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Marilisa D’Amico: Fuori gli antiabortisti dai consultori

Le Regioni potranno «avvalersi anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità» all’interno dei consultori. È una norma questa (l’emendamento al decreto Pnrr presentato da Fratelli d’Italia e approvato dal Senato il 23 aprile ndr) che si traduce facilmente in: i “pro-life” potranno accedere nelle strutture dove si fanno la maggior parte delle certificazioni per l’aborto. Senatrici dell’opposizione sono insorte in Aula e hanno subito denunciato il fatto che si tratti di «un attacco bello e buono alla legge e di una mano tesa agli antiabortisti».
Questa norma è passata nonostante proprio verso il provvedimento da parte del governo italiano, nei giorni immediatamente precedenti, fosse arrivata una bocciatura da parte dell’Ue. La portavoce della Commissione europea aveva sottolineato come queste misure, incluse nel decreto Pnrr, «non hanno alcun legame con il Pnrr».
Sulle conseguenze che questa legge potrebbe avere sui diritti delle donne, sulla libertà di scelta e sul futuro delle lotte per l’autodeterminazione delle persone abbiamo posto alcune domande alla costituzionalista Marilisa D’Amico, prorettrice delegata a Legalità, trasparenza e parità di diritti e ordinaria di Diritto costituzionale dell’Università degli Studi di Milano. D’Amico è anche a capo del centro di ricerca Human Hall, hub per l’innovazione e la tutela dei diritti (spoke 6 del progetto Pnrr Musa), che si occupa anche di programmi per la promozione della parità di genere.

Professoressa D’Amico lei si è battuta per i diritti delle donne durante tutta la sua attività da avvocato e anche nel suo lavoro accademico si impegna contro stereotipi e ostacoli che impediscono il raggiungimento della reale parità di genere. Come interpreta quanto sta accadendo rispetto alla 194 ? Viene messo in pericolo il principio di autodeterminazione delle donne?
È un attacco alla legge 194 e questo significa attaccare in radice la libertà di autodeterminazione delle donne. Di più, significa attaccare una legge laica in cui c’è un preciso bilanciamento tra i diritti della donna e quelli del nascituro. L’importanza del diritto di scelta conquistato con questa disciplina è dimostrata anche dalla scelta di proteggerlo con una forma di tutela rafforzata, la 194 infatti non può essere abrogata con una legge ordinaria perché ha un contenuto costituzionalmente vincolato. Dal punto di vista giuridico la Corte costituzionale si è già espressa in modo chiaro: alla luce dei principi costituzionali di cui agli artt. 2 (garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo), 3 (uguaglianza) e 32 (tutela della salute) della Carta, nessuna fonte di rango primario come una legge ma neanche quindi questo decreto, può cambiare il nucleo essenziale della legge.

Ecco perché il Jobs act è anche un attacco alla sanità pubblica

La Cgil ha proposto di abrogare il Jobs act con un referendum. Per il momento l’abrogazione proposta riguarda espressamente questioni giuslavoristiche tutte relative alla flessibilità del lavoro e alla sua precarizzazione. Se consideriamo però il Jobs act un drago grande come una “porta-aerei”, le questioni giuslavoristiche sarebbero una unghia rispetto a quelle ben più corpose e devastanti e che riguardano i rapporti tra impresa, Stato, lavoro e welfare. Il Jobs act, dai più è considerato, giustamente, una riforma neoliberista del lavoro perché al valore sovrano del reddito di impresa viene subordinato tutto, compreso le più elementari ma anche più fondamentali, conquiste dei lavoratori.
Nel Jobs act tutto quanto si oppone al reddito di impresa è considerato automaticamente un ostacolo alla crescita del Paese, quindi automaticamente sub veniente e di conseguenza un nemico. Compreso il fisco. Se il fisco non favorisce il reddito di impresa soprattutto in una crisi economica esso diventa il nemico dell’impresa. Questo è il senso liberista di fondo del Jobs act.

La più cinica delle controriforme al Ssn
Ma nello stesso tempo anche se non viene mai detto, il Jobs act è anche la più cinica controriforma della sanità pubblica e in particolar del Servizio sanitario nazionale e dell’art 32 della Costituzione perché è l’estensione della controriforma neoliberista della ministra Bindi del 1999 (art 9), quella che istituisce la sanità sostitutiva definita “seconda gamba” e che in quanto tale non esita a mettere fuori gioco con delle operazioni fiscali le tutele pubbliche e a far saltare i diritti universali delle persone e a mettere a mercato tali diritti per specularci sopra con una forte privatizzazione. Il Jobs act al Ssn contrappone in forma antagonista il “welfare aziendale”, o meglio, il ritorno contrattualizzato alle mutue del secolo scorso.
Per l’impresa tornare alle mutue aziendali nonostante esista un Ssn e attraverso le quali sostituire il Ssn e comprare prestazioni sanitarie dal privato non ha nulla di filantropico, al contrario è una operazione cinica nel senso che tale ritorno non è null’altro che un espediente fiscale che all’azienda consente di ridurre e non di poco il prelievo fiscale obbligatorio a suo carico, l’imposta sul reddito, e accrescere notevolmente i margini dei suoi profitti.
Il welfare aziendale è fatto prima di tutto nell’interesse delle aziende non come pensano in tanti nell’interesse per i lavoratori. Ma quando mai.

Autonomia differenziata e apprendisti stregoni

La lotta contro l’autonomia differenziata da parte dei Comitati per il ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti, va avanti da più di 5 anni. Come componenti dell’esecutivo dei comitati, abbiamo avuto necessità di studiare nella maniera più completa possibile una materia caratterizzata da una particolare complessità – per le sue implicazioni costituzionali, economiche e sociali – da una storia tortuosa, dal coinvolgimento diretto di tante forze politiche. Nel corso di questi anni gli incontri fortunati non sono stati pochi.
Tra questi c’è senza dubbio quello con Francesco Pallante, professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Torino, che – nel corso degli anni – grazie ad una indefessa attività volta all’analisi degli aspetti controversi o irricevibili dell’autonomia differenziata, sviluppata non solo su riviste specializzate, ma anche sul quotidiano La Stampa e su altre testate, è diventato un vero e proprio punto di riferimento per tutte e tutti noi. E ci ha aiutato a capire, a riflettere, a connettere.
Quello che colpisce senza dubbio, oltre – naturalmente – la sua competenza adamantina, sono la sua gentilezza e la sua disponibilità, che rendono l’interlocuzione con lui non solo stimolante, ma particolarmente piacevole.
Oggi Francesco Pallante è nelle librerie con un testo agile, puntuale, chiaro, consigliatissimo non solo a chi stia muovendo i primi passi nella comprensione di una “de-forma”, le cui conseguenze investiranno in maniera drammatica le nostre esistenze quotidiane, ovunque si risieda; ma anche per chi, come noi, pratica la questione da tanti anni.
Spezzare l’Italia – Le regioni come minaccia all’unità del Paese, edito da Einaudi, attraversa il tema in 6 capitoli, ciascuno caratterizzato da un proprio focus specifico, da una prospettiva privilegiata. Il primo – “L’Italia che verrà” – pone il lettore davanti al possibile scenario che verrà a determinarsi dopo che il ddl Calderoli è passato al Senato e alla Camera. Parliamo di un ddl che detta la procedura che consentirà alle Regioni a statuto ordinario di chiedere l’autonomia differenziata su un potenziale di 23 materie, enunciate nei commi 2 e 3 dell’art. 117, come previsto dal comma 3 dell’art. 116 della Carta. Entrambi gli articoli (116 e 117) sono contenuti nel Titolo V della Costituzione, riformato nel 2001, in virtù del quale quelle richieste potranno essere accolte. Non si tratta – e già sarebbe troppo – della semplice declinazione dei diritti delle cittadine e dei cittadini sulla base del certificato di residenza, con consequenziale aumento delle diseguaglianze già enormi tra territorio e territorio; o dello smantellamento dell’unità della Repubblica, “una e indivisibile”, secondo il dettato dell’art. 5, principio fondamentale relativo al modello di autonomia voluto dalle e dai costituenti: quello dell’autonomia cooperativa e solidale. Ma di una vera a propria disarticolazione della amministrazione pubblica, a causa della variabilità delle competenze, che per alcuni territori rimarranno statali, per altri diverranno regionali: una duplicazione vera e propria di risorse umane, strumentali e finanziarie. Come di una pletora di normative diverse, che colpiranno direttamente e in particolare le imprese (si pensi, ma non solo, ai contratti regionalizzati o alla normativa sulla sicurezza sul lavoro, materia disponibile alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni).

La rivolta indispensabile

«In piene facoltà, egregio presidente, le scrivo la presente che spero leggerà. La cartolina qui mi dice terra terra di andare a far la guerra quest’altro lunedì. Ma io non sono qui, egregio presidente, per ammazzar la gente più o meno come me … Quand’ero in prigionia qualcuno mi ha rubato mia moglie e il mio passato, la mia migliore età. Domani mi alzerò e chiuderò la porta sulla stagione morta e mi incamminerò. Vivrò di carità sulle strade di Spagna di Francia e di Bretagna e a tutti griderò di non partire più e di non obbedire per andare a morire per non importa chi… E dica pure ai suoi, se vengono a cercarmi, che possono spararmi, io armi non ne ho».
I lettori non più giovanissimi ricorderanno questa poesia di Boris Vian, scritta nel 1954 e pubblicata da Marcel Mouloudji, all’epoca famoso cantante franco-algerino, il 27 maggio di quello stesso anno, giorno della disfatta della Francia nella battaglia di Dien Bien Phu, che segnò la fine della guerra d’Indocina, mentre la stessa Francia stava per cominciare un’altra guerra, quella d’Algeria. Joan Baez fece diventare questa canzone l’inno contro la guerra in Vietnam, poi tanti artisti la cantarono in lingue diverse, qui da noi Ivano Fossati, Ornella Vanoni, Serge Reggiani, Luca Barbarossa. Era giovane quando morì Boris Vian, e vive ancora nel cuore dei giovani che lottano contro la guerra. Di certo qualcuno vorrebbe poter usare questo prologo per sostenere che non c’è niente di nuovo nell’aria, nella rivolta dei giovani che in tante parti del mondo occupano le università e manifestano contro la violenza dei genocidi: sì, genocidi, perché ogni guerra è a suo modo un genocidio, di volta in volta diverso, storicamente, politicamente, formalmente insomma, ma non nella sostanza.
Chi attacca e uccide popolazioni civili, bambini, donne, è mosso dal pensiero unico della superiorità etnica. E gli stupri di guerra, che non mancano mai, sono dettati dalla stessa logica: anche così, nella violenza sessuale che è sfregio e annullamento dell’identità della donna, prima ancora che strategia di sostituzione etnica, la guerra mostra il suo volto disumano.

Il dissenso nei campus non chiamatelo ’68

In elezioni dall’esito così incerto come le presidenziali del prossimo novembre, qualsiasi mossa dei candidati può fare la differenza. Ne avrà tenuto sicuramente conto il presidente Joe Biden quando ha dichiarato, durante il clou delle occupazioni contro la guerra a Gaza dilagate nei campus universitari statunitensi, che protestare è un diritto, ma che l’ordine deve prevalere, aggiungendo che le manifestazioni messe in atto dagli studenti universitari di tutto il Paese non hanno avuto alcuna influenza sulla sua posizione in merito al conflitto in corso.
Non è cambiato niente, dunque, sembra dire il presidente. Eppure, il mondo della politica è in subbuglio, circondato da paragoni tra questa ondata di proteste nei campus e quelle che ci furono nel 1968 contro la guerra in Vietnam. Le coincidenze, anche banali, tra queste elezioni e quelle di 56 anni fa, ci sono: si voterà lo stesso giorno (il 5 novembre) e la Convention del Partito democratico si terrà nella stessa città (Chicago). Dettagli che non sono sfuggiti alla stampa internazionale, oltre che americana, e men che meno a storici e analisti politici. Non bisogna dimenticarsi, però, che ogni movimento ha una sua specificità, senza con questo volerne negare l’eredità storica. Stavolta, le motivazioni che spingono i giovani a protestare anche a costo del loro futuro sono simili, ma diverse: rifiutano la guerra a Gaza, un conflitto che sta colpendo duramente un intero popolo, quello palestinese, che non è sinonimo di Hamas. Non è una delle tante guerre che ci sono nel mondo, insomma, ma rappresenta qualcosa per questi ragazzi, un po’ come quando il movimento antirazzista Black Lives Matter risorse dopo l’omicidio di George Floyd nel maggio 2020. Rifiutano così tanto il coinvolgimento, anche indiretto, in questo conflitto che tra le richieste chiave delle loro proteste c’è la sospensione dei finanziamenti elargiti alle loro università di lusso da imprese e aziende direttamente coinvolte nella guerra a Gaza, che vengono recepiti oltre le rette cospicue che provengono dagli studenti. Un rifiuto che è stato ribadito il 14 maggio durante la cerimonia delle lauree alla Columbia University di New York, quando non sono mancati atti di dissenso pacifico tra gli studenti che ricevevano i diplomi. In particolare, a colpire è il discorso di commiato tenuto da Tamara Rasamny, tra gli arrestati (e poi rilasciati) durante l’occupazione del campus, che racconta come le proteste degli studenti abbiano spesso portato a grandi cambiamenti politici e sociali, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Rasamny ha concluso citando le parole della poetessa afroamericana Maya Angelou: «Nessuno può essere libero finché non lo saremo tutti» e chiedendo il cessate il fuoco e la liberazione di ostaggi e prigionieri politici, sia israeliani che palestinesi.

Marco Tedesco: «Questi studenti hanno coraggio»

«Difendo la libertà di espressione dei giovani, non approvo il ricorso alla violenza e all’intervento della polizia con tecniche squadriste e fasciste che mirano a intimidire i manifestanti, a condizionarne pensiero e azione». È netta, lucida e appassionata la difesa degli studenti da parte del professor Marco Tedesco che vive a New York da vent’anni, docente di Climate alla Columbia University, dove da aprile sta divampando la protesta per quanto accade a Gaza per mano di Israele.
Tedesco conosce bene le ragioni degli studenti, ne discute con loro quotidianamente: «Hanno una visione politica, che è visione su ciò che accade nella società. Avere una visione politica in questo momento storico non è sbagliato – spiega a Left -. Hanno a cuore che si metta fine al genocidio a Gaza e che i loro soldi non vengano più utilizzati per fomentare questa guerra».

Marco Tedesco, docente di Climate alla Columbia University

Protagonisti di una mobilitazione globale che sta dilagando in tutto il mondo, reagiscono di fronte alla strage di civili e innocenti, ma rigettano anche ogni forma coloniale e sistema di oppressione. Non vogliono soltanto che si fermi il conflitto a Gaza, ma qualsiasi tipo di complicità politica ed economica alla prevaricazione. Il silenzio degli anni passati aveva contribuito a bollare gli stessi giovani che oggi si indignano e si ribellano come apatici e disinteressati: «La reazione di questa generazione, alla quale appartiene per esempio anche mia figlia, studentessa di Barnard College al secondo anno, mi ha sorpreso positivamente. I ragazzi accusati di non avere un pensiero e di essere distaccati dalla realtà hanno invece dimostrato di avere un grande coraggio, rischiando e mettendosi in gioco in prima persona. Il messaggio che arriva è che, nonostante viviamo in un mondo ovattato e nutriamo la paura dell’isolamento, è sorta una coscienza culturale e politica che può portare a un miglioramento. È un segnale forte che mi commuove».
Tedesco è testimone dell’impegno di questi ragazzi che si espongono anche senza arrivare ad azioni più estreme come l’occupazione. Si dimostrano interessati anche su altre questioni come l’ambiente e la crisi climatica, che è proprio il suo campo: «Lavoro con un gruppo di studenti che chiedono che la Columbia non finanzi più le compagnie petrolifere. Non c’è però molta trasparenza sui finanziamenti e su come questi vengono spesi. La richiesta da parte degli studenti è chiara, assumono una posizione diplomatica e, dal canto nostro, noi professori cerchiamo di incentivare il dialogo e il confronto con loro. I due movimenti non si sovrappongono, però si incrociano».

Il senso dei giovani per la Politica

Criminalizzati, non rappresentati, «invisibilizzati», oltre che picchiati con i manganelli e mandati al Pronto soccorso. Sono gli studenti che dopo il 7 ottobre sono scesi in strada per protestare contro il massacro di civili perpetrato dall’esercito di Tel Aviv a Gaza dopo l’attacco terroristico di Hamas in Israele. Un migliaio di manifestazioni – spontanee, diffuse, sempre molto partecipate – si sono susseguite in Italia negli ultimi mesi: lo aveva dichiarato a febbraio anche il ministro dell’Interno Piantedosi, subito dopo i fatti di Pisa dove decine di minorenni erano stati pestati dagli agenti in tenuta antisommossa, sollevando anche lo sdegno del presidente Mattarella. Un’altra carica violenta si è ripetuta il 10 maggio durante un corteo di giovani femministe che contestavano gli Stati generali della natalità a Roma. Gli accampamenti di tende (le acampade) intanto hanno popolato cortili, chiostri, giardini dei principali atenei italiani: a Milano, Roma, Bologna, Napoli, Torino e in molte altre sedi universitarie. Ma non è solo la crisi umanitaria che il governo israeliano sta determinando in Palestina a muovere la protesta che è indirizzata in particolare contro i rischi della ricerca utilizzata per scopi militari, le tecnologie dual use. Il dissenso che si respira a macchia di leopardo da tempo nelle scuole e nelle università è fatto di tanti elementi. C’è un rifiuto complessivo della politica di questo governo, evidenziato già subito dopo le elezioni del 25 settembre (v. Left 1/2023) e maturato via via a causa delle scelte del ministro dell’Istruzione e del merito Valditara. Quanto all’università, le tende erano già apparse nel corso del 2023 sia per protesta contro il caro affitti sia nell’ambito della mobilitazione internazionale End fossil, che chiede lo stop agli accordi tra atenei e aziende produttrici di combustibili fossili. Ma stavolta la protesta ha assunto degli aspetti particolari. «Intersezionale»: questo aggettivo, raccontano i rappresentanti degli studenti, spiega molto bene la mobilitazione in corso.
«C’è molta rabbia all’interno degli atenei italiani e c’è molta voglia di attivarsi da parte degli studenti perché le università non siano uno strumento per alimentare il genocidio in Palestina ma perché siano luoghi di sapere per l’emancipazione e la conoscenza e non mirino a produrre armi o comunque a produrre profitto sui corpi di altre persone», dice Arianna D’Archivio del coordinamento universitario di Link che nel mese di maggio è venuta in contatto con diverse realtà universitarie. «Noi abbiamo bisogno di essere ascoltati – continua – e ora ci riprendiamo la possibilità di essere ascoltati proprio perché abbiamo una visione sistemica di università diversa».

Donatella Della Porta: Chi accusa di antisemitismo le proteste vuole screditarle

Allarme sono antisemiti. Sui media italiani questa infamante accusa è stata più volte rivolta ai manifestanti pro Palestina, quanto c’è di vero e quanto è un tentativo di delegittimare il movimento? Lo abbiamo chiesto a Donatella Della Porta, docente di scienza politica alla Scuola Normale superiore di Pisa, nota per i suoi studi sui movimenti politici e che sta scrivendo proprio su questo tema per il volume Il panico morale e la repressione della protesta pro Palestina in uscita per Altraeconomia. «Ho parlato con molti manifestanti, ho visto filmati e ricerche e non ho riscontrato elementi di antisemitismo», afferma la studiosa.

Donatella Della Porta, docente di Scienza della politica alla Scuola Normale superiore di Pisa

«Non ho trovato proteste in cui venga attribuito la responsabilità di ciò che accade a Gaza agli ebrei. Invece sono state molto esplicite nel fare una differenza fra Israele e gli ebrei. E infatti gli ebrei, come organizzazione e in maniera individuale, sono stati molto presenti in queste proteste. Dunque, a mio avviso queste accuse sono un tentativo di delegittimare il movimento». Che l’accusa non stia in piedi lo dice anche il fatto che «tra il 20 e il 30 per cento degli studenti che sono stati colpiti dalla repressione nei campus universitari Usa sono ebrei. Sono giovani – racconta la sociologa – che dicono due volte Not in my name. Dicono no ai propri governi che forniscono armi ad Israele. E dicono no a Israele perché non vogliono essere rappresentati da quel governo di estrema destra. Il nostro essere ebrei, scrivono nei loro documenti, non può essere usato nel nome di un genocidio, nel nome di un apartheid». Gli studenti che negli Usa chiedono il cessate il fuoco in Palestina e per disinvestire in ricerche per la produzione di armi rischiano molto. La minaccia immediata per studenti e docenti è l’espulsione dall’Università, perlopiù private sulle quali i donatori esercitano una forte pressione, dice la docente della Normale. In Germania, aggiunge, «stanno addirittura proponendo leggi orientate ad espellere dall’università studenti che manifestano e che non hanno commesso alcun reato. È una repressione amministrativa che passa meno dal vaglio della corte costituzionale. Il leader della Cdu ha addirittura proposto di licenziare i docenti che criticano Israele». Come lo giustificano?

Paola Caridi: «Le manifestazioni pro Palestina sono la miccia del cambiamento»

Trentasettemila. Un numero che cresce ogni giorno e di cui non si riesce a fare l’immagine. E invece sono persone, molti di loro sono donne, e bambini, uccisi nella striscia di Gaza dalla rappresaglia israeliana, dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre 2023, durante il quale i miliziani di Hamas hanno ucciso centinaia di ragazzi israeliani che pacificamente ballavano in un rave. Una tragedia immane, ma a cosa è servita la vendetta sull’intero popolo palestinese? Hamas non è stato eradicato, anche perché i suoi capi perlopiù vivono in ricche residenze nei Paesi del Golfo. Oltre cento ostaggi israeliani restano ancora nelle mani dei terroristi. L’unico risultato che Netanyahu e la destra fondamentalista israeliana hanno prodotto è un immane disastro umanitario: il 70 per cento del tessuto urbano di Gaza è stato raso al suolo, le università e le scuole sono state bombardate, gran parte della rete ospedaliera è stata distrutta. Gaza oggi appare come the waste land, una terra desolata, resa inabitabile. Quale è la strategia del governo di Tel Aviv?

Paola Caridi

Lo abbiamo chiesto a Paola Caridi, esperta di Palestina e autrice di libri importanti come Arabi invisibili e Hamas, dalla resistenza al regime (editi da Feltrinelli), che aiuta a capire l’oggi e il contesto storico. «La ferita del 7 ottobre è stata estremamente profonda in Israele. La reazione è avvenuta senza che all’inizio vi fosse una strategia riguardo a Gaza. Nonostante ciò fin dall’inizio alle truppe israeliane fu detto che la guerra sarebbe durata a lungo», risponde Caridi. E aggiunge: «Era chiaro che l’impiego di truppe di terra avrebbe significato il confronto con una guerriglia che conosce bene il territorio. Ma in quei primi mesi anche il generale Gantz diceva che bisognava “riportare Gaza all’età della pietra”. Anche l’opposizione all’epoca non la pensava in maniera troppo diversa».
Poi in questi lunghi mesi di guerra la società israeliana si è spaccata, una parte della popolazione è scesa in piazza, le famiglie degli ostaggi hanno fatto irruzione in Parlamento, hanno fatto pressione su Netanyahu chiedendo un negoziato per il loro rilascio. Ma il capo del governo ha tirato dritto, ben sapendo che la fine della guerra vuol dire anche la fine della sua carriera politica. «La sua strategia è apparsa conclamata dopo qualche mese – ricostruisce la giornalista e studiosa del mondo arabo -. L’obiettivo è la totale distruzione di Gaza. I continui bombardamenti e i colpi mirati dei cecchini servono a questo. Non sono riusciti a espellere la popolazione palestinese spingendola verso il Sinai, allora hanno cercato di “evacuarla” ammassandola a Rafah. Ma con il valico chiuso non entrano aiuti umanitari e nessuno esce per dirigersi verso il Sinai».

Ricerca

La difficoltà è capire cosa fare in un mondo in cui ogni giorno arrivano notizie sconvolgenti, da fare accapponare la pelle. Guerre condannate da tutti, anche da tutte le parti in conflitto che, malgrado ciò, continuano senza interruzioni. Uccisioni indiscriminate di persone, uomini, donne e bambini, persone che non stanno facendo nulla di ostile verso nessuno, bombardati senza pietà, in luoghi che dovrebbero essere esclusi dalla violenza. Poi si pensa alla storia e si sa che le guerre sono state una costante della storia umana. La storia, che abbiamo imparato a scuola esistere dal momento in cui esistono fonti scritte, dice che ci sono sempre state guerre tra i popoli.
Guerra, la lotta armata e violenta per la sottomissione degli altri che non sono come noi.
La coercizione della volontà altrui perché essa, così com’è, non va bene, non è quello che noi vogliamo per loro e anche per noi. Per giustificare la guerra viene detto e anche teorizzato che gli esseri umani sono aggressivi, fin dalla nascita. E che la “non-violenza” umana, tutto ciò che c’è di buono in esso, è solo una costruzione astratta, determinata da un dio invisibile che nella storia ha preso varie forme. Sappiamo di guerre da quando esiste la scrittura. Se esistessero guerre nell’epoca primitiva è questione dibattuta. Certamente si sa che in alcune popolazioni che vivono ancora oggi isolate dal mondo moderno, gli omicidi sono rarissimi e la conflittualità tra tribù non esiste. In altre popolazioni c’è una modalità di conflitto che in qualche modo è regolata e obbedisce a rituali che di fatto limitano la violenza tra gli uomini. La famosa scena iniziale di 2001 odissea nella spazio propone l’idea che è l’arma (il bastone) che permette di realizzare la violenza e che di fatto è quella violenza che “fa” diventare uomo la scimmia. Sarebbe questa idea alla base del ragionamento che le guerre inizino con lo sviluppo delle armi, ossia con l’età del bronzo e del ferro, perché le armi primitive erano troppo poco efficaci. Anche se si potrebbe osservare che tali armi primitive servivano per la caccia ed erano assolutamente efficaci per uccidere. Chissà quando e chissà come, deve essere cambiato qualcosa nel pensiero umano ed è iniziata l’aggressione organizzata di un gruppo di uomini su un altro. Forse iniziò con l’agricoltura, quando gli esseri umani decisero di rinunciare a spostarsi per cercare un nuovo altrove, quando presero una decisione razionale di fermarsi a coltivare. Quando da cicale innamorate del sole diventarono delle formiche industriose. Allora il controllo del territorio diventò fondamentale: si realizzò un concetto primitivo di proprietà? Il campo coltivato è il mio/nostro, non è il tuo/vostro.
Certamente l’inizio dell’agricoltura è un passaggio storico fondamentale. Perché è ciò che permise la nascita di villaggi e poi di città e quindi poi di civiltà, accomunate da una lingua comune. E poi da una scrittura, l’inizio della storia. Ma è vero che la scrittura nacque con i commerci? È vero che prima venne il contare e poi lo scrivere? È vero che la scrittura nacque per una necessità “razionale”? Uno studio superficiale della storia e della letteratura può far pensare che l’essere umano sia sempre lo stesso, non sia mai cambiato. Sempre guerre, sempre per gli stessi motivi: di dominio territoriale e quindi economici, religiosi e ideologici.
Ma nella storia si può vedere anche come l’evoluzione della scienza e della tecnologia sia stata impetuosa e abbia permesso di cambiare la vita di miliardi di persone. Di fatto la soddisfazione dei bisogni e le aspettative di vita di una buona parte della popolazione mondiale attuale è a livelli mai visti nella storia dell’umanità.
La medicina ha compreso e sconfitto gran parte delle malattie mortali, prima sconosciute e incurabili. Si è compreso che la malattia, qualunque malattia, ha una noxa esogena, ossia una causa esterna all’organismo, e una volta individuata e compreso il suo funzionamento, si può cercare una cura per la guarigione.
Si può ripristinare lo stato precedente alla malattia e recuperare l’equilibrio perduto. Ma un equilibrio sociale e psichico non sembra possibile, anzi viene detto costituzionalmente e fisiologicamente impossibile.
Saremmo, nel nostro pensiero, naturalmente perversi, violenti, ineluttabilmente assassini. Non lo saremmo quotidianamente solo perché ci sono la legge, la morale, la consuetudine, la cultura, la razionalità che ci impedirebbero di uccidere.
La storia sembra indicare che questa sia la verità umana. Le guerre sono l’argomento più studiato a scuola, fin dalle elementari. Sembra che l’umanità senza guerre non sappia stare, che non sia possibile stare insieme senza sopraffazione di qualcuno su qualcun altro. Come si fa a riporre ancora speranza in una possibile convivenza pacifica se ogni giorno riceviamo “conferme” che questa è la realtà umana? Sembra quasi che questa quotidianità di notizie terribili serva ad anestetizzarci, a farci pensare che appunto è questa l’unica realtà possibile. Io penso dobbiamo fare uno sforzo e vedere al di là e considerare che difficilmente la storia è una storia di donne e di bambini.
I protagonisti della storia come la conosciamo è fatta di uomini che vengono detti tali per dire di tutti ma in realtà si parla sempre di maschi. Ci sono re e papi, ci sono condottieri, ci sono soldati, ci sono poveri e ricchi, contadini, mercanti. Ma sono sempre maschi. Mai, o raramente, si parla di donne e bambini, relegati al margine della storia dal pensiero logico e razionale di origine greca, in quanto appunto “non razionali” e sono esattamente coloro che hanno una realtà che non è mai violenta.
Le donne e i bambini non fanno la guerra e non uccidono. Le donne e i bambini sanno avere rapporto con chi è diverso da sé stessi, riescono a vedere l’uguaglianza di un essere umano che ha un colore della pelle diverso, parla un’altra lingua, veste in altro modo, adora un altro dio ma, chissà come mai, sorride in modo identico ovunque sia nato nel mondo. Il maschio, il patriarca, non vede, non capisce l’uguaglianza e vede nel diverso solo il ladro e l’assassino e risponde allo stesso modo. Furto e omicidio sono il modo come nella storia si sono sempre risolte le controversie internazionali.
Ma gli esseri umani, anche i maschi, sono stati tutti bambini. Tutti sanno che la realtà della guerra è una bugia. Che non è vero che sia necessaria. D’altro canto, è vero che essa esiste ed è necessario contrastarla. Ma questo è difficile se non impossibile se non si esce da una logica di pensiero perfettamente razionale che non dice e non capisce che non esiste alcuna differenza etnica, religiosa, culturale, territoriale e in generale di pensiero, che superi il fatto che gli esseri umani sono uguali perché il loro pensiero è espressione della biologia del corpo alla nascita, tramite una dinamica fisica e biologica che si realizza come pensiero sul mondo e sull’altro.
Pensiero che è prima di tutto un’idea di non esistenza del mondo inanimato (pulsione di annullamento) e contemporaneamente ricerca di rapporto con un altro essere umano (memoria fantasia). È la dinamica della nascita scoperta da Massimo Fagioli nel 1971 e illustrata in Istinto di morte e conoscenza.
Questa differenza di rapporto con umano e non umano, e in particolare l’assoluto non rapporto con l’inanimato, è ciò che fa del neonato umano una realtà del tutto differente e totalmente inetta se confrontata con i nuovi nati animali, che hanno invece immediato rapporto con la realtà inanimata. Ma è proprio questo annullamento della realtà inanimata (fantasia di sparizione come la chiama Fagioli) e di simultanea idea di esistenza di un rapporto con l’altro essere umano e quindi ricerca di esso, che fa del pensiero umano un assoluto diverso da tutte le altre specie. Noi rifiutiamo la realtà inanimata.
E quindi possiamo inventare vestiti per proteggerci dal freddo o ombrelli per coprirci dalla pioggia o scarpe per camminare su terreni scomodi. Possiamo evolverci grazie alla nostra fantasia riuscendo a fare ciò che tutti gli altri animali sanno fare come specialità specie-specifica. Possiamo scoprire e vedere cosa c’è di nascosto, qual è il meccanismo invisibile. Vogliamo e possiamo cercare e vedere l’invisibile. E nella storia questa ricerca scientifica e tecnica ha avuto un successo straordinario.
Ora che abbiamo compreso e sappiamo cosa è la realtà inanimata, è ora di dedicarci a scoprire l’altro aspetto del pensiero, quello che cerca il rapporto con gli altri. Scoprire perché questo pensiero di rapporto che è naturalmente presente nei bambini poi, a volte, si perde. Scoprire perché la cultura propone modelli di società che dimenticano completamente questa realtà e parlano di realtà umana naturalmente perversa e violenta, quando è evidente che la realtà umana non è quella.
Nessun bambino vuole fare del male agli altri e la assoluta maggioranza delle persone non farebbe mai del male a nessuno. E sappiamo anche che se qualcuno si realizza violento ciò dipende da dinamiche di rapporto che sono andate male che sono state deludenti. In altre parole, nessuno nasce perverso e violento. Allora non si capisce perché la società in cui viviamo, la cultura in cui siamo immersi, debba dirci costantemente che la nostra realtà più intima è questa.
Quello che dobbiamo vedere è innanzitutto proprio questo: che viviamo in un mondo che quotidianamente vuole dirci che in realtà non siamo quello che siamo… che siamo in realtà violenti e perversi e che l’unico reale rapporto che possiamo avere con gli altri sarebbe quello violento, di sopraffazione, di furto e di omicidio.
È difficile liberarsi. Perché l’orrore quotidiano cui veniamo sottoposti è una continua proposta di chiudere gli occhi, di rassegnarsi a pensare che gli esseri umani sono così per costituzione, che l’unica soluzione sarebbe una morale o una religione che ci dica cosa è buono e cosa è cattivo. Invece bisogna resistere e continuare a cercare.
Perché è questa la libertà. La possibilità e capacità di pensare al di là di ogni condizionamento e di vedere al di là per cercare di comprendere l’altro, di comprendere la realtà dell’altro, di comprendere per fare sì che l’altro realizzi sé stesso e possa fare anch’egli ricerca, che possa essere libero. Va detto che la storia non è solo il racconto di tragedie. La storia comprende infinite storie di realizzazioni che rimangono scritte e possono essere la base per la realizzazione di chi viene dopo. La storia non sono solo le guerre. Perché dopo le guerre viene la pace e ogni volta si cerca di comprendere perché c’è stata una guerra, cosa e dove si è sbagliato. Con difficoltà, a tentoni, ma qualche volta viene fuori un’idea bella. Come quella scritta nella nostra Costituzione all’art 3, laddove la libertà e la realizzazione personale sta insieme al pieno sviluppo della persona umana, ovvero la libertà di fare la propria ricerca. Allora è giunto il tempo di fare una ricerca nuova, una ricerca che non è logico-razionale ma è quella di scoprire e comprendere una realtà umana più profonda.
Buttare via come stracci vecchi le brutte favole religiose e razionali dell’essere umano cattivo che ci coprono gli occhi da duemila anni per cercare il segreto delle donne e dei bambini che disegnavano il loro amore per gli altri e la gioia di vivere nelle caverne di Lascaux. «Essere senza imitare, avere senza rubare. Se voi riusciste a carpire il segreto, allora comprendereste. Il segreto di abbandonare senza annullare, di separarsi senza prendere. Il segreto di una resistenza continua, di una ricerca continua di quel mondo nascosto, sconosciuto a tutti, che domina i rapporti tra gli esseri umani. La resistenza e il rifiuto al pensiero divino che dice sempre: non c’è. La resistenza alla strega invidiosa che dice: non è possibile. Il segreto del ventre di donna immune all’istinto di morte.» (M. Fagioli, La marionetta e il burattino, L’Asino d’oro).

Illustrazione di Valentina Stecchi