Home Blog Pagina 632

Francesca Fagioli: Quel che va detto, agli adolescenti, sulla sessualità

Quali possono essere gli ostacoli a una piena realizzazione della identità sessuale e come vanno affrontati? Riferendoci in particolare al mondo dell’adolescenza, ne parliamo con Francesca Fagioli, dirigente medico psichiatra presso il servizio di prevenzione e intervento precoce salute mentale Asl Roma1.

Dottoressa Fagioli, secondo la sua esperienza di medico che da sempre lavora con i ragazzi, come vive un adolescente di oggi la propria sessualità?
Domanda difficile, ogni adolescente la vive a modo suo. Proprio alcuni giorni fa sono stata invitata nei giorni di co-gestione di un liceo a parlare di educazione sessuale, sentimenti e affettività e, dopo una breve presentazione, il tempo è stato preso dalle domande da parte degli studenti riguardanti temi quali il primo rapporto sessuale, l’orgasmo, se la masturbazione fa male e perché, le malattie sessualmente trasmissibili e così via. Quello che colpisce è la curiosità dei ragazzi nel fare domande senza provare particolare imbarazzo. Anche quelli più ostici, con un fare apparentemente strafottente, in realtà, poi, sono rimasti a ascoltare e anche a intervenire su questi temi.
C’è differenza, sempre a livello di vissuto, tra femmine e maschi?
Sicuramente sì. Maschi e femmine: esseri umani uguali ma diversi. Direi che le ragazze tendano ad avere una sessualità più intima, a tenere le proprie sensazioni per sé. Forse tutto questo si lega a un fattore culturale difficile da combattere per cui il maschio deve apparire forte, deve mostrare-dimostrare la sua fisicità, e al contrario le femmine hanno sempre dovuto lottare contro una “depressione” di fondo legata ad una perdita, una ferita rappresentata dalle mestruazioni, dal sangue.
Quali conseguenze può comportare questa mentalità ancora prevalente nella nostra società?
Questa cultura millenaria sicuramente può essere un ostacolo alla realizzazione dell’identità sessuale, un destino al quale è difficile ribellarsi. Come se la naturale differenza biologica nel corpo tra un uomo e una donna fosse distorta fino a definire rigidi ruoli in cui la potenza maschile diventa aggressività e dominio e la recettività femminile si riduce a passività e inerzia. Questa idea è totalmente da rifiutare perché ha il veleno nascosto di una cultura che ci vuole confondere. Ci parla del corpo, uomo forte e donna fragile per, in verità, raccontarci della mente, della “validità” del pensiero razionale maschile nei confronti di quello femminile più irrazionale.
Dunque l’identità umana non è legata alla razionalità…
Se, culturalmente, passa l’idea che l’identità umana è legata alla ragione, alla razionalità e di conseguenza quindi alla veglia, alla coscienza e al linguaggio articolato, appare chiaro che tutto ciò che non è veglia, coscienza, linguaggio articolato, razionalità, viene escluso dal pensiero umano. Rischiamo così di…

L’intervista di Federico Tulli a Francesca Fagioli prosegue su Left in edicola da venerdì 8 marzo 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Mauro Palma: La detenzione non è roba per ricchi

L’Autorità garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale esiste per prevenire i fenomeni di tortura e altre pene o trattamenti crudeli inumani o degradanti nei luoghi di privazione della libertà (carcere, luoghi di polizia, centri per gli immigrati, Rems recentemente istituite dopo la chiusura degli Opg). È un organismo forse poco noto alle cronache (ma non ai lettori di Left) tuttavia fondamentale per monitorare quegli spazi al confine della nostra società, dove gli ultimi e i più deboli spesso escono fuori dal cono di luce delle garanzie. A presiedere l’Autorità c’è dal 2016 Mauro Palma. Lo abbiamo incontrato per fare il punto di quasi tre anni di attività.

MAURO PALMA Garante dei diritti dei detenuti

A proposito del caso Diciotti, il ministro Salvini ha dichiarato: «Se arrivasse un altro barcone rifarei ciò che ho fatto». E alcuni esponenti dei 5Stelle hanno aggiunto che il sequestro dei migranti sulla nave della Guardia costiera è stato deciso in nome dell’interesse pubblico. Qual è il suo parere in merito?
Se cominciamo a stabilire che in nome dell’interesse pubblico si possono violare le norme nazionali entriamo in un terreno estremamente scivoloso. L’ordinamento prevede una serie di norme, in parte di rango costituzionale. Il problema, in generale, è stabilire da parte dell’autorità giudiziaria se queste norme siano state violate oppure no. Qualora fosse stabilito che sono state violate in nome dell’interesse pubblico poco conta, in quanto non si possono violare i principi costituzionali per salvaguardare l’interesse pubblico.
Sempre sul tema immigrazione, qual è la situazione nei Centri permanenti di rimpatrio (Cpr)?
Siamo al fallimento di ciò che il decreto Minniti prevedeva, ossia che sarebbero dovuti essere piccoli, uno per regione, e non assomigliare ad un carcere. Per ora vedo raffazzonati adattamenti dagli antichi Cie (Centri di identificazione ed espulsione). Quando il tempo di permanenza nei Cpr arriva a sei mesi il problema diventa grande. Se è tollerabile, ad esempio, la mancanza di socializzazione per circa quattro settimane al loro interno, non lo è più quando arriva a sei mesi. Per ora quello che abbiamo appurato dalle nostre visite è che i Cpr sono…

L’intervista di valentina Stella a Mauro palma prosegue su Left in edicola da venerdì 8 marzo 2019


SOMMARIO ACQUISTA

W la scuola!

Come è stato più volte detto e scritto in questi giorni, la grande partecipazione popolare alle primarie del Pd e il successo plebiscitario di Nicola Zingaretti segnano una svolta nella politica italiana. Non è come sostenuto da alcuni e non solo a destra, il ritorno dei “comunisti”. O meglio la classe dirigente che prenderà la guida del partito in effetti è la stessa che c’era prima di Renzi, a matrice Pci. Quindi in questo senso è senz’altro corretto affermare che c’è un ritorno al passato. La novità è in verità un’altra. La cosa interessante, quella da guardare e capire, è il movimento degli elettori e quello che significa. Certamente c’è una ribellione fortissima al governo e alle sue politiche violente ed economicamente suicide. Il lettore di questo giornale sa bene, perché ce ne siamo occupati molto, di cosa sto parlando. Così come è stata una ribellione al governo la manifestazione di Milano, che più che antirazzista definirei pro-umanità. Ma l’altro aspetto fondamentale della grande partecipazione alle primarie è l’ennesimo messaggio all’ex segretario del Pd Matteo Renzi che non aveva ancora capito di dover togliersi di torno. Un messaggio indirizzato non soltanto a lui ma soprattutto a quanti nel Pd ancora pensavano (o magari ancora pensano) che il senatore di Rignano sia l’unica vera soluzione per il Pd e questo Paese. Non è così e i tantissimi votanti, molti dei quali non partecipavano da tempo alle primarie, dicono esattamente questo: basta con quel modo di fare politica.
Ricordo che anni fa il direttore di un importante giornale mi disse “Renzi vince perché è un vincente ed è questo che la gente vuole”. Che la gente voglia politici che vincano è senz’altro vero. Ma d’altra parte se il vincere non corrisponde poi ad una politica che sia in grado di fare una attività politica e di governo veramente trasformativa della società allora a cosa serve vincere? Renzi è stato un abilissimo politico ma ha peccato di presunzione. I 10 miliardi usati per erogare gli 80 euro gli hanno garantito un risultato elettorale mai raggiunto nella storia da un partito di sinistra (oltre il 40%). Ma era un risultato evidentemente drogato. È stata un’ubriacatura per lui da cui (forse?) adesso inizia a riprendersi. Gli 80 euro, così come il reddito di cittadinanza, sono regalie. Sono assistenza che non cambia nulla. Non impattano in maniera sostanziale nell’economia e tantomeno nella qualità della vita delle persone. Certamente ci saranno situazioni di necessità in cui un sussidio dello Stato è utile, se non necessario, per la sopravvivenza. Ma non cambia nulla perché si tratta di assistenza che non ha un progetto di trasformazione, sociale o personale, ad esso collegato. Un esempio può chiarire cosa intendo: se voglio aiutare un malato, diciamo un malato con un’insufficienza cardiaca che gli impedisca di muoversi, posso procurare un’assistenza al malato dandogli una sedia a rotelle. Risolverò il problema contingente della mobilità ma non risolverò, evidentemente, la causa dell’invalidità che è la malattia cardiaca. Se invece su quel malato intervengo non con l’assistenza ma con una cura che risolva l’insufficienza cardiaca risolverò per sempre il problema dando alla persona nuove possibilità che prima non erano nemmeno pensabili. Risolvendo un problema materiale (la malattia) si aprono quindi anche possibilità di realizzazione e soddisfazione non materiale. Serve in altre parole una politica che abbia a cuore non solo il benessere materiale dei cittadini, l’assistenza che ci deve senz’altro essere quando necessaria, ma anche la loro possibilità di cambiare, di rinnovarsi, di trasformarsi e migliorare.
Allora vorrei dare un’idea al neosegretario Zingaretti ma anche a tutti gli altri partiti e partitini di sinistra più o meno radicale. Costruite una proposta politica che sia centrata su un solo argomento. Uno soltanto che sia semplice, di immediata comprensione e interesse per chiunque. Un messaggio che interessi non soltanto a chi vota sempre a sinistra ma soprattutto a quelli che sono incerti, a quelli che se ne sono andati a votare il M5s o magari la Lega, a quelli che non votano perché delusi dalle tante fregature ricevute per le troppe speranze sempre deluse. Un solo tema che possa essere più forte dell’unico tema di Salvini che è “prima gli italiani” e dell’unico tema del M5s che è “reddito di cittadinanza”. E l’unico solo grande tema su cui puntare è la scuola. Perché solo investendo in maniera massiccia nella scuola e più in generale nella formazione e nella ricerca l’Italia potrà uscire da quel ruolo di marginalità a cui la sua scarsa classe dirigente l’ha condannata. Abbiamo un problema di analfabetismo funzionale a tutti i livelli. È necessario allora un progetto strategico di investimento nella scuola, nell’università, nella formazione e nella ricerca che permetta tra 20 anni di avere una nuova generazione di persone che possano veramente cambiare questo Paese. Il tema della sinistra, l’unico tema da portare avanti senza tregua, insistentemente per i prossimi quattro anni fino alle elezioni politiche deve essere solo questo: la scuola. Un solo argomento che tutti capiscano e che renda finalmente differente la sinistra dalla destra e dal centro. Il problema di Renzi è stato questo, di non essere veramente differente. Perché infatti votare Renzi che propone la stessa politica che porta avanti Berlusconi se posso votare l’originale? Perché votare il Pd che propone una politica di immigrazione con Minniti che è sostanzialmente la stessa sostenuta da Salvini se posso votare l’originale?
La sfida politica, in altre parole, non deve MAI essere inseguire l’avversario nel suo campo. Se Zingaretti insegue il M5S sul reddito di cittadinanza, perderà. Se Zingaretti insegue Salvini sul tema sicurezza, perderà. Se insegue Calenda e Berlusconi sul tema meno tasse, perderà.
Non che non siano temi che interessano i cittadini, ma non è inseguendo gli “originali” con proposte fotocopia che si ottiene o si recupera consenso. La scuola è stata dimenticata da decenni. L’ossessione del risparmio economico di breve termine ha portato a ridurre gli investimenti nell’unica area dove non andavano ridotti (ma, semmai, aumentati) e a riformare in senso peggiorativo la scuola. E purtroppo va detto che a fare la prima mossa nella continua distruzione della scuola è stata la sinistra con la riforma Berlinguer. Seguito poi da tante altre riforme per finire con Renzi e la sua “Buona Scuola”. È nella scuola il futuro dei nostri bambini ed è nella scuola il futuro di questo Paese. È con la scuola che può crearsi una nuova sinistra. W la scuola!

L’editoriale di Matteo Fago è tratto da Left in edicola da venerdì 8 marzo 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Processo Cucchi, spunta dopo nove anni una relazione sull’autopsia che i carabinieri hanno tenuto segreta

Sapevano tutto e per nove anni hanno nascosto i documenti. Anzi no, facciamola più “british”, come si dice nelle redazioni, e proviamo a porla in forma interrogativa: è possibile che sapessero tutto quello che accadde in occasione dell’arresto di Cucchi tanto l’Arma quanto i pm del primo processo? Già, perché esiste una relazione preliminare sui primi risultati dell’autopsia tenuta segreta e depositata nel 2009 in Procura. E’ l’ennesimo colpo di scena annunciato oggi dal pm Giovanni Musarò nel corso dell’udienza al processo-bis sulla morte di Stefano Cucchi in cui i fari restano puntati in particolare sul filone dei depistaggi. Una prima analisi mai emersa finora i cui risultati erano completamente diversi da quelli scritti nell’autopsia che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari infatti, che vennero negati anche all’avvocato della famiglia Cucchi, si parlava di due fratture e non precedenti all’arresto, oltre a un’insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. «Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?», ha sottolineato Musarò in aula.

L’«assordante silenzio» degli ufficiali indagati
«Anche se erano evidenti già dai primi giorni», come commenta Ilaria Cucchi con Left in un momento di pausa, le zone d’ombra del calvario di Stefano Cucchi, arrestato per spaccio il 16 ottobre del 2009 e morto sei giorni dopo in un letto d’ospedale nel reparto penitenziario del Pertini, stanno emergendo con forza nel processo bis contro cinque carabinieri – tre dei quali imputati di omicidio preterintenzionale – da cui è derivato un secondo filone d’inchiesta che risale i vertici della Benemerita romana seguendo il filo nero dei depistaggi. Tre gli ufficiali indagati che oggi hanno scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere in questo processo perché “indagati in procedimento collegato”. Si tratta del generale Alessandro Casarsa, il tenente colonnello Luciano Soligo e il capitano Tiziano Testarmata. Alla luce di «questo silenzio assordante», della mancata prova “dichiarativa”, ha annunciato il pm, alla prossima udienza (il 27 marzo) lui stesso presenterà una memoria esplicativa per chiedere che siano messe agli atti le carte, le prove documentali, prodotte durante i rispettivi interrogatori. L’8 aprile, infine, una nuova udienza decisiva con la deposizione di Francesco Tedesco, uno dei tre imputati di omicidio, quello che con la sua presa di distanza su quanto avvenne quella notte ha consentito una delle più vistose brecce nel muro di gomma che ha coperto questa storia per nove anni.

Che cosa dice la relazione “segreta”
Il pm Giovanni Musarò, nell’inchiesta sui depistaggi del caso Cucchi, cerca proprio di fare luce anche su questa relazione datata 30 ottobre 2009 «sui primi risultati dell’autopsia, tenuta segreta ma di cui il Comando provinciale e il Gruppo Roma sapevano». La relazione preliminare lasciava incerto un qualsiasi nesso tra le lesioni sul corpo di Cucchi e il decesso ma negli atti i carabinieri escludono ogni possibile collegamento, sulla scia di una presunzione d’innocenza scandita dal governo di allora a reti unificate. In quel documento preliminare infatti si sottolineava che «la lesività delle ferite allo stato non consentiva di accertare con esattezza le cause della morte». Un referto che sembra sbattere contro i verbali dei carabinieri, redatti poche ore dopo e riscritti sotto dettatura proprio per minimizzare le condizioni di salute del giovane arrestato.

Nel dettaglio, nella relazione “segreta” vengono analizzate anche delle fratture di alcune vertebre in area sacrale, riscontrate su Stefano Cucchi, giudicate compatibili anche con cadute pregresse e si sottolinea che le ecchimosi in testa e le fratture potrebbero essere state provocate da una caduta dalle scale («plausibile caduta che, da parte nostra, riteniamo possa avere implicato, verosimilmente ed in particolare, urto sulla regione gluteo-sacrale avuto riguardo della lesività ecchimotica) che potrebbe essere stata di «natura accidentale o di caduta eteroindotta». Su questo punto la relazione del 30 ottobre conclude che «la lesività traumatica contusiva – nella specie occorsa – allo stato attuale non appare assumere valenza causale nel determinismo letifero (ovvero nella morte, ndr) del soggetto, non emergendo attualmente elementi obiettivi deponenti in tal ultimo senso».

Nel suo intervento di fronte alla Corte d’Assise di Roma, il pm Giovanni Musarò ha sottolineato che «nei verbali a firma dell’allora comandante del Gruppo Roma Casarsa e dell’allora comandante provinciale Tomasone la relazione non viene menzionata». E già in quei giorni i carabinieri, «pur sapendo di quella relazione preliminare segreta nel verbale escludevano un nesso di causalità delle ferite con la morte». Un documento che gli stessi legali della famiglia Cucchi – secondo quanto riferiscono – è stato tenuto a loro «nascosto fino al deposito della relazione completa nel 2010». Tutto ciò nonostante avessero «presentato istanza al pm Vincenzo Barba», titolare della prima indagine sulla morte di Stefano. La serie di incongruenze ha spinto lo stesso Musarò a porsi una domanda a cui finora non è stata ancora data risposta: «Se nel 2009 non si conoscevano le cause della morte – ha detto il pm in aula – com’è possibile che i carabinieri nei loro documenti già lo sapessero?». Ovvero: se la relazione introduceva elementi di incertezza perché i carabinieri esclusero nettamente il nesso lesioni-morte?

Stefano non morì di malnutrizione
In una deposizione di due giorni fa è lo stesso autore di quel documento, il medico Dino Mario Tancredi, a dimostrare le sue perplessità: «Non so dirvi per quale ragione la predetta relazione preliminare non fu messa a disposizione delle altre parti», ha detto ascoltato in Procura. Il medico legale ha anche spiegato che la relazione «contiene un parere preliminare che è del tutto orientativo, perché è poi necessario compiere gli approfondimenti e le valutazioni del caso. Per questo il pubblico ministero ci concesse 60 giorni» e il perito fu affiancato poi da un gruppo di specialisti. Alcuni mesi dopo arrivò la relazione definitiva del 2010, che Musarò non esita a definire «ormai come farlocca» perché inquinata da presupposti investigativi viziati, per questo ha chiesto ai giudici di ritirare dalla lista testi i medici legali, i periti e i consulenti del pm nel primo processo sulla morte di Stefano (quello che vide imputati i medici del Pertini, ndr). «Le loro testimonianza – spiega il pm – introdurrebbero un vizio nel processo attuale». E sul fronte del processo d’appello ai medici del Pertini, arriva oggi la seconda perizia affidata dalla Corte d’Assise d’Appello che porta alla conclusione che Stefano morì per una morte cardiaca su base aritmica e non per malnutrizione, come sancì la perizia precedente. Ma non si esclude l’ipotesi che una cura adeguata avrebbe potuto salvarlo.

«Bisognava rassicurare gli animi»
Tornando all’udienza va segnalato il botta e risposta in aula fra Musarò e il maggiore Paolo Unali, comandante della Compagnia Casilina all’epoca dei fatti, nel 2009. Il pm chiede perché il geometra non venne fotosegnalato e l’esponente dell’Arma replica sostenendo che gli fu detto che il detenuto era stato già foto segnalato in un precedente arresto. «Ma il foto segnalamento non è obbligatorio dopo qualsiasi arresto?» chiede Musarò. «No, non credo, secondo me no», risponde Unali. «Comunque i colleghi mi dissero che non riuscirono a fare il foto segnalamento perché il detenuto era poco collaborativo, al punto che non voleva entrare in cella», ha proseguito il maggiore. «E allora perché non lo avete denunciato per resistenza a pubblico ufficiale?», ha chiesto il pm. «Ma quella di Cucchi era una resistenza passiva, mi dissero, non fisica», ha risposto Unali, che ha anche detto di «essere all’oscuro» che due degli imputati (D’Alessandro e Di Bernardo) avessero partecipato all’arresto oltre che alla perquisizione, l’avrebbe saputo solo 25 giorni fa; non sa dire perché, se il foto segnalamento non fu effettuato sul verbale c’è scritto che Cucchi fu identificato mediante foto segnalamento e accertamenti dattiloscopici. «Sa, dopo nove anni…». Però ricorda la tensione i giorni dopo la morte del giovane, quando ormai era esploso il caso a livello mediatico.

«Alla stazione Appia c’era tensione, la notizia aveva fatto clamore e si aspettava a breve la lista degli indagati». Dice anche che «bisognava rasserenare gli animi di uomini che fanno servizio armati», «che possono diventare pericolosi se non rasserenati». In realtà, secondo il Pm che allega agli atti un articolo de Il Messaggero di quei giorni. Il ritaglio venne spedito dal comando generale dell’Arma perché si ipotizzava che «ovviamente era successo qualcosa in caserma» visto che Stefano, durante la perquisizione domiciliare era in buone condizioni e la mattina dopo in tribunale era vistosamente malconcio. «Di questo stavate parlando – ha incalzato Musarò – perché i fari erano puntati su di voi!». Il maggiore ha ricordato anche la riunione convocata otto giorni dopo la morte di Cucchi, il 30 ottobre 2009, e che Massimiliano Colombo, comandante della stazione di Tor Sapienza, parlando con il fratello definì una riunione «tipo gli alcolisti anonimi». «L’allora comandante provinciale, il generale Vittorio Tomasone, ci disse che dovevamo stare tranquilli e sereni, di non agitarci e che noi non eravamo coinvolti perché Stefano Cucchi era morto giorni dopo in ospedale, quando non era in nostra custodia. Ognuno prese a turno la parola per raccontare quello che era successo durante le fasi in cui avevano avuto Cucchi in custodia e in quell’occasione, ricordo – ha concluso Unali – non si è parlato del mancato foto segnalamento».

L’arte contro il femminicidio: ottantasette donne per “Portrait of woman”

Ci sono ottantasette donne dentro una bocca rossa circondata da vetrate piene di luce. Vestite di nero, tutte uguali ma tutte diverse e davanti al volto reggono una maschera che raffigura una bambina. Al suono armonioso di un gong si voltano all’unisono verso la donna alla loro sinistra e chi con sguardo dolce, chi con un sorriso, chi con timidezza, le consegnano la loro stessa maschera di bambina mentre, con l’altra mano, accolgono i sogni e la speranze della bambina alla loro destra e se la portano al volto, come a dire “io sono te, non ti lascerò da sola in questo mondo”.

Parliamo di Portrait of woman, l’installazione umana che Monica Pirone porta al Macro di Roma venerdì 8 marzo alle 16, nella Giornata internazionale della donna. Un progetto che inizia nel 2014 come una riflessione sul rapporto tra le diverse generazioni di donne e che, nel 2018, diventa una mostra dal titolo Home sweet home che mette in evidenza le sofferenze e le insidie che si nascondono in quello che dovrebbe essere il luogo di massima protezione: l’ambiente domestico.

Portrait of woman (Ritratto di donna) sarà la più grande installazione vivente mai portata al Museo di arte contemporanea di Roma. Un progetto interpretato da ottantasette donne comuni, artiste, insegnanti, attiviste, avvocate, mamme, operatrici sociali, impiegate, giornaliste, imprenditrici. Ottantasette come le donne morte in Italia, nel 2018, di quello che viene definito “femminicidio puro”, puro perché avvenuto all’interno dell’ambiente familiare, compiuto da mariti, fratelli, padri, amanti, compagni, fidanzati.

«Monica, non vuole il volto delle donne uccise, non intende mettere in scena quella parte del loro corpo dentro cui ogni senso e pensiero si sono concentrati e un giorno negati, vuole altri volti, altri corpi che si assumano la responsabilità e la potenzialità di diventare senso comune; mettendo il proprio volto di bambina in gioco, in un gioco serissimo e suggestivo, ciascuna donna, proprio perché compie il gesto di fiducia assoluta di passare il suo sé innocente ad un’altra, trasforma il compatimento da sentimento ristretto, domestico, di vicinanza quasi familiare a elemento di riflessione collettiva, di collettivo orrore che è sentimento, ma anche rappresentazione di senso politico e sociale», ci spiega Michela Becchis, curatrice della performance.

«Questo – prosegue – è il significato che Pirone dona al gesto della performance che, nella sua totale assenza di parola, mostra il potere travolgente dell’esserci con il proprio corpo, con il contenitore deflagrante del proprio vissuto. Nel volgere di questa azione collettiva Pirone ricuce insieme, sfidando il tempo, tutto il trascorso che ha trasformato la parola “persona” da maschera vuota, ripetizione immediatamente riconoscibile, la creatura carica di storia, soggettività, memoria, emozioni, relazionalità».

Ottantasette donne più una, Elina Chauvet, l’artista messicana che per prima ha raccontato, con la sua invasione emotiva di scarpe rosse, il fenomeno del femminicidio e con questa performance aprirà una serie di eventi a lei dedicati dal Macro.

“Rimandare” come ideale politico

Diceva Luigi Di Maio, con la sua solita postura di chi deve addirittura abbassarsi alle domande dei giornalisti: “stasera si decide”, ci diceva che sicuramente Conte avrebbe trovato la soluzione.

“O sì o no, non esiste altra soluzione, non esiste il forse” ci diceva Salvini, che a sintetizzare per confezionare titoli buoni come slogan ormai è un consumato maestro. Si sono riuniti, un tempesta neuronale, e alla fine hanno deciso forse. Hanno deciso che bisogna prima parlarne con la Francia (e chissà la Francia come sarà accogliente e disponibile a parlare con noi, dopo che Di Maio e Di Battista hanno portato la solidarietà a chi sgozzerebbe volentieri un ministro). Anzi, hanno deciso che c’era qualcosa che non andava, come al solito. Guardate. Sembra una barzelletta anche se non fa ridere nessuno. Non riescono a decidere su nulla perché sono un governo che si basa sul nulla che non sia semplicemente l’occupazione dei posti di potere. Si sono riuniti per cinque ore. Cinque ore. Si riesce quasi a finire una partita a Risiko in cinque ore e invece niente. Sul Tav, scrivono,  “sono emerse criticità” che impongono “un’interlocuzione con gli altri soggetti partecipi del progetto”. Per fare cosa? “Verificare la perdurante convenienza dell’opera alla luce delle più recenti stime dei volumi di traffico su rotaia“.  E quindi sondare “la possibilità di una diversa ripartizione degli oneri economici, originariamente concepita anche in base a specifici volumi di investimenti da effettuare nelle tratte esclusivamente nazionali”.

Rimandare è l’unico ideale politico quando due persone si guardano in faccia e non sono d’accordo ma nessuno dei due ha il coraggio di rompere la relazione. In tutto questo TAV non c’entra, è solo la pietra angolare di un muro storto dalle fondamenta.

Leggete la nota della Presidenza del Consiglio:

Ieri sera si è svolta una riunione sulla Tav coordinata dal Presidente del Consiglio Conte, alla presenza dei Vicepresidenti Di Maio e Salvini, del ministro Toninelli, dei sottosegretari Rixi e Siri, del capogruppo Patuanelli e del senatore Coltorti.

La prima parte della riunione è stata dedicata ad approfondire l’analisi costi-benefici acquisita dal Mit, analisi che è stata illustrata dai componenti della Commissione Ramella e Beria. Sono intervenuti in questa fase vari altri esperti che hanno affiancato i membri del Governo e hanno contribuito a sviscerare i contenuti dell’elaborato tecnico in tutti i suoi aspetti.

La riunione è poi proseguita alla presenza della sola componente “politica”, che ha approfondito tutte le più ampie implicazioni – di ordine politico, sociale ed economico – del progetto infrastrutturale. La riunione è proseguita sino a notte inoltrata. All’esito del confronto si è convenuto che l’analisi costi-benefici sin qui acquisita pone all’attenzione del Governo il tema del criterio di ripartizione dei finanziamenti del progetto tra Italia, Francia e Unione Europea. A distanza di vari anni dalle analisi effettuate in precedenza e, in particolare, alla luce delle più recenti stime dei volumi di traffico su rotaia e del cambio modale che ne può derivare, sono emerse criticità che impongono una interlocuzione con gli altri soggetti partecipi del progetto, al fine di verificare la perdurante convenienza dell’opera e, se del caso, la possibilità di una diversa ripartizione degli oneri economici,  originariamente concepita anche in base a specifici volumi di investimenti da effettuare nelle tratte esclusivamente nazionali. Saranno  necessari ulteriori incontri non essendoci un accordo finale.

E la cosa più divertente sono i giornalisti che ancora li prendono sul serio. Buona fortuna. Buon lavoro.

 

Buon venerdì.

La sfida di Antonella Bundu, candidata della sinistra a Firenze

Antonella Bundu ha la forza travolgente di una passione politica, di chi ha sempre lavorato nella militanza di sinistra, dal Social forum alle Ong, lottando per un’Italia multiculturale inclusiva, per i diritti delle donne e dei migranti, pur non essendo iscritta a nessun partito, pur non avendo mai ricoperto ruoli di primo piano in politica, lavorando dal basso. «Un cane sciolto», dice di se stessa. Una tenace indipendente di sinistra, diremmo noi, che nonostante la forte crisi di rappresentanza che viviamo, continua a pensare che valori fondamentali di sinistra, come l’antirazzismo, i diritti sociali e civili, siano un potente collante, una motivazione forte per cercare di andare oltre le frammentazioni. A Firenze sta accadendo davvero. Intorno al nome di Antonella Bundu si è coagulato un fronte ampio che vede insieme Sinistra italiana, Rifondazione comunista, la lista civica Firenze città aperta,  Diem25, Mdp articolo 1, Possibile e  forse anche Potere al popolo, che sta decidendo mentre scriviamo. ( Pap ha deciso poi di sostenerla). E già questa a noi pare una riuscita non di poco conto. Ma interessante è anche la storia della neo candidata sindaco che a Firenze si appresta a sfidare il renziano Nardella, leghisti, grillini e il candidato della lista civica proposta dall’ex “sceriffo” del centrosinistra Graziano Cioni che sposa le parole chiave delle destre.

Nata a Firenze da un padre originario della Sierra Leone venuto a studiare nella città toscana e da madre fiorentina, quando era ancora bambina Antonella è andata a vivere a Freetown dove suo papà lavorava come architetto e la mamma insegnava matematica. Poi da ragazza si è trasferita nella Liverpool degli anni caldi delle rivolte. «Vivevo in quartiere povero, era una specie di ghetto. Erano gli anni 80 quando esplodeva la protesta ed era impossibile non prendere posizione», racconta. «In città c’era una forte tensione, la sera la polizia dava la caccia ai neri».

Lavorare là come bibliotecaria e impegnarsi nel recupero della black history è stato il primo passo del suo impegno culturale e politico?
Era una biblioteca piccolissima. A dire il vero non veniva mai nessuno a prendere libri in prestito.
Io sistemavo i libri di autori di colore, afroamericani e inglesi. E nel frattempo, nell’ambito di un Black history workshop raccoglievamo voci sul campo, andando a intervistare immigrati ormai anziani, arrivati dai Caraibi e dall’Africa, perché non si perdesse la loro voce. Ho fatto incontri molto emozionanti.

«Non basta dire cose di sinistra, bisogna anche fare cose di sinistra», lei ha detto commentando le politiche di Nardella fatte di sgomberi e di rigida applicazione del daspo urbano. Un modello lontano dalla sua visione di una città aperta e inclusiva?
Le rispondo con degli esempi concreti. Pochi giorni fa è stato l’anniversario dell’omicidio di Idy Diene (per il quale è stato condannato a 16 anni il 65enne Roberto Pirrone, ndr). Quando arrivò quella terribile notizia scendemmo in piazza, andammo sotto Palazzo Vecchio. Quella sera furono rovesciate 5 o 6 fioriere, senza altri danni. In un comunicato il sindaco Nardella si diceva sconvolto, affermava di stare dalla parte della comunità senegalese, però ammoniva chi si era infuriato per l’accaduto, mettendo quasi sullo stesso piano l’uccisione di una persona e il rovesciamento di alcune fioriere. Trovo tutto questo agghiacciante. Certamente lei saprà anche del suo post “Arrestate i falsi mimi”. Se l’è presa con persone rom che si tingono la faccia di bianco per farsi fare la foto e chiedere dei soldi, un po’ come fanno i mimi. Ci è andato giù pesante perché erano rom. Poi è passato all’azione con gli sgomberi. Certo le persone non possono vivere dove non c’è acqua e non c’è luce, ma gli devi dare una alternativa, devi fare una proposta. È inaccettabile che un sindaco che si dice di centrosinistra faccia il “piccolo Salvini” facendosi fotografare accanto alle ruspe per annunciare trionfalmente “stiamo sgomberando il campo rom”. Non c’è nulla di cui vantarsi nel buttare le persone per la strada. Se Nardella pensa che questo sia un modo per prendere voti dall’altra parte, anche su questo si sbaglia, gli elettori di destra voteranno comunque l’originale.

Ci è stato raccontato che sarebbe in atto un’invasione di immigrati. Cosa non vera. Come fare per smontare questa narrazione che ha intossicato anche il centrosinistra?
Già il ministro dell’Interno Minniti (Pd) ha avviato questa falsa narrazione. Falsa perché se uno va a vedere i dati dicono tutto il contrario. C’è bisogno di più informazione, di lotta alle fake news. C’è chi dice che la sinistra tenda a evitare certi argomenti mentre la sicurezza starebbe a cuore a tutti. Bene, se si vanno a vedere i documenti si vede che l’unico reato in aumento è proprio quello che riguarda la violenza di genere, la vera emergenza sono le varie forme di violenza sulla donna e i femminicidi. Il cosiddetto decreto sicurezza voluto dal ministro leghista Salvini e varato da questo governo dovrebbe garantire sicurezza alle persone, innanzitutto. Ma così non è. Se io scappo da fame, da guerre o comunque se voglio migliorare la mia condizione economica devo avere la possibilità di farlo, è un diritto umano. Neanche la deriva dei continenti è riuscita a fermare le migrazioni, ci sono sempre state e ci saranno sempre, non saranno certo fermate con queste politiche; visto che le persone si muoveranno comunque, non dare loro la possibilità di arrivare in sicurezza è criminale. È inaccettabile che il ministro dell’Interno dica “io accetto solo quelli che arrivano legalmente”. Innanzitutto le persone che si spostano non sono dei criminali! Vengono considerati clandestini da chi alza i muri, gli stessi che negano ai migranti la possibilità di entrare nella legalità. Dobbiamo sviluppare politiche per integrare le persone, se tu le lasci per la strada, se le spingi fuori della legalità, come fa questo provvedimento diventato legge, li dai in pasto alla criminalità organizzata.

Firenze è una città di grande cultura ma esiste anche un razzismo strisciante e quotidiano. Come combatterlo?
Eccome se esiste, potrei raccontare mille episodi. L’altro giorno mi hanno suonato dei venditori porta a porta, erano tre ragazzi. Mi vedono e mi chiedono: “La signora dov’è?”. Dopo un momento di trasecolamento ho risposto: “La signora non c’è”. E loro: “Grazie, buonasera”. E sono andati via. Altro esempio. Faccio nordic walking, in campagna, mi si avvicina un ciclista e per attaccare discorso mi dice: «Tu vieni fare le pulizie nel palazzo dove lavoro?». Come se fosse un fatto scontato. La pensano così anche i politici di centrosinistra che dicono che gli immigrati servono per badare agli anziani, per fare lavori che gli altri non fanno. Ma per quale motivo noi non possiamo essere considerati allo stesso livello di tutti? Perché non possiamo avere le stesse possibilità? Per non dire dei commenti razzisti sui social. «Devi essere grata al Paese che ti ha accolto», mi ha scritto un ventenne. Se volessi stare sul suo piano allora dovrei dirgli che sono più italiana di lui essendo nata e vissuta qui.

Aver negato agli immigrati di seconda generazione lo ius soli è un’altra grave responsabilità di questa classe politica. Il provvedimento è stato affossato anche dai grillini e dal Pd che non l’ha varato quando era al governo.
Anche lì, secondo me, lo hanno fatto scientemente per strizzare l’occhio alla pancia più razzista della gente.

Esperienze come quella di Riace che Left con Re.Co.Sol e altri ha candidato al Nobel per la pace 2019, raccogliendo oltre 90mila firme, così come il successo delle manifestazioni #Indivisibili a Roma e People a Milano ci dicono comunque che esiste anche un’altra Italia.
Sì. È stata bellissima la manifestazione pochi giorni fa. Personalmente sono stata due volte a Riace, quando Mimmo Lucano era in sciopero della fame e ci fu l’incontro con la sindaca di Barcellona Ada Colau e il sindaco di Napoli De Magistris. Mentre Mimmo in un anfiteatro parlava del reato di umanità che gli è stato imputato, dietro la tenda si vedevano bambini di tutte le etnie che giocavano a calcio, un’immagine indimenticabile. Il modello Riace è un’utopia concreta, ha aiutato e ridato speranza agli immigrati ma anche agli abitanti rimettendo in moto quel piccolo paese della Locride.

Lei si è espressa criticamente verso la Tav. Parlando di tutela dell’ambiente, sarebbe più importante creare lavoro aprendo cantieri per mettere in sicurezza il territorio?
In questi giorni stiamo definendo il programma e i temi che riguardano l’ambiente sono centrali. Siamo contrari all’ampliamento dell’aeroporto di Firenze. Sarebbe più utile potenziare quelli di Pisa e Bologna. Con movimenti dal basso, con le mamme No inceneritore siamo riuscite, si spera definitivamente, a bloccare l’inceneritore che volevano costruire in zona aeroporto. Ma noi non diciamo solo di no. Diciamo sì agli impianti di recupero, proponiamo di riciclare materiale ad alta densità e vorremmo attivare un servizio di raccolta porta a porta a Firenze, oggi al 50 per cento riguardo alla raccolta differenziata, per arrivare all’80 per cento. Avanziamo proposte concrete, offrendo lavoro e aiutando anche l’ambiente. E ancora, per restare sulla concretezza, siamo contrari agli sgomberi di realtà come La polveriera, spazio autogestito, tenuto bene, dove fanno cultura e aggregazione. Invece di costringere i ragazzi ad andare nei centri commerciali fuori Firenze vorremmo dare loro delle risposte all’interno, offrendo degli spazi, là dove oggi ci sono solo b&b per i turisti e nient’altro. Firenze continua a vivere di rendita da 500 anni, dobbiamo aprirci al contemporaneo.

Serve più cultura e più impegno sul territorio anche per contrastare organizzazioni di destra che avanzano nei quartieri.
Per questo bisogna valorizzare quelle reti di associazioni e di soggetti – e sono tanti – impegnati sul territorio, nel sociale, nella cultura. Il vuoto altrimenti viene riempito da CasaPound. Aprono nuove sedi dichiarando di non essere fascisti, ma poi alimentano la cultura dell’odio. Li ho visti anche volantinare davanti alle medie, spacciando diffidenza verso lo straniero. A ragazzini di 11 anni! La cultura di odio che diffondono è illegale, ma lo stanno facendo. Certa gente non si vergogna più. Anche il candidato della lista civica di Graziano Cioni, Mustafà Watte (in teoria di centrosinistra ma che nei fatti sostiene politiche di destra come il daspo per gli immigrati) è stato preso di mira. Oggi si sentono legittimati a dire qualsiasi cosa anche perché il razzismo è quasi istituzionalizzato. Certi discorsi di ministri fomentano l’odio contro le donne, contro i migranti e tutto questo viene accolto come una cosa quasi normale. Abbiamo la memoria corta.

Per reagire serve una forte e chiara risposta di sinistra. L’ampia coalizione a sinistra del Pd che la sostiene può essere un laboratorio, un modello pilota per la sinistra l’Italia?
Io penso di sì. Questo è un aspetto per me importantissimo. Sono circa 4mila i Comuni che vanno al voto e spero che questa esperienza venga raccolta anche altrove. Io sarei molto contenta di avere Pap all’interno di questa coalizione seria e credibile. Per la prima volta siamo riusciti a unire le forze, io sono molto lusingata e felice che la mia candidatura, che il mio nome non sia stato visto come qualcosa di negativo, ma anzi abbia fatto convergere forze di sinistra con sfumature diverse. Abbiamo un forte collante: gli ideali della sinistra. Io penso che sia importante andare avanti uniti e fare una proposta di sinistra, per troppo tempo siamo andati alle urne rassegnati al voto utile, che dopo vent’anni, come abbiamo visto, è del tutto inutile.

Cosa rispondere a chi dice che la sinistra “radicale” farebbe il gioco delle destre?

È abbastanza curioso, diciamolo, che se uno avanza una proposta di sinistra venga stigmatizzato dicendo “se fai proposte di sinistra favorisci la destra”. C’è qualcosa che non torna in questo discorso. Se dici cose di sinistra favorisci la sinistra, non è che ammiccando al centrodestra o alla destra sia possibile portare avanti quelle politiche sociali che servono. C’è chi lascia indietro i diritti civili solo perché ci sarebbero alcuni nella popolazione non ancora pronti per questo. Io penso invece che sia importante provare a dare delle risposte. Noi nasciamo per combattere le destre, siamo un’alternativa vera e credibile, io ci credo!

 

L’intervista di Simona Maggiorelli ad Antonella Bundu è tratta da Left di venerdì 8 marzo 2019


SOMMARIO ACQUISTA

Il vero femminismo è anticapitalista

MANIFESTAZIONE A ROMA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE PROTESTA CORTEO MANIFESTANTE MANIFESTANTI NON UNA DI MENO

Da un lato, lo sciopero globale dell’8 marzo è un salutare ritorno al passato. Via i cioccolatini e le mimose, si recuperano le radici più nobili della celebrazione, connesse alle mobilitazioni delle donne operaie di inizio Novecento. Dall’altro, la protesta è un salto verso il futuro, che svecchia, moltiplica nelle forme e rinvigorisce lo strumento dello sciopero, ormai anchilosato dopo anni in cui i sindacati l’hanno costretto in un cassetto, preferendogli contrattazione e concertazione. Proprio in questo doppio movimento risiedono le potenzialità dell’azione, o per meglio dire dell’astensione (dal lavoro, ma anche da ogni attività di cura e di consumo), messa in atto in più di cento Paesi del mondo, nella Giornata internazionale della donna.

Ventiquattro ore in cui il movimento, ormai planetario, Non una di meno intende manifestare non solo contro ogni forma di violenza di genere, ma anche contro le politiche razziste e liberiste che fanno di questa violenza un fenomeno strutturale. In Italia, obbiettivo critico sono: ddl Pillon, legge Salvini sull’immigrazione, ma anche il reddito di cittadinanza – in realtà un «sussidio di disoccupazione a condizioni proibitive» – e le insufficienti politiche di prevenzione dei femminicidi.

Istanze radicali, solo in minima parte presenti nella lista dei desideri del “femminismo liberale”, che ferma lo sguardo sull’ineguale possibilità di fare carriera tra uomini e donne, senza indagare i motivi delle disuguaglianze in profondità. «Non ci interessa rompere il soffitto di cristallo per poi lasciare la maggioranza delle donne a raccogliere i frammenti di vetro. Invece di celebrare le donne amministratrici di azienda che occupano gli uffici della dirigenza, preferiamo sbarazzarci degli uffici e dei consigli di amministrazione».

A ribadirlo sono Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, attiviste e docenti universitarie, nel loro Femminismo per il 99% (Laterza 2019, traduzione di Alberto Prunetti). Vero e proprio “manifesto” (come indica il sottotitolo) in 11 tesi, in cui la lotta delle donne viene ricalibrata, per porla all’altezza delle sfide del neoliberismo. Uno spirito del tempo violento e distruttivo, che trova un alibi nel «femminismo delle donne vicine al potere, che si allea con la finanza globale negli Stati Uniti o fornisce una copertura all’islamofobia in Europa; è il femminismo – si legge nell’agile pamphlet – delle guru aziendali che predicano di “farsi avanti”, delle burocrati del femminismo che spingono aggiustamenti strutturali e microcredito nel Sud del mondo, delle politiche di professione in tailleur pantaloni che si fanno pagare una parcella a sei zeri per un discorso a Wall Street».

«I limiti di questo femminismo, che…

L’intervista di Leonardo Filippi a Cinzia Arruzza prosegue su Left in edicola da venerdì 8 marzo 2019


SOMMARIO ACQUISTA

La forza rivoluzionaria delle donne

Per l’8 marzo, giornata internazionale delle donne, Non una di meno ha organizzato, per il terzo anno consecutivo, un grande sciopero delle donne, contro la violenza sulle donne, contro le disparità, ma anche contro il razzismo e contro la legge “immigrazione e sicurezza” di Salvini, perché – come scrivono le attiviste di Non una di meno – «c’è un legame tra le politiche contro le donne come il ddl Pillon su separazione e affido e le politiche repressive contro l’immigrazione come il decreto del ministro dell’Interno».
Il governo giallonero sempre più si accanisce contro gli immigrati e contro le donne promettendo una nuova caccia alle streghe.
I leghisti Salvini, Fontana, Pillon con la benedizione dei grillini complici di governo, scavalcato l’8 marzo, si apprestano a celebrare la Controriforma dello stato di famiglia e la negazione dei diritti delle donne convocando a Verona clericofascisti da tutti i Paesi più oscurantisti d’Europa, a cominciare da quelli del gruppo di Visegrad.
Il senatore Pillon non contento di essere il primo firmatario di un ddl in discussione al Senato che – come abbiamo denunciato più volte – occulta i casi di violenza in famiglia e tratta il bambino come un oggetto – ora vorrebbe anche punire con il carcere la gestazione per altri. Così dopo aver annunciato di voler impedire alle donne di abortire dando loro soldi o con ogni mezzo, l’esimio senatore, già organizzatore del Family day, insieme al ministro Fontana che ha marciato su Roma («per la vita», dice lui) si appresta a scrivere un’altra pagina nera della storia patria contro le donne. Seguendo l’insegnamento di papa Francesco che anche di recente è tornato a scagliarsi contro l’interruzione di gravidanza, stigmatizzando le donne e i medici come assassini: «Abortire è come affittare un sicario per risolvere un problema», ha detto il capo di Santa romana Chiesa.
In questa cronaca dell’orrore, non possiamo non accennare qui alla proposta di riaprire le case chiuse, idea fascista che di tanto in tanto le destre ripropongono e che i leghisti ora rilanciano. Ma noi non restiamo a guardare inerti. Anche su questo le associazioni delle donne promettono battaglia, mentre si allarga il fronte che chiede il ritiro immediato dell’inemendabile ddl Pillon.
La petizione online lanciata, con questo preciso scopo, dal network D.i.Re, che riunisce circa 80 centri anti violenza, ha già ottenuto più di 150mila firme. Intanto il gruppo di esperte del Consiglio d’Europa, impegnate sul fronte della lotta contro la violenza sulle donne (Grevio), sarà in Italia dall’11 al 21 marzo per vigilare sull’attuazione della Convenzione di Istanbul. Alla sbarra c’è il ddl Pillon che, scrivono, «non solo non tiene conto della violenza contro le donne e i minori, ma ne ostacola l’emersione». Ma è soprattutto la piazza a protestare a gran voce, l’8 marzo e nei giorni seguenti in ogni parte d’Italia, chiedendo alla politica, alle istituzioni, ma anche alla magistratura di approntare strumenti contro la violenza sulle donne e di aggiornare la propria cultura e la propria mentalità. Non è accettabile nel 2019 che un giudice consideri la gelosia come un’attenuante. Michele Castaldo era stato condannato a 30 anni per aver strangolato nel 2016 a Riccione la compagna che lo voleva lasciare. La Corte d’appello di Bologna ora ha dimezzato la pena, per aver commesso il fatto in preda a una «soverchiante tempesta emotiva e passionale». Ricordiamo che il delitto d’onore, che prevedeva una attenuante per l’uomo tradito e sconvolto dal disonore, è stato abolito nel 1981.

Quando nei processi e sui giornali si smetterà di dire che le emozioni fanno impazzire, quando cesserà l’uso del concetto di raptus e di delitto passionale che non hanno fondamento scientifico? Il lavoro culturale da fare in Italia è enorme. Anche per questo Left tiene alta la bandiera della ricerca e dell’approfondimento senza abbassare mai la guardia, cercando di dare strumenti di lettura, di fare informazione (e indirettamente prevenzione). Anche due settimane fa siamo tornati a parlare di uso improprio del termine raptus avvalendoci di esperti, gli psichiatri, di chi ha la formazione e il titolo per farlo. Per festeggiare l’8 marzo abbiamo allargato la proposta, aggiungendo al settimanale il libro Libere di essere e di pensare. Due occhi per vedere in profondità il visibile e l’invisibile della cultura dominante, per decostruire gli stereotipi, per raccontare l’universo femminile a 360 gradi, parlando di adolescenti, di scoperta della sessualità, di immagine e di identità femminile, di desiderio, di possibilità di trasformazione interna nel rapporto irrazionale con il diverso da sé.

Torniamo a indagare le cause della negazione e del millenario annullamento che le donne hanno subito e subiscono. Ma soprattutto, ribellandoci a tempi così bui e regressivi come quelli che stiamo vivendo, torniamo a mettere al centro il tema della creatività femminile (che non è solo fare figli) raccontandone la forza rivoluzionaria.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola da venerdì 8 marzo


SOMMARIO ACQUISTA

Via le persone, a San Ferdinando resta lo sfruttamento. Il solito Salvini forte con i deboli

Le operazioni di sgombero della baraccopoli di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, 6 marzo 2019. ANSA/ MARCO COSTANTINO

Mimmo Lucano, sindaco esiliato, ci auguriamo ancora per poco, di Riace, ce ne aveva parlato raccontando di un senso di profonda sconfitta. Questo gli suscitava San Ferdinando, la baraccopoli sterminata dove il 6 marzo all’alba sono giunti i bulldozer del Viminale. Lo aveva detto del resto il ministro, dopo l’ennesima morte annunciata di un ragazzo arso vivo perché cercava di riscaldarsi. «Libereremo la piana per lasciare Rosarno ai rosarnesi». Molti ci avevano creduto ma non è andata così. Nella baraccopoli vivevano oltre 1.200 persone censite. Lavoratori dell’agricoltura costretti in un luogo la cui stessa esistenza era da anni inaccettabile. Ma non è dal 6 marzo che San Ferdinando e Rosarno vedono questo scempio.

Tanti anni fa c’era una cartiera abbandonata, piena di amianto, che ospitava un migliaio di persone, venne abbattuta e si realizzarono tendopoli e alloggi di fortuna. Dopo la rivolta del 2010 il governo dichiarò di voler intervenire. Nel gennaio del 2012 l’allora ministro dell’Integrazione Andrea Riccardi inaugurò la tendopoli a San Ferdinando, dopo aver smantellato una baraccopoli e un’area di container vicino Rosarno. E di tendopoli in tendopoli si è giunti ad avere una baraccopoli dove vivevano fino a poco fa, circa 2.000 persone, affiancata da una tendopoli in grado di ospitarne poco meno di 500. Quella era l’accoglienza promessa allora e rimasta fino a ieri. Insufficiente e priva di garanzie. In 18 mesi tre persone ci hanno perso la vita nel tentativo di riscaldarsi dall’inverno e un altro ragazzo, il sindacalista Soumayla Sacko, è stato ucciso perché stava rubando una lamiera necessaria per una baracca.

Poi ieri mattina la parata, «erano almeno 600 agenti in abbigliamento antisommossa che hanno circondato il campo – racconta il collega Agostino Pantano – temevano tensioni e manifestazioni di ostilità ma le persone invece lentamente avevano già iniziato ad andarsene per conto proprio. Quel posto lo volevano, lo volevamo chiuso tutti. Ma si auspicava una soluzione che invece non c’è stata». Pantano a tarda sera faceva un bilancio numerico che dovrebbe far ragionare. Una parte consistente delle persone presenti, almeno 400 sono state spostate nella tendopoli che è a 20 metri dal terreno sgomberato. Alcuni, quelli con lo status di rifugiato, di protezione internazionale o comunque garantiti, hanno avuto in parte la possibilità di andare in altri Cas o Sprar ma hanno rifiutato perché troppo lontani dai luoghi di lavoro. Chi era in condizione di irregolarità si è reso irreperibile, prendendo il treno e spostandosi verso altre città o riversandosi nelle campagne vicine. Circa in 200, ieri notte erano ancora nelle baracche rimaste in piedi.

«Ci vorranno un paio di giorni almeno per demolire tutto – riprende Agostino Pantano – e per molti la sola soluzione trovata sono le tende che si sono aggiunte nella tendopoli. Presto diventerà come un vero e proprio campo profughi perché si stanno montando le nuove strutture nei vialetti che esistevano fra una tenda e l’altra. Nessuna soluzione reale insomma, solo tanto clamore mediatico». E poi il rumore delle ruspe tanto caro al ministro dell’Interno. Hanno sradicato canne e lamiere, tavole di legno e pannelli di ferro, cartone e mattoni. Tutto è divenuto un groviglio polveroso che si è trasformato in monito per chi si sente privato di speranza. «Non volevamo restare qui – racconta Abdhul – 20 anni, del Burkina Faso. Ma, – dice raccontando di una coppia, madre e figlio, che si tengono per mano sopra un grande fagotto – loro che fine faranno? Lo troveranno un tetto? Io sono abituato a dormire anche all’aperto ma loro?».

Forse per le persone più vulnerabili avranno una sistemazione ma cosa accadrà nei prossimi mesi? La stagione delle arance è terminata e non è stata delle migliori. Ora fa già caldo e il sole arroventa la terra soprattutto nelle zone della piana più vicine al mare. Si alza la polvere e si è in una di quelle fasi in cui il lavoro è poco ma non ci si può allontanare troppo, si rischia di essere soppiantati da altre braccia e questa diventa la fase più delicata. Chi può cerca di trovarsi altri scampoli di occupazione ma è difficile in una terra da cui si scappa perché creare lavoro non è mai rientrato nei doveri dei governanti che si sono succediti.

Oltre alle realtà locali come Campagne in Lotta, Sos Rosarno, Rifondazione Comunista sono intervenuti gli operatori di Medu (Medici per i Diritti Umani) che da anni monitorano la zona e intervengono con unità di strada e l’associazione A Buon diritto. Entrambi hanno valutato negativamente la decisione di attuare l’ennesimo, precipitoso sgombero. «Non si discute certo la necessità di evacuare un insediamento le cui condizioni abitative ed igienico-sanitarie sono drammatiche, quanto l’estemporaneità di un’azione attuata senza un’adeguata pianificazione in grado di tutelare la dignità e i diritti delle persone ospitate – hanno dichiarato in un comunicato congiunto -. Per cominciare, nonostante la Prefettura abbia informato gli interessati circa l’operazione di sgombero e offerto ad alcuni la possibilità di trasferimento “a mezzo di pullman messi a disposizione dalla Prefettura di Reggio Calabria presso il Cas – Siproimi (ex Sprar, ndr) appositamente individuato dal ministero dell’Interno”, a nessuno è stata comunicata l’esatta destinazione».

«Non è stato inoltre comunicato – prosegue la nota – se siano previste soluzioni per le persone non inserite nelle liste preparate dalla Prefettura nelle settimane precedenti l’ordine di sgombero immediato. Tutto è avvenuto senza tenere in alcuna considerazione né i diritti individuali dei lavoratori migranti né gli impegni presi da istituzioni e associazioni regionali e locali nella direzione di un’azione graduale e di largo respiro volta all’inclusione sociale, abitativa e lavorativa dei migranti, in grado di favorire lo sviluppo dell’economia locale e di rivitalizzare un territorio sempre più spopolato e depresso».

La richiesta alle istituzioni, dopo sei anni di attività di Medu, è semplice: azioni urgenti e indifferibili per garantire condizioni abitative dignitose e sicure ai lavoratori migranti della Piana di Gioia Tauro, fornendo a tal fine dati e proposte concrete. L’esperienza di questi anni ha infatti più volte dimostrato che soluzioni temporanee, prive di un’accurata pianificazione e che non tengono conto dei bisogni del territorio e delle condizioni individuali dei lavoratori, risultano nel tempo del tutto fallimentari e inutilmente dispendiose.

Ma questo è tempo di “ruspe elettorali” e lo sgombero di San Ferdinando, chiusura “da destra” di un ghetto per formarne altri nascosti e forse peggiori, permette un buon effetto mediatico. Quindi bisogna agire in fretta, prima delle elezioni europee almeno, per dimostrare, parole del ministro dell’Interno che “alle parole seguono sempre i fatti”. Una linea di condotta che sta attraversando il Paese e che riguarda strutture diverse fra loro per storia, dimensioni, problematicità ma con un punto in comune, frantumare un disagio per crearne mille altri. È accaduto con l’ex penicillina a Roma, a Castelnuovo di Porto e ancora più recentemente a Mineo con i Cara finalmente chiusi. Le persone le ritroveremo per la strada, con meno diritti e più fragilità. Forse il pugno duro indurrà qualcuno ad andarsene ma sarà poca cosa. Ce ne accorgeremo presto quando le migliaia e migliaia di persone rimandate in strada torneranno nei luoghi dello sfruttamento perché le persone non debbono esistere, le loro braccia si.