dall’Onu in una fase in cui gli equilibri dell’ultimo anno sembrano saltare. Che fine farà la cooperazione con Washington, che sosteneva l’attivismo italiano? In un articolo su Foreign Affairs un consulente di impresa e analista sulla Libia e l’ex attaché commerciale all’ambasciata Usa suggeriscono a Trump di affrontare subito la questione libica nominando un inviato e lavorando assieme a russi ed egiziani alla pace.

«Il governo riconosciuto internazionalmente, quello di Serraj, è vittima del proprio insuccesso –  spiega Claudia Gazzini, senior analyst dell’International Crisis Group – Russia ed Egitto non vedono più il sostegno a quel governo come strategico». Serraj è notoriamente una figura debole, figlia del compromesso negoziato nella città marocchina di Shkirat dall’Onu nel 2015 e presto saltato. Una serie di dimissioni, incriminazioni e confronti ne hanno indebolito ulteriormente l’influenza. E l’occupazione di tre ministeri vuoti a Tripoli da parte degli uomini di Khalifa Ghwell, ex premier che contende a Serraj il controllo della capitale, non è stato tanto un segnale della forza di Ghwell, quanto della debolezza di Serraj. Mentre a Tripoli si sparava, quest’ultimo era in Egitto a cercare di non essere scaricato del tutto.

Il generale Haftar punta a rafforzare le proprie posizioni prima che emergano eventuali divergenze tra Mosca e Washington. «Vuole il sostegno russo, figlio di un disegno geopolitico che segue l’intervento in Siria e che punta a riaffermare la propria presenza nel Mediterraneo, magari con la presenza di una base navale» spiega ancora a Left Gazzini. Dal suo punto di vista Haftar sembra essere destinato a guadagnare ancora peso e terreno, mentre Serraj appare più delegittimato che mai: «Il generale non ha nessun interesse ad avviare un negoziato adesso», ci dice. La cacciata dell’Isis da Sirte, che fungeva da zona cuscinetto tra le milizie di Misurata e le forze di Haftar complica le cose, «nelle ultime settimane si sono intensificati gli scontri e se la situazione degenerasse, assisteremmo a una vera guerra: entrambi i fronti hanno armi pesanti», mette in guardia Toaldo. Se la Russia decidesse di violare l’embargo nel nome della lotta al terrorismo (scenario giù visto in Siria) la guerra civile non farebbe che moltiplicare i flussi di immigrati verso l’Italia – profughi di guerra con diritto d’asilo compresi.

In questo contesto la Farnesina osserva e attende i mutamenti della politica di Washington con fatalismo; dopo aver fatto una forzatura con l’ambasciata e rischia di dover scegliere se fare una conversione di 180 gradi e allinearsi a Mosca (e Washington) o se provare gli alleati a percorrere altre strade.

Ma torniamo un momento ai migranti e all’efficacia di accordi presi da un governo debole che non controlla quasi nulla, nemmeno nella città da dove partono la maggior parte dei barconi. «Al governo ci sono ben tre figure importanti che hanno affrontato l’agenda libica dopo la caduta di Gheddafi: Alfano, Minniti e lo stesso premier Gentiloni. Ma per affrontare il tema migrazioni serve molto più di un protocollo di intesa con il debole governo Serraj. I confini a Sud non sono controllati e la guardia costiera è per forza di cose in parte collusa con i trafficanti: senza un’economia e uno Stato è normale e inevitabile che sia così», sostiene Claudia Gazzini. Al contempo, «È piuttosto naturale che l’Italia abbia interesse a sostenere quella guardia costiera, che ha “salvato” 20mila persone impedendo loro di passare il mare ed arrivare in Europa (la stessa cosa capitava con i famigerati accordi con Gheddafi, che erano molto simili a quelli siglati da Minniti) », aggiunge Toaldo.

A prescindere da quel che si pensa di questi accordi e della loro tenuta occorre ricordare, come spiega a Left Judith Sunderland, responsabile responsabile per l’Europa e l’Asia centrale di Human Rights Watch, che «gli sforzi per migliorare la capacità di ricerca e soccorso in mare, e, potenzialmente, di salvare vite umane nel deserto del Sahara, sono di vitale importanza. Ma gli accordi che si fondano principalmente sul controllo dei confini libici, e chiudono un occhio di fronte agli immensi abusi che i migranti affrontano in Libia per mano di attori statali, milizie e contrabbandieri, non farà che causare altra sofferenza. Come minimo, ogni accordo, addestramento o fornitura di attrezzature dovrebbe essere oggetto di monitoraggio trasparente e indipendente, accompagnato da uno sforzo per migliorare le condizioni terribili nei centri di detenzione».

E qui torniamo all’Italia e alla sua politica estera. Toaldo è piuttosto netto sul fatto che scegliere Haftar sarebbe un segno di debolezza e un errore. «Per l’Italia sarebbe utile investire davvero nella normalizzazione e nella governance della parte che sfugge al controllo del generale. Lavorare affinché i vari gruppi nell’Ovest del Paese cooperino tra loro». Favorire la costruzione, insomma, di altri soggetti capaci di sedersi a un tavolo con Haftar, ma non dalla posizione di estrema frammentazione e debolezza nella quale si trovano oggi. L’unica cosa che sembra certa è che la Libia rischia di tornare presto al centro della scena. Potrebbe essere un terreno di scontro tra Roma e la nuova amministrazione di Washington. Proprio in Libia è già successo alla fine degli anni 50, quando l’Eni di Enrico Mattei ottenne i primi contratti. Stavolta però non si tratta tanto di petrolio quanto di influenza regionale.

Se le donne si fermano è un problema politico. Verso lo sciopero globale dell’8 marzo

«Se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo». Si fermano, le donne, ma per continuare un movimento di protesta che tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 ha toccato punte altissime. Dopo la gigantesca Women’s March il 21 gennaio scorso, giorno dell’insediamento di Trump alla Casa bianca – 2 milioni e mezzo in tutto il mondo -, dopo le proteste delle donne argentine e polacche, adesso si sta preparando lo sciopero femminista globale.

L’8 marzo le donne scenderanno di nuovo in piazza e sarà il superamento del rito ormai stantìo della festa della donna. Messe da parte le mimose – che pure sono un bel fiore – il programma di lotta, diciamo, è ampio e le rivendicazioni sono politiche. Lavoro, welfare, studio, reali pari opportunità, lotta al razzismo e alla violenza contro le donne. È stato questo il filo delle manifestazioni dell’Internazionale femminista il 25 novembre in tutto il mondo. Ventidue i Paesi interessati: dal Brasile a Israele, dalla Germania alla Russia. In Italia la manifestazione si è tenuta il 26 novembre, promossa dalla rete Io Decido, da Dire e dall’Udi. Circa 250mila persone – donne e uomini – in corteo per le vie di Roma, una mobilitazione sotterranea e capillare senza precedenti, se prendiamo in considerazione le proteste collettive degli ultimi anni. Quella del 26 novembre è stata una vera manifestazione “politica”, non ideologica, partecipata. Adesso si replica l’8 marzo.

Sabato 4 e domenica 5 febbraio la rete italiana di #nonunadimeno si incontra a Bologna per studiare e organizzare la protesta dell’8 marzo. Arriveranno circa 1400 donne provenienti da tutta Italia.«Pensiamo che uno sciopero, articolato in vari modi anche inediti – si legge nel sito  – sia lo strumento più potente che consente la sottrazione dal lavoro produttivo e riproduttivo. Uno sciopero generale, di 24 ore, dentro e fuori i luoghi di lavoro; per le precarie, le occupate, le disoccupate e le pensionate; le donne senza salario e quelle che prendono un sussidio; le donne con o senza il passaporto italiano; le lavoratrici in proprio e le studentesse; nelle case, per le strade, nelle scuole, nei mercati, nei quartieri».

La rete #nonunadimeno lancia un appello ai sindacati di base che hanno convocato uno sciopero per la scuola il 17 marzo. «Le ragioni dello sciopero, contro l’approvazione delle deleghe collegate alla legge 107, sono ampiamente condivisibili e la critica alla Buona scuola l’abbiamo fatta anche noi», dicono. Ma ai sindacati si chiede di anticipare alla giornata dell’8 marzo, la protesta del 17. L’obiettivo è lo stesso, quindi sarebbe meglio non disgiungere le due manifestazioni. Ai sindacati confederali l’invito è quello di partecipare allo sciopero dell’8 marzo.

A Bologna, il 4 e il 5 febbraio, si continuerà il lavoro dei tavoli tematici dell’assemblea nazionale del 27 novembre a Roma (migliaia le partecipanti) per la scrittura del piano nazionale femminista contro la violenza oltre che per mettere a punto l’organizzazione dello sciopero globale.
Alla fine dei due giorni di lavoro e discussione verrà redatto il documento “8 punti per l’8 marzo” che costituirà la base per le mobilitazioni territoriali.