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Lavorare meno a parità di salario, una lotta che unisce i lavoratori

LONDON, ENGLAND - SEPTEMBER 13: Workers take a break on a row of upturned benches outside the Olympic Stadium in Stratford on September 13, 2012 in London, England. The transformation of much of the site has already begun before being handed over to the 'London Legacy Development Corporation' in October. As the sites redevelopment takes shape, the whole area including the athletes village and sports venues will be transformed into new neighborhoods, leisure centres and visitor attractions as part of £292 Million GBP scheme which is due to be completed by spring 2014. (Photo by Dan Kitwood/Getty Images)

Tempo rubato. Per una rivoluzione possibile tra vita lavoro e società di Simone Fana per la casa editrice Imprimatur è una pubblicazione estremamente significativa, da leggere, diffondere e discutere collettivamente.
Per il contenuto, assolutamente centrale in questa fase sociale e politica, e perché segna finalmente la ripresa di un ciclo politico non più segnato dalla lunga stagione di sconfitte, ripiegamenti e abbandoni di campo che data almeno dalla batosta subita dal movimento operaio nel 1980 alla Fiat.

Se andiamo indietro nel tempo, l’unico tentativo di leggere e contrastare la controffensiva padronale della fine anni Settanta che culminò nella marcia dei quarantamila fu quello del Pci dell’ultimo Enrico Berlinguer: la stagione dell’incessante richiamo ai pensieri lunghi seguita all’abbandono del compromesso storico e delle riflessioni sulle trasformazioni produttive.

Un tentativo di rilievo sul piano politico-strategico ben colto – a suo tempo – dal gruppo del Manifesto di Lucio Magri e di Rossana Rossanda, che dopo la radiazione subita decise di rientrare nel Partito.

Il libro di Simone Fana testimonia efficacemente che una nuova generazione di quadri politico-sindacali si sta affermando e proponendo come elementi di una possibile riaggregazione molecolare di una soggettività di classe, quadri che uniscono la passione per la militanza con la riappropriazione degli strumenti analitici ed intellettuali che hanno caratterizzato il meglio della tradizione marxista, italiana ed internazionale.

Una generazione nata e formatasi – per una beffarda e proficua eterogenesi dei fini – proprio grazie alla crisi del 2007/8, dove un Capitalismo che si faceva natura e pretendeva di eternare sé stesso mostrava a livello mondiale le sue intime, strutturali e distruttive contraddizioni.

Uno snodo che ha fatto saltare, per chi non fosse coperto dai detriti della sconfitta e dalle recriminazioni tutte interne ad un ceto politico autoreferenziale, l’apodittico assunto di marca thatcheriana del “Non ci sono alternative” e “La società non esiste, esistono solo gli individui”: il Realismo capitalista così bene e amaramente descritto da Mark Fisher è stato finalmente squarciato e la Storia, anche in Italia, può rimettersi in marcia.

“La grande crisi del biennio 2007/2008 (…) porta a maturazione le contraddizioni di uno sviluppo trainato dalla fede incrollabile nella libertà di movimento delle merci e dei capitali e nella battaglia contro le organizzazioni del movimento operaio (…) segna lo sgretolamento dell’ordine neo liberale e il passaggio a una fase completamente nuova”. La vecchia talpa ha ripreso a scavare.

La storia delle riflessioni e proposte sull’orario di lavoro, da Marx ed Engels passando da Lenin per arrivare a Keynes, si intreccia efficacemente con la ricostruzione non paralizzante della stagione della controffensiva padronale della metà anni Settanta, seguita alla grande stagione delle lotte operaie dei decenni Sessanta e primi anni Settanta, arrivando ad indagare gli anni Novanta dell’implosione dell’Urss, del crollo dei Paesi dell’Est, della liberalizzazione dei movimenti di capitale, della privatizzazione delle imprese pubbliche e della riduzione drastica della spesa sociale.

Un lavoro robusto, solido, dove il rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro – al centro della proposta dell’Autore la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario lungo l’arco della vita – viene ricondotto al cuore delle riflessioni del Marx dei Grundrisse sui meccanismi di produzione e riproduzione sociale del Capitalismo (ovvero all’analisi dei processi di valorizzazione che caratterizzano le strategie di accumulazione capitalistica), recuperando la spinta alla piena realizzazione umana che ha sempre contraddistinto la teoria e la prassi del movimento operaio nei suoi punti e stagioni più alte.

Il cuore del saggio è lo scontro che nasce – dobbiamo far nascere – nei luoghi di lavoro estendendolo all’intera società, per “il tempo sottratto alla realizzazione di sé, il tempo rubato agli affetti personali, allo sviluppo della creatività individuale e collettiva”.

Un ritorno quanto mai fecondo al primo Marx, che deve tuttavia nutrirsi ed irrobustirsi con una rinnovata Teoria dello Stato al tempo della crisi del nesso costituzionale tra lavoro e cittadinanza, crisi connessa anche alla transizione dal fordismo al post-fordismo ed al fenomeno strutturale del lavoro povero.

Una Teoria critica dello Stato imperniata nella doppia funzione di produttore di beni e servizi pubblici e regolatore dei conflitti distributivi tra le classi.

Un lavoro, quello di Simone Fana, esplicitamente partigiano e militante: ricomporre un terreno comune di lotta ad un segmentato mondo del lavoro dipendente, che non sa più riconoscersi come una soggettività autonoma, è l’obbiettivo.

Scopo dichiarato già nella citazione del Lukàcs di Storia e coscienza di classe che fa da premessa all’intero lavoro: “La lotta sociale si rispecchia ora in una lotta ideologica per la coscienza, per l’occultamento o la scoperta del carattere classista della società. Ma la possibilità di questa lotta rimanda già alle contraddizioni dialettiche, all’interna dissoluzione della pura società classista”.

Perché la scelta dell’impresa di recuperare profitto attraverso la frantumazione dell’organizzazione della produzione, con il ricorso a processi di decentramento produttivo che riducono la massa salariale comprimendo il costo del lavoro allargando le maglie della flessibilità in entrata ed uscita, non è operazione meramente economica, bensì squisitamente politica.

(Ed interessante sarebbe tornare a riflettere su quella straordinaria esperienza – sebbene a noi funesta – del Progetto Valletta della Fondazione Agnelli, tutto teso a rinvigorire una coscienza di classe padronale scossa alle fondamenta dalle contestazioni operaie).

Si attaccava in quel modo il peso quantitativo del lavoro operaio, la sua stabilità contrattuale, la sua presenza conflittuale nella fabbrica: il suo essere effettivo contro-potere. La perdita di centralità della classe operaia come soggetto politico del conflitto capitale-lavoro tracima nella perdita di senso dei soggetti operai e nel non esser più il lavoro, la frattura di classe, l’asse politicizzato che innervava e definiva l’intero sistema sociale. Si sgretola il nesso tra lavoro e costruzione del sé, si erodono i legami simbolici che ricomponevano l’identità individuale e collettiva sul terreno del lavoro vivo: si gettano le basi per la razionalità ordoliberale dell’imprenditore di sé stesso e della società della prestazione.

Una proposta, quella che ci viene presentata e ben argomentata, “radicalmente riformatrice”, che mostra di aver ben rifunzionalizzato sia il Piano del Lavoro elaborato dalla Cgil di Di Vittorio nel biennio 1949-50 e sia o soprattutto – e non sembri paradossale – il Togliatti di Ceti medi ed Emilia Rossa, dove il cuore della proposta del dirigente comunista consisteva sostanzialmente nella riaffermazione teorico-pratica del “conflitto come motore dello sviluppo”.

Ed è questa una qualità dell’autore che a noi preme sottolineare: recuperare in maniera laica il meglio della tradizione comunista, ivi compresa la linea della democrazia progressiva – ovvero la possibilità di utilizzare, attraverso la mobilitazione sociale e politica, la Costituzione repubblicana come levatrice di una società non più capitalistica -, socialista, con un non esplicitato ma presente riferimento all’esperienza del Primo centro-sinistra della nazionalizzazione, pianificazione e programmazione e soprattutto operaista, da Raniero Panzieri all’esperienza dei Quaderni Rossi seguendo altresì il percorso complesso e non privo di contraddizioni di Mario Tronti.

Buona lettura, dunque.

Anzi, buon lavoro e soprattutto buona lotta: per una riduzione del tempo di lavoro a parità di salario lungo l’arco della vita che costituisca una rivendicazione politica, una battaglia di parte, “da conquistare organizzando una parte contro un’altra. La parte di chi vive di salario contro quella che vive di rendita e di profitto”.

Perché ci sono due classi fondamentali: niente di più, niente di meno.

Sabato 10 novembre, alle 17:00, presso la libreria Marabuk di FirenzeSimone Fana – con l’introduzione e coordinazione di Piergiorgio Desantis dell’associazione e rivista il Becco, e Maurizio Brotini (segretario Cgil Toscana) come relatore – presenterà il suo libro Tempo Rubato

#Indivisibili L’opposizione che dice no alla xenofobia e alla violenza sulle donne

Doveva essere il governo del cambiamento, e il Movimento 5 stelle il traino dello sbandierato rinnovamento. Ma le promesse sono svanite nel nulla, una dopo l’altra. Dalla proposta di legge per fermare il consumo di suolo, dallo stop a progetti a forte impatto ambientale come il Tap e la Tav, dalla rivoluzione dell’economia verde si è passati direttamente al condono, come quello che sta per abbattersi sull’isola d’Ischia contenuto nel decreto Genova, mentre la città ancora aspetta un serio progetto di ricostruzione del ponte Morandi crollato alla vigilia di Ferragosto. Di fronte al dramma di intere famiglie sterminate dall’abusivismo edilizio sotto la spinta del maltempo, il ministro dell’Interno Salvini non ha trovato di meglio che prendersela con quelli che per lui sarebbero «ambientalisti da salotto», “dimenticando” i condoni edilizi attuali e quelli varati dai governi Berlusconi con i voti della Lega.

Doveva essere il governo della trasparenza, il tripudio della democrazia ed è diventato quello della democrazia eterodiretta da una piattaforma privata che punta a dimezzare e dismettere la democrazia parlamentare.

Doveva essere il governo che abolisce la povertà, ipse dixit il ministro del Lavoro Di Maio, ma il reddito di cittadinanza, che forse sarebbe meglio chiamare (con Marta Fana) reddito di sudditanza visto che impone lavoretti gratuiti in cambio di un’elemosina, slitta di nuovo, forse, a gennaio. Insieme a “quota cento” per le pensioni, il provvedimento che sostituisce l’auspicata abolizione della riforma Fornero con un meccanismo che, tanto per cambiare, penalizza le donne. Insieme ai migranti, letteralmente prese di mira dal governo giallonero con nuovi crociati come il senatore Pillon e il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana. Andando a braccetto con esponenti di associazioni religiose fondamentaliste, minacciano di sabotare la legge 194, già in molte regioni disapplicata a causa di percentuali bulgare di obiettori di coscienza.

Il senatore della Lega Simone Pillon, in particolare, è il primo firmatario di un Ddl sull’affido congiunto che si traduce in una restaurazione del patriarcato e della figura del padre padrone.

L’esimio senatore dichiara di voler impedire con ogni mezzo alle donne di abortire e vorrebbe rendere il matrimonio indissolubile. Dietro il disegno di legge oscurantista targato Pillon – contro il quale la mattina del 10 novembre siamo tutti chiamati a scendere in piazza – si nasconde un pensiero violentissimo contro le donne (accusate di fatto essere delle manipolatrici) e contro i bambini considerati alla stregua di pacchi postali, su cui il pater familias imprime il proprio volere come fossero tavolette di cera. Basti dire che se il Ddl diventasse legge, in caso di violenza, il bambino dovrebbe stare anche con il genitore maltrattante, fino alla fine del processo. Di fronte a tutto questo pare una barzelletta la proposta del governo di regalare appezzamenti di terra a chi fa tre figli. Ma c’è ben poco da ridere, purtroppo. Specie se pensiamo alle deliranti dichiarazioni di figure di primo piano di questo governo che farneticano di complotti orditi dalle Ong e di piani per la sostituzione etnica degli italiani.

Lo abbiamo denunciato fin dall’estate scorsa quando sono stati anticipati dal Sole 24 Ore i nove punti del decreto Salvini, lanciando l’allarme sul loro contenuto lesivo dei diritti umani, della Costituzione e dei trattati internazionali che l’Italia ha sottoscritto rispetto al diritto d’asilo, e non solo.

Ampliati e resi ancor più inaccettabili in un decreto che mette insieme proditoriamente immigrazione e sicurezza, quei nove punti sono diventati una misura repressiva del dissenso, che criminalizza la migrazione e la povertà, che spinge chi arriva in Italia fuggendo da guerre, catastrofi climatiche e miseria in una zona grigia di assenza di diritti e di maggiore ricattabilità. Il governo legastellato ha voluto porre la fiducia su questo provvedimento che, sulla strada aperta dal precedente governo e dal ministro Marco Minniti (che ha criminalizzato la solidarietà, stretto accordi con la Libia e cancellato il diritto all’appello per i richiedenti asilo), estende il Daspo urbano, impone il raddoppio dei tempi di trattenimento nei Centri di permanenza per il rimpatrio: da 90 a 180 giorni; e abroga i permessi di soggiorno per motivi umanitari e molto altro.

Se non vi riconoscete in questo decreto, in questa politica xenofoba, scendete con noi in piazza il pomeriggio del 10 novembre. Insieme, a sinistra, possiamo cambiare il corso delle cose, se siamo #indivisibili.

L’editoriale di Simona Maggiorelli è tratto da Left in edicola dal 9 novembre 2018


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Domenico Lucano: Riace dà fastidio alla mafia e ai razzisti

Per capire Domenico, Mimì o Mimmo, Lucano e Riace, bisogna fare un salto indietro di venti anni. Pensare al palazzo Pinnarò nel centro storico, un tempo interdetto ai contadini e poi ai vicoli di un paesino bello ma con troppe case rimaste vuote. Erano arrivati da poco tempo i rifugiati curdi e alcuni dal Kosovo. Avevano trovato accoglienza, porte aperte e sostegno. Allora Mimì non era sindaco, aveva fondato una cooperativa, Città Futura e, nel solco di una cultura libertaria, insieme a pochi altri, si era messo in testa che quelle case potevano vivere nuova vita, che accoglienza potesse diventare sinonimo di fuoriuscita dalla marginalità in cui è confinata gran parte della Calabria.

In poco tempo il paese dei Bronzi divenne un posto da visitare, le case ristrutturate per dormire, mangiando specialità calabresi, eritree, curde, quello che c’era. Fra i tanti che avevano lasciato il paese qualcuno provò anche a tornare, a riaprire un bar, una bottega, ritrovando gli affetti che mancavano e persone nuove per le strade. Non c’è da stupirsi che Mimì in pochi anni e nonostante l’ostilità di speculatori e cosche, sia divenuto sindaco di Riace, riconfermato per tre mandati mentre il suo modello diveniva noto in tutto il mondo. Oggi il sogno si è solo interrotto. E si sente dalla voce infervorata, mentre parla da Caulonia, un paese vicino anch’esso noto per aver costruito un modello di accoglienza, che Mimì non si arrende.

Ci sono novità dal punto di vista giudiziario?
Dopo il mio arresto, avvenuto il 2 ottobre, e dopo che il Tribunale del riesame ha disposto la fine delle misure di trattenimento ma il divieto di dimora presso il mio paese, resto nell’attesa. I miei avvocati aspettano di conoscere le motivazioni del Tribunale per farmi rientrare a casa.

Concretamente su cosa poggiano le accuse?
Sono accusato di aver celebrato un matrimonio fra una ragazza richiedente asilo e un abitante di Riace. Per questo mi hanno arrestato. Cosa dovrebbero fare allora a chi rimanda i migranti nei lager in Libia? E poi…

L’intervista di Stefano Galieni a Domenico Lucano prosegue su Left in edicola dal 9 novembre 2018


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Niente fiori per Violeta

Aveva il nome di un fiore. Violeta. Violeta Senchiu. Quel cognome così cacofonico nella nazione di signori Rossi che tradisce subito l’odore di qualcuno che viene da fuori. Era rumena, Violeta, ma mica di quei rumeni che tornano utili per mungere percolato utile a innaffiare i piccoli e grandi razzismi. Violeta viveva da anni a Sala Consilina, sul confine tra Campania e Basilicata, aveva 32 anni, un compagno italiano, tre figli dai dieci ai due anni, “seria e lavoratrice” dicono di lei i suoi compaesani con quelle formulette che stanno sui morti come i fiori di plastica sui marmi delle tombe e una vita normale senza nessun appiglio per i benpensanti. Una di noi, Violeta. E poi, pensateci bene, ormai i rumeni hanno superato la graticola della razza da un bel pezzo: senza rumeni saremmo una nazione senza verande, balconi, case risistemate, pavimenti puliti e nonni accuditi. Troppo utili i rumeni per essere altro ormai.

Il convivente, Gimino Chirichella sabato scorso è uscito di casa di buona lena, ha riempito delle taniche di benzina, è tornato a casa e ha bruciato Violeta e un bel pezzo di appartamento. Nell’esplosione provocata dalle fiamme lei è finita inghiottita dal fuoco e perfino lui è rimasto ferito come succede quando l’odio straripa e diventa cieco. I bambini stavano giocando, fuori, sul piazzale, hanno sentito le urla e annusato il fumo.

Ha sofferto, Violeta, come si soffre quando si muore incollati sul letto nel centro grandi ustionati dell’Ospedale Cardarelli di Napoli. Lui, il convivente, ha avuto problemi con la giustizia: violenza sessuale, droga e esplosivi nel curriculum. All’inizio aveva raccontato che era stato un incidente domestico, In fondo ha ragione: l’incidente domestico che uccide la maggior parte delle donne in Italia sono gli assassini che condividono lo stesso tetto e tengono le chiavi dell’ingresso in tasca.

Non ci sono fiori sul luogo dove Violeta è stata uccisa. Ci sono due bottiglie d’acqua, di quelle usate per provare a alleviare il dolore mentre si aspettavano i soccorsi e un lumino, uno solo, che non è nemmeno stato acceso. La notizia è finita in sordina, come quegli accidenti che alla stampa tocca stancamente riportare: un’interruzione d’energia elettrica, un furto in stazione, un incidente, una donna bruciata. È terrificante e sorprendente come non abbiate letto in giro di Violeta, vero?

Niente cortei, niente tweet, niente scontri ideologici sulla pelle delle donne, niente pornografia del dolore. Un solo dato certo: al di là del volume tutto intorno le donne muoiono lo stesso. Ma non servono. In fondo se fosse rimasta nel suo Paese tutto questo non le sarebbe successo. Colpa sua.

Buon giovedì.

Processo Cucchi, nuove prove e altri testi. Tra cui il capo della Mobile di Roma

Udienza Cucchi: «Tutte le integrazioni sono state ammesse», dice a Left l’attivista di Acad più assidua alle udienze del processo bis per la morte del giovane geometra romano, nove anni fa. È la notizia del giorno: deposizioni, verbali, registrazioni e intercettazioni scaturite nella nuova recente fase delle indagini sono state ammesse dalla Corte d’assise di Roma. La richiesta d’integrazione probatoria, fatta dal pm Giovanni Musarò, è relativa all’attività d’indagine successiva alle dichiarazioni di uno dei carabinieri imputati, Francesco Tedesco, il quale ha ricostruito i fatti della notte dell’arresto di Cucchi, indicando in due suoi colleghi gli autori del pestaggio subito dal giovane. Ora si allunga la lista dei testi. Il capo della Squadra mobile di Roma, Luigi Silipo, sarà sentito in aula nel processo per la morte di Stefano Cucchi nel repartino penitenziario del Pertini sei giorni dopo l’arresto per droga da parte dei carabinieri della Stazione Appia, cinque dei quali sono imputati, tre di accusati di omicidio preterintenzionale.

La Corte ha ammesso – ritenendole «temi di prova collegate a questo processo» – le testimonianze di altri due poliziotti della Squadra mobile capitolina, dei comandanti delle Stazioni dei carabinieri Appia e Tor Sapienza, dove Cucchi passò la notte dell’arresto, dopo il pestaggio, e della sorella del carabiniere che ha fatto luce sulla vicenda. Probabilmente Musarò vorrà sentirli in una delle udienze di dicembre. «L’accoglimento delle richieste avanzate dall’Ufficio di Procura – ha commentato l’avvocato Eugenio Pini, legale del carabiniere Tedesco – consentirà alla Corte di Assise di vagliare ulteriori elementi che appaiono indubbiamente utili all’accertamento dei fatti». Tra le voci intercettate quella del piantone di Tor Sapienza: «Questi vogliono arrivare ai vertici. Pensano che hanno “ammucciato” (nascosto, ndr) qualche cosa, ma ci posso entrare io “carabinericchio” di sette anni di servizio a fare una cosa così grande?» dice al telefono il carabiniere Francesco Di Sano parlando con il cugino, l’avvocato Gabriele Di Sano, entrambi indagati nella nuova inchiesta sul caso di Stefano Cucchi.

«Per me era un detenuto come tutti gli altri, io ho fatto più del mio dovere, l’ho fatto in maniera impeccabile… io ho eseguito un ordine in buona fede»: nel corso del colloquio telefonico il carabiniere torna sull’annotazione dello stato di salute di Cucchi che sarebbe stato modificato su ordine gerarchico. «Per un motivo “x” hanno voluto cambiare l’annotazione, io questo non lo posso sapere. Se volevano nascondere qualcosa, o perché era scritta male la mia annotazione o perché l’avevo scritto con i piedi… se un mio superiore, in caso di specie in primis il mio comandante di stazione, perché io non parlo con gli ufficiali, non è che potevo parlare con il colonnello, c’è una scala gerarchica. Io l’ordine l’ho ricevuto dal comandante di stazione, la mail l’ha ricevuta lui».

Così, «i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa». «Loro mi dicevano “non cambia nella sostanza perché è scomparso questo”». «Dal pm io sono andato impreparato – aggiunge – con l’ansia perché lui ti intimorisce proprio. Io non ho fatto nulla… ma il reato c’è per carità di dio, risponderò di quello ma ripeto c’è la buona fede…per me sono identiche le due annotazione, cioè cambia solo la sintassi, e loro mi dicevano “no cambia nella sostanza perché è scomparso questo, i dolori al costato sono diventati dolori alle ossa”», conclude il carabinieri che era in servizio alla stazione Tor Sapienza dove Cucchi venne portato dopo alcune ore dall’arresto, già pestato per bene nella tappa precedente della via crucis, quella alla stazione Casilina, che si concluderà con la sua morte, “seppellito” in una stanza del reparto penitenziario dell’ospedale Pertini di Roma.

Fra testi in programma oggi, c’era il medico di famiglia di Stefano che ha ribadito alle difese dei carabinieri la sana e robusta costituzione del suo paziente, certificata nell’agosto, poche settimane prima del massacro. E l’epilessia, assieme alla magrezza, uno dei cavalli di battaglia di chi rappresenta gli imputati, non compariva da anni. Poi, nell’aula della prima corte d’assise, un perito della polizia ha spiegato la faccenda del verbale di fotosegnalamento alterato con il bianchetto, una delle magagne che ha iniziato a scavare delle crepe nel muro di gomma che fino ad allora aveva protetto i carabinieri.

Giuseppe Flauto, infermiere al Pertini, uno degli assolti del primo processo, ha ripetuto in aula i suoi contatti con Cucchi. Lo vide la sera del suo ingresso in ospedale e altre tre volte, prima di constatarne la morte la mattina del 22 ottobre. «Lo trovai con addosso sempre lo stesso maglione dei giorni prima – ha detto – gli proposi di cambiarsi e gli misi sul letto una busta d’indumenti che c’era sul tavolo, ma lui mi rispose che non voleva nulla, di buttarli via. L’unica cosa che ci consentì fu il cambio lenzuola. Gli chiesi cosa gli era successo perché aveva ecchimosi intorno agli occhi, si lamentava di un dolore alla schiena; mi disse che era caduto qualche giorno prima». Poi l’ultimo giorno. «Era magro e tentai di stimolarlo a mangiare – ha aggiunto Flauto – con il medico, nel pomeriggio, volevamo fargli una flebo perché c’erano esami che si stavano muovendo in segno negativo. Non accettò». E la notte prima della morte: «Con un collega gli somministrammo la terapia. Era tranquillo, mi stupì che non mi chiese un antidolorifico. Verso mezzanotte suonò il campanello dicendo di essersi sbagliato; cosa che ripeté dopo circa un’ora, dicendo che voleva cioccolata; poi non chiamò più». Verso le 6 di mattina, Stefano Cucchi fu trovato morto. Una deposizione con parecchi particolari diversi da quelli ricordati nel 2009 che potrebbe essere usata per minimizzare le condizioni del detenuto-paziente. Per il legale di parte civile, la cartella clinica risulta compilata in maniera “strana” lasciando ipotizzare che sia stata compilata in un secondo momento. Per i medici il processo d’appello è ancora in corso.

A un’altra infermiera del reparto di medicina protetta, Stefano Cucchi disse di essere stato menato dai carabinieri, ma anche che non lo avrebbe ripetuto davanti agli agenti della penitenziaria. Circostanza, già uscita nel primo processo e confermata oggi da Silvia Porcelli: «Nacque una questione con lui in merito a quanto beveva da alcune bottiglie d’acqua. Avrei dovuto scrivere quanto beveva. E quando gli chiesi il perché non si capiva quanto beveva, mi rispose “non puoi capire, praticamente mi hanno menato i carabinieri”. Gli risposi “aspetta un attimo, stai dicendo una cosa molto importante”. Volevo chiamare gli agenti come testimoni, ma lui rispose “è inutile, non chiamare nessuno, tanto non lo ripeto”. Tutti gli infermieri del Reparto di medicina protetta del Pertini sentiti oggi come testimoni hanno confermato che quando arrivò «aveva occhiaie marcate e lamentava dolore lombo-sacrale. Stava nel letto, sul fianco, lo vidi in viso e aveva occhiaie marcate», ha detto Domenico Lobianco; e per la collega Stefania Carpentieri, Cucchi «al primo impatto aveva gli occhi cerchiati pronunciati di colore rosso cupo. Erano gonfi, potevano essere ecchimosi. E poi, Stefano era molto magro». Di una magrezza che non consentì di fargli delle iniezioni di antidolorifico per via endovenosa («Si rifiutava perché non accettava nulla che venisse somministrato per via endovenosa», ha detto una delle infermiere-testimoni) né al gluteo per mancanza di un’adeguata massa muscolare, optando invece per una somministrazione nel deltoide. E poi, nel farlo bere, si era optato – ha detto l’infermiera Rita Maria Silvia Spencer – «per delle bottiglie d’acqua bucate per mettere delle cannucce, visto che stava a pancia in giù». Al banco dei testi anche una volontaria del reparto medico, Amalia Benedetta Ceriello, che Cucchi le chiese una Bibbia e di «fare una telefonata al cognato perché disse era l’unico che gli era stato vicino quando aveva avuto dei problemi, per sistemare un cagnolino fino a quando sarebbe uscito dal carcere». Per le difese dei carabinieri sarebbe una prova che stava “bene” Cucchi.

Prossima udienza il 20 novembre per sentire una decina di ulteriori testimoni della lista del pubblico ministero.

Parrebbe finita bene, invece, la vicenda del carabiniere Casamassima, l’appuntato che con la sua testimonianza fece riaprire l’inchiesta sul decesso di Stefano Cucchi. «Non ho mai perso fiducia nell’Arma e fraintendimenti sono stati chiariti. Tutto è bene quel che finisce bene», scrive in un post Riccardo Casamassima. «Oggi sono stato convocato presso il comando generale dove mi hanno comunicato che a breve sarò trasferito in una sede più confacente alle mie esigenze familiari. Sarò più vicino a casa e avrò più tempo per stare con la mia famiglia. (…) Grazie alle persone che mi sono state vicine. Grazie all’Arma dei carabinieri e grazie alle persone che ho incontrato oggi al Comando».

«Oggi in aula – dice Ilaria Cucchi – hanno sfilato gli infermieri del reparto detentivo dell’ospedale dove Stefano è morto nella noncuranza e nel disinteresse generale di tutti loro e tanti altri, che pare non abbiano notato niente di strano se non il fatto che lui era magro e scontroso. Non hanno notato, mentre lo visitavano, sul fondo schiena i segni delle fratture. Non hanno notato, quando tentavano di rianimare un morto, quel pallone enorme, il globo vescicale contente 1.450 cc di urina. Mentre gli avvocati degli imputati si affannano a gettare fango ancora una volta su mio fratello e sulla nostra famiglia. Comunque voglio rassicurare tutti sul fatto che Miky, la cagnetta di Stefano, sta bene ed è con noi, non è stata messa nel canile come è stato insinuato. Lei sta bene, anche se purtroppo il suo padrone è morto, massacrato di botte. Ma nessuno ha notato niente».

Le nuove radici di Ezio Bosso (videoclip)

Il 9 novembre 2018 esce il nuovo lavoro di Ezio Bosso The Roots (a Tale sonata), con l’occasione abbiamo raggiunto il maestro a Salerno, riprendendo le sue prove con il violoncellista Relja Lukic, e parte delle prove con l’orchestra del Teatro Verdi. Il maestro ci ha poi rilasciato un’intervista nella quale gli abbiamo chiesto del suo lavoro di compositore e di direttore d’orchestra, e del senso e del significato del suo ultimo disco. Questa è una piccola clip tratta dall’intervista dove il maestro parla di The Roots. L’intervista integrale uscirà sul numero di Left del 16 novembre. In quell’occasione saranno pubblicate su Left online anche 2 clip delle sue prove.

Ideazione ed intervista: Marcella Matrone; shooting: William Santero, Daniele Carlevaro; montaggio: William Santero, Marcella Matrone, Matteo Bendinelli

Elezioni Midterm, ecco perché i Dem ora sono una grana per Trump

epa07062076 Massachusetts democratic candidate for United States Congress Ayanna Pressley (R) embraces an attendee following a protest rally against the confirmation vote of Judge Brett Kavanaugh in Boston, Massachusetts, USA 01 October 2018. Several hundred protesters gathered on the Boston City Hall plaza outside of a forum where Senator Jeff Flake of Arizona was set to speak later in the day and called on him to reject Kavanaugh's appointment to the United States Supreme Court. EPA/CJ GUNTHER

Le elezioni di Midterm sono solitamente il “brutto anatroccolo” del panorama elettorale americano: poca affluenza e candidati sottotono. Questa edizione del 2018, invece, è stata rivoluzionaria in molti sensi. Il primo esempio è sicuramente la grande partecipazione registrata, evidenziata da un sondaggio del New York Times che ha stimato un’affluenza alle urne di circa 114 milioni di statunitensi, 31 milioni in più rispetto al 2014.

Di certo, i cambiamenti non sono mancati in questi quattro anni: passare dall’era Obama all’era Trump ha rappresentato un salto nel vuoto per molti elettori, facendoli sentire non rappresentati da un presidente così estremamente diverso dal suo predecessore. Senza dubbio, questo Midterm ha rappresentato una votazione sulla Casa Bianca, spingendo molto spesso a votare “a favore” o “contro” la politica trumpista. I risultati ottenuti sono la risposta a due anni di retorica divisiva che ha spinto parte degli elettori ad andare alle urne per cercare di fermare l’avanzata dei propri avversari, anziché rivendicare un proprio ideale. Un caso lampante è stato quello della Georgia, dove l’avanzata di Stacey Abrams è stata ostacolata con tutti i mezzi possibili dal suo avversario, Brian Kemp. Dopo “l’October Surprise” del New York Times, che l’aveva accusata di aver bruciato una bandiera del suo Stato quando era ancora all’università, Kemp ha accusato Abrams e il Partito democratico di brogli nella composizione dei registri elettorali, utilizzando tutto il suo potere di uscente Segretario di Stato della Georgia (senza preoccuparsi minimamente di nascondere l’evidente conflitto di interessi). Episodi di malfunzionamento del meccanismo di voto si sono poi registrati a partire dalla mattina del 6 novembre, scoraggiando molti elettori a restare in fila delle ore per esprimere la propria preferenza. Per poco più di due punti percentuali Abrams non è riuscita a diventare la prima donna afroamericana governatore della Georgia, ma in uno Stato così conservatore aver vinto in alcune delle contee più popolose deve essere letto come un successo.

Nonostante l’elettorato americano appaia arrabbiato e diviso, queste elezioni di Midterm hanno dimostrato quanto ancora creda nel potere del voto come strumento per far sentire la propria voce. Secondo il Washington Post, ben il 44% degli intervistati si è detto speranzoso in merito al risultato della votazione di metà mandato. Non a caso, nel 2018 si è registrato un altissimo tasso di voto anticipato (possibile in 37 Stati), strumento utilissimo per evitare episodi come quelli avvenuti in Georgia che scoraggino gli elettori a partecipare al voto, un’eventualità che storicamente ha sempre favorito i Repubblicani. Tanti “first time voters” si sono distinti nella massa, giovani che si sono recati per la prima volta alle urne per far valere la propria posizione.

D’altronde, questo Midterm è stato caratterizzato da una serie di “prime volte”: oltre che per il numero record di donne al Congresso (più di 100), quelle del 2018 sono state le elezioni più inclusive della storia statunitense, portando nelle stanze governative rappresentanti di diverse religioni ed etnie, oltre che la prima rifugiata musulmana, Ilhan Omar, la quale sarà anche la prima donna con l’hijab a sedere tra i banchi della Camera. Questi “americani col trattino” hanno battuto il cosiddetto “effetto gerrymandering”, un sistema intricato per cui i governatori dei vari Stati disegnano i collegi elettorali in modo da favorire un candidato (molto spesso un maschio bianco) piuttosto che un altro. Ayanna Pressley, afroamericana che ha vinto il seggio per il settimo distretto del Massachusetts, in un comizio ha dichiarato che «Nessuno di noi si è candidato per fare la storia. Ci siamo candidati per portare un cambiamento». Una missione certamente riuscita, riportando la Camera a una maggioranza democratica dopo 8 anni di supremazia dei Repubblicani. Nonostante sia successo quasi sempre, nella storia delle elezioni di Midterm, che il partito del presidente perdesse la supremazia in una parte del Congresso, questa volta la vittoria dei Dem ha un significato particolare, un’energia nuova e per la prima volta di sinistra rappresentata dall’icona di questo metà mandato, Alexandria Ocasio-Cortez, vincitrice nel suo collegio a New York con oltre il 75% delle preferenze e più giovane deputata della storia statunitense.

Il governo Trump è ora in una posizione difficile, avendo la maggioranza solo in una delle due Camere per i prossimi due anni del suo mandato. Un panorama che si presenta poco roseo per le riforme estreme che il presidente ha promesso di portare avanti durante la sua permanenza alla Casa Bianca. Intanto, alcuni dei candidati sconfitti più in vista come Beto O’Rourke, battuto di misura da Ted Cruz nelle elezioni per il Senato in Texas, stanno già pensando alle elezioni del 2020. Una linea ribadita da Ocasio-Cortez, che nel suo discorso di ringraziamento ha dichiarato: «Oggi rappresenta una pietra miliare, ma è soprattutto un inizio. Dobbiamo continuare ad organizzarci, non ci possiamo fermare». E l’onda blu, seppur con una vittoria a metà, non sembra proprio destinata a scomparire.

Giorgio Giampà vola agli oscar latinoamericani

A poche ore dalla cerimonia del Premio Fénix 2018 che si terrà il 7 novembre a Città del Messico, dove è in nomination per la migliore colonna sonora, Giorgio Giampà, musicista e compositore romano, ha solo una certezza: non dovrà portare con sé lo smoking perché pare che l’occasione sia meno ingessata di quella hollywoodiana. Artisticamente attivo sia in Italia che all’estero, con una serie di lavori recenti, Giampà adora lavorare fuori dal nostro Paese e nel 2017 è stato premiato al Kinotavr Oper Russia Film Festival per le musiche originali del film di Guillaume Protsenko, Wake Me Up. Non disdegna casa nostra, dove ha concorso ai Ciak d’Oro, per Fraulein di Caterina Carone e Il padre d’Italia di Fabio Mollo. È per aver composto le musiche originali di Tiempo compartido, in lingua inglese “Time share”, di Sebastian Hofmann, uscita su tutte le piattaforme digitali lo scorso 12 ottobre che l’artista è pronto di nuovo a partire. La pellicola, presentata lo scorso gennaio al Sundance Film Festival, ha in quell’occasione ricevuto il premio speciale della giuria per la migliore sceneggiatura, poi è uscito in Messico, in Olanda, in Belgio e Lussemburgo a settembre, e piano piano arriverà un po’ ovunque, anche in Italia. L’artista romano andrà alla volta del Sud America, per poi far tappa a Los Angeles, dove ha sede l’etichetta della colonna sonora, la mitica Varèse Sarabande, quella di Taxi driver o Ghost , ma anche di altri tra i maggiori successi mondiali. Giampà ha già in mano il biglietto di ritorno, che sarà però il prossimo il 31 marzo. Ha voglia di continuare a viaggiare, trovare ispirazione, arricchire le sue conoscenze per poi portarle con sé in Italia.
Da Roma, al Messico, passando per l’Olanda perché il film di Hofmann è una co-produzione olandese-messicana, proprio a Rotterdam hai avuto l’ispirazione per la musica del film?
Eravamo lo scorso anno a Rotterdam con il regista, anche se ci eravamo conosciuti a Roma, alcuni mesi prima. Lui era lì per fare delle revisioni al montaggio, io l’ho raggiunto per parlare della musica, gli ho proposto di andare a vedere un museo per pensare di fronte ai quadri. I fiamminghi sono, come dire, molto pertinenti con il film che esprime bene il sadismo del capitalismo, con tutta la loro visione di divinità sadiche. Quello di Hofmann è un film dark comedy con venature horror.
Tu, quindi, avevi già visto il suo film?
Sì e quando ci siamo trovati di fronte a La torre di Babele di Brueghel, gli ho detto che il quadro era il suo film perché c’è gente che cammina su questa torre, probabilmente la stanno costruendo; è una torre gigante, piramidale: le persone sono insignificanti e c’è il punto di vista di qualcuno che guarda dall’alto. Gli ho spiegato che vedevo molto il senso del tuo film dove il capitalismo diventa un organismo a se stante, non si capisce più chi c’è alla fine della torre, probabilmente non c’è più neanche un essere umano perché diventa un gioco e noi umani diventiamo dei criceti che corrono intorno a una ruota, che cercano di ascendere a questa torre, ma chi ascende al controllo della piramide perde umanità.
Non poteva quindi esserci espressione realistica più incisiva di quella di Brueghel e anche il titolo del film un po’ lo è, questa “multiproprietà” che ci fa essere padroni di tutto e di niente e Hofmann ha ambientato il suo film in un luogo che è di per sé metaforico.
Il film si svolge dentro a un Resort a  cinque stelle, uno di questi paradisi tropicali che potrebbe trovarsi ovunque, ma anche qui ci sono due costruzioni a forma di piramide. La piramide torna in continuazione dentro il film. Lui voleva dipingere questa critica dei finti sorrisi, del finto dirti benvenuto quando poi l’interesse è semplicemente mettere le mani nel portafoglio e passare sopra chiunque per salire, acquistare potere.
Proviamo a capire come sei arrivato fino a oggi, fino a questo aereo importantissimo che ti porterà fino agli Oscar latinoamericani. In te è nata prima la passione per la musica o quella per il cinema?
La passione per il cinema c’è da vario tempo, addirittura a un certo punto è diventata anche più importante della musica perché io ho studiato direzione della fotografia. Poi dal punto di vista di formazione è un percorso un po’ strano: ho studiato al Conservatorio, ma non mi sono trovato molto con i percorsi che c’erano, anche se adesso si sta modernizzando; prima non c’era una grande attenzione per la musica per il cinema, anzi la musica per il cinema era vista come una cosa minore, però queste cose stanno cambiando. La mia è stata una formazione molto sul fare: quando ero ragazzino suonavo tanto, a 16 anni suonavo la batteria, la chitarra, suonavo con gente più grande. A venti anni ero già stato in tour in Giappone, negli Stati Uniti con band italiane. Dopo mi sono messo a studiare cose più classiche e lì mi è venuta l’idea di mettermi a fare le colonne sonore. Da bambino mi hanno appassionato la colonna sonora di Blade Runner e quelle di Nicola Piovani. Quando ho iniziato a fare colonne sonore, non ho mai pensato che si dovesse agire soltanto nel confine nazionale, anche perché il confine nazionale è molto stretto, mentre dovremmo ragionare a livello europeo se non di più. A me piace molto sentire lingue differenti, anche se a volte non le capisco, per esempio ho fatto vari lavori in Svezia, sentivo parlare svedese, non sono mai riuscito a capire una parola una! Conosco l’inglese e lo parlo. Dopo aver visto Benigni da Letterman, ho capito che parlare in inglese con delle venature italiane fa sempre piacere a tutti. Sto imparando lo spagnolo, avevo imparato qualche parola di russo, ma non sono poliglotta.
La tua però non è una semplice esterofilia, hai soltanto allargato i tuoi orizzonti professionali.
Automaticamente, dopo aver fatto le prime cose, ho cercato lavoro all’estero. Io ho fatto cortometraggi negli Emirati Arabi, in Germania, in Francia, è davvero tutto molto interessante e stimolante. Penso che viaggiare, che è una cosa che mi piace fare anche per cercare i lavori, apra la mente. Io ho sempre avuto una passione per la Russia, per la letteratura e la musica russa, quindi volevo fare qualcosa lì e sono rimasto in contatto con persone che avevo conosciuto e abbiamo fatto altri lavori insieme. Per questa esperienza, invece, posso dire che la cinematografia messicana ha avuto un grande impatto su di me, a partire da film come Battaglia nel cielo di Carlos Reygadas, che poi ho anche conosciuto, che mi ha dato una grande opportunità, quella di andare a cercare nella cinematografia latino/americana, che è molto coraggiosa.
In Italia hai, comunque, sempre lavorato e di recente hai composto la musica per La profezia dell’Armadillo e per la serie tv Il Cacciatore. Ci sono differenze, però, tra lavorare qui da noi e fuori?
Io in Italia sono stato fortunato perché ho fatto lavori belli, ho conosciuto belle persone, mi è piaciuto  lavorare con Fabio Mollo. Detto questo, in Italia c’è un problema con il lavoro ed è una cosa che sta diventando sempre più lampante. C’è un problema grave, e non solo nel cinema, ma in molte attività lavorative. Ci sono molte categorie che vengono spinte verso il livello di hobby; soprattutto, ci sono problematiche di rispetto del lavoro: è una cosa che si sa, che si vede, il discorso è esteso. Io appartengo alla generazione del 1980/1985 che dicono sia quella devastata, che non abbia speranze, ma credo sia un problema, ormai, intergenerazionale in intere categorie, come gli architetti, i fotografi, ma anche gli avvocati. Si torna al discorso di Tiempo compartido  con il discorso del capitalismo, dell’accumulo, il lavoro viene deprezzato, svalutato, le cose vengono fatte a casaccio, senza cura. Così facendo, la gente appassionata perde la passione e si crea una società arrabbiata, che si muove in maniera mediocre. Poi si trovano i baluardi che resistono, che vogliono fare le cose per bene, io ne conosco tanti che non vogliono perdere la passione. In questo Paese c’è un tentativo moto grave di far perdere alla gente la passione nel fare il proprio lavoro e porla in situazioni complicate da un punto di vista economico. All’estero, in paesi dove la moneta è meno forte dell’euro, comunque sia, il rispetto per il lavoro c’è e i salari in proporzione sono molto alti. Quindi, da noi, da qualche parte, ci deve essere un inghippo. Forse i soldi vengono distribuiti male?
Di chi è la responsabilità?
È una cosa bipartisan! E poi, il senso della sinistra si è perso nel fatto che la sinistra stessa, o meglio persone di sinistra si comportano in una maniera di destra. Lavorare all’estero mi permette di non essere ricattabile e di alimentare la mia passione.
Il tuo discorso è tanto amaro quanto realista purtroppo, e tu per primo, che sei un baluardo, devi fare di tutto per mantenere alta la tua passione. Mi torna in mente quando hai portato Hofmann davanti ai quadri per pensare…In te come nasce poi l’ispirazione?
Dipende anche dal tipo di lavoro. Alcuni film richiedono alla musica una funzionalità, in altri devi fare un’operazione che a me interessa molto, che è quella che mi appassiona di più, ovvero realizzare una sorta di “strato” che può andare a braccetto con la storia o aggiunge qualche cosa alla storia. Per esempio, su “Tiempo compartido” quello che abbiamo fatto dopo aver visto il quadro ed esserci appassionati a questo occhio che vede, è stato pensare ad aggiungere con la musica qualcosa che nel film non c’era. Abbiamo pensato che la musica poteva rappresentare una visione un po’ panteistica, in modo che dalla natura gli umani potessero essere visti e derisi, e anche giudicati. Umani che corrono a destra e a manca, che hanno risparmiato per buttare i soldi in questo posto che è uguale a ovunque e si stanno autodistruggendo.

Via libera a insicurezza, disuguaglianza, repressione: il Senato approva il decreto di Salvini

Scontatissimo via libera del Senato al decreto sicurezza grazie al voto di fiducia. I voti a favore sono stati 163, i no 59. E già sabato prossimo, 10 novembre, un segnale di sfiducia arriverà dal corteo nazionale di Roma contro il razzismo, le disuguglianze e questo decreto liberticida. Ma nella maggioranza il clima non è dei migliori anche per via delle tensioni sul tema della prescrizione, e mentre Palazzo Madama sospendeva il dibattito per stabilire la fiducia, a Montecitorio è stata una convulsa giornata di scontri parlamentari. Tanto che fonti 5S fanno trapelare, magari alzando i toni ad arte, che se la Lega non sarà leale sulla prescrizione, il decreto sicurezza sarà a rischio. Tensione tra Lega e M5s, culminata nella serata di martedì con il fallimento di un vertice a tre tra Conte, Di Maio e Salvini, annunciato da fonti di Palazzo Chigi e poi negato brutalmente dal leader leghista. «Ma quale vertice? Io stasera ho un vertice con rigatoni, ragù e Champions League», ha dichiarato Salvini con il consueto spessore di statista.
Il vicepremier leghista era appena atterrato dal Ghana, probabilmente convinto di poter festeggiare il voto definitivo sul decreto a lui più caro, quello che prevede una stretta significativa sui migranti e una repressione mai vista contro i movimenti sociali, da quelli che rivendicano il diritto all’abitare a quelli che danno vita a forme non violente di conquista della visibilità come i blocchi stradali. Nel decreto, infatti, si ereditano le aspirazioni autoritarie bipartisan di parecchi dei governi che si sono avvicendati nel nuovo secolo. L’idea di trasformare il blocco stradale nel reato di sequestro di persona deriva da una proposta di legge di Stefano Esposito, Pd, uomo bandiera del partito della Tav, ossessionato dal fatto che i suoi concittadini da oltre vent’anni resistono alla devastazione del territorio della Val Susa e alla repressione di quella che chiamano la “procura con l’elmetto”, quella di Torino. Già il suo predecessore Minniti, con il collega Orlando, aveva varato pacchetti sicurezza e immigrazione che servivano anche a limitare la libertà di movimento e l’agibilità politica, ad esempio con i fogli di via preventivi a militanti e sindacalisti, e anche diverse procure negli anni avevano provato a cucire ipotesi di associazione a delinquere contro movimenti che volevano “estorcere” diritti. Il decreto, approvato all’unanimità dal governo, rivendicato da entrambi i colori di questa maggioranza politica, riesce a coronare quel sogno anticostituzionale.
Nel corso della giornata di ieri, per ben due volte, Salvini aveva previsto il via libera ma lo scontro d’Aula, le proteste delle opposizioni, i ritardi della bollinatura del maxiemendamento, e chissà, forse anche le polemiche sulla prescrizione, hanno fatto slittare il voto ad oggi. Ma Salvini festeggia lo stesso: «Con questo decreto si sarà più seri, più europei, più rigorosi e selettivi, per me è motivo di vanto». Per tutta la giornata Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno e braccio destro del ministro, ha seguito con attenzione il complicato iter del provvedimento. Da giorni si parlava di fiducia, strumento largamente abusato da tutti i governi di questo ciclo liberista e iperliberista. I senatori di Forza Italia hanno adottato una forma inedita di protesta: al momento del voto nominale, passando sotto il banco della Presidenza hanno recitato questa formula: «Sono presente ma non voto». I senatori forzisti (come i post-fascisti di Meloni) vogliono così evidenziare il loro dissenso al governo, ma non al decreto che avrebbero approvato, se non ci fosse stata la fiducia. Scontata l’uscita dall’emiciclo dei quattro 5S cosiddetti ribelli.
«Il gruppo di Liberi e Uguali voterà no a questa fiducia chiesta dal Governo – dice in aula la capogruppo di LeU Loredana De Petris nelle dichiarazioni di voto – voi con l’eliminazione della protezione umanitaria, con la riduzione del sistema di accoglienza, con l’induzione alla irregolarità e clandestinità non produrrete più legalità, state spingendo migliaia di persone verso un limbo di illegalità». E denuncia «la violazione sistematica dell’articolo 3 della Costituzione che è l’architrave perché riconosce l’uguaglianza» e anche «l’articolo 10» che conforma l’Italia alle leggi internazionali. Inoltre rivolta alla Lega: «Avete l’interesse personale di voler aumentare le pulsioni antirazziste in questo Paese». «Voterò contro il decreto Salvini e vi spiego brevemente il perché. Dovrebbe risolvere il problema dell’immigrazione, ma lo complica», scrive Pietro Grasso, senatore di LeU, in un post su facebook: «Negare la protezione umanitaria trasformerà decine di migliaia di immigrati regolari in clandestini. Potenzia le forze dell’ordine, ma su giustizia e contrasto alla mafia si fanno passi indietro. Lo scandalo, ad esempio, non è la vendita dei beni confiscati ma che il ricavato non sia interamente destinato a progetti di utilità sociale. E il Senato è ostaggio delle liti della maggioranza».
Nel corso della discussione alla prima Commissione Affari costituzionali, gli emendamenti Anci riguardanti l’immigrazione non sono stati accolti mentre tra gli emendamenti del governo accolti, i comuni segnalano in particolare quello che abolisce di fatto i riferimenti alle linee guida dello Sprar e alla presentazione della domanda di contributo, ridimensionando ulteriormente il Sistema.
«Il rischio è quello che si riduca la qualità degli standard di accoglienza dei progetti Sprar e l’entità del contributo ai progetti, abbassando quindi la quantità di servizi che possono essere offerti ai beneficiari, rischiando di omologare i servizi Sprar a quelli erogati nei Cas».
Ricapitolando i contenuti: si va dall’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari (sostituito da permessi speciali temporanei, prolungati per motivi sanitari) all’allungamento da 3 a 6 mesi del trattenimento nei Centri per i rimpatri; dalla possibilità di trattenere gli stranieri da espellere anche in strutture della pubblica sicurezza, dilatando la possibilità di abusi in divisa, in caso di indisponibilità dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), alla possibilità di revocare la cittadinanza italiana per “terrorismo”. Nel maxiemendamento che ha sostituito il testo ci sono novità tra l’altro sulla videosorveglianza, gli sgomberi degli immobili occupati abusivamente, il Fondo per la sicurezza urbana, l’utilizzo dei droni. Il procuratore antimafia userà la polizia penitenziarie per raccogliere informazioni nelle carceri. Ma il fulcro è sui richiedenti asilo: per quelli che compiono gravi reati è prevista la sospensione dell’esame della domanda di protezione ed è possibile l’obbligo di lasciare il territorio nazionale. In caso di condanna in primo grado è previsto che il questore ne dia tempestiva comunicazione alla Commissione territoriale competente, «che provvede nell’immediatezza all’audizione dell’interessato e adotta contestuale decisione». Il decreto riserva esclusivamente ai titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati i progetti di integrazione ed inclusione sociale previsti dallo Sprar (Sistema protezione e richiedenti asilo e rifugiati). Questi ultimi, la cosiddetta accoglienza diffusa nei Comuni, sono ridimensionati. I richiedenti asilo troveranno invece accoglienza nei Cara. Ci sono poi tutta una serie di altre misure, dal taser (la pistola elettrica) anche ai vigili urbani alla stretta sui noleggi di auto e furgoni per evitare che vengano usati dai jihadisti contro la folla, come avvenuto a Nizza, Londra e Berlino. Inoltre un Daspo urbano più severo. Si stanziano quasi 360 milioni fino al 2025 per «contingenti e straordinarie esigenze» di Polizia e Vigili del fuoco «per l’acquisto e potenziamento dei sistemi informativi per il contrasto del terrorismo internazionale», compreso il rafforzamento dei nuclei Nbcr (nucleare, biologico, chimico e radiologico). Dei 360 milioni, 267 sono per la pubblica sicurezza e 92 per i pompieri. I Comuni con più di 100 mila abitanti potranno dotare 2 poliziotti municipali di taser in via sperimentale per un periodo di sei mesi. I poliziotti locali, inoltre, se «addetti ai servizi di polizia stradale» e «in possesso della qualifica di agente di pubblica sicurezza» possono accedere al Centro elaborazione dati (Ced) delle forze di polizia. Il decreto amplia le zone dove può scattare il Daspo urbano, includendo i «presidi sanitari», le zone di particolare interessere turistico, le «aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati pubblici spettacoli». Previsti anche il Daspo per coloro che sono indiziati per reati di terrorismo e una stretta sulle occupazioni. I blocchi stradali tornano ad essere sanzionati penalmente e non più in via amministrativa. E ancora, l’utilizzo del braccialetto elettronico sarà possibile anche nei confronti degli imputati dei reati di maltrattamento in famiglia e stalking. Infine il potenziamento dell’Agenzia per i beni confiscati. Il provvedimento ne consente la svendita, col rischio che tornino alle cosche, estende di ulteriori 70 unità la pianta organica dell’agenzia ed individua le aziende confiscate «di rilevante interesse socio-economico» che necessitano di supporto per il proseguimento dell’attività.

Midterm, la Camera ai democratici. Forte affermazione delle donne

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Alle elezioni di Midterm negli Usa i repubblicani hanno mantenuto la maggioranza al Senato, mentre i democratici hanno preso la Camera dei rappresentanti. Non erano stati nella maggioranza per otto anni. La sfida non era troppo dura per il campo dei democratici: avrebbero dovuto prendere solo 23 seggi rispetto a quelli che avevano (su 435 in totale). Per un totale di centocinquanta anni, il partito al governo alla Casa Bianca perde sistematicamente posti nel Congresso.

Visto come un referendum a medio termine della presidenza di Donald Trump, questi midterms, in cui gli americani hanno votato per rinnovare l’intera Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato, danno alla luce un “risultato ambiguo, ma non atipico “, afferma Andrew Busch, professore di scienze politiche e governo presso la Claremont McKenna University in California, uno specialista del ballottaggio. I sondaggisti, a differenza delle elezioni presidenziali del 2016, hanno predetto in modo abbastanza preciso questo risultato. Nessuna “ondata blu” contro Donald Trump auspicata dall’opposizione, che i media annunciavano già la scorsa estate.

Come osserva lo scrittore e attivista per i diritti civili Shaun King, il risultato delle elezioni di Midterm non è “un chiaro rifiuto di Donald Trump”. Con il suo leggendario senso delle “sfumature”, il presidente americano, investito molto in questa campagna, ha persino salutato in tarda serata come un “enorme successo”.

Nelle elezioni di Midterm, le donne guidano la carica
A 29 anni, Alexandria Ocasio-Cortez diventa la più giovane eletta al Congresso della storia americana. L’attivista, ex volontaria della campagna di Bernie Sanders, rappresenterà il 14 ° distretto di New York, Bronx e Queens. Oltre alla sua giovane età, Ocasio-Cortez ha attirato l’attenzione sulla sua campagna e la sua appartenenza a Democratic Socialist of America (Dsa). Chiede un’assicurazione sanitaria universale, un salario minimo di 15 dollari (13,10 euro) , considera il diritto alla casa un diritto fondamentale.

Una avvocata dem del Michigan Rashida Tlaib è diventata la prima donna musulmana eletta al Congresso degli Stati Uniti a Washington. Nella tredicesima circoscrizione molto democratica del Michigan, che comprende una parte di Detroit e dei suoi sobborghi, la vittoria di Rashida Tlaib era prevista: i candidati repubblicani sono impalliditi  di fronte a lei. A 42 anni, Tlaib, figlia di immigrati palestinesi, succede al deputato democratico John Conyers, costretto a dimettersi dopo accuse di molestie sessuali. Componente del Dsa, il principale gruppo socialista negli Stati Uniti chiede la riforma dell’immigrazione, l’assicurazione sanitaria universale, un salario minimo di15 dollari l’ora e università pubbliche gratuite.

Un altra deputata musulmana entrerà anche nella Camera dei rappresentanti per il 5 ° distretto del Minnesota. Ilhan Omar, 36 anni, nata a Mogadiscio ed è arrivata negli Stati Uniti come rifugiata, aveva già bucato le cronache, diventando la prima musulmana americana di origine somala eletta alla Camera dei rappresentanti del Minnesota nel 2016. Ora è la prima nel Congresso degli Stati Uniti. Sharice Davids e Debra Haaland, invece, sono le prime donne amerindie alla Camera

Sfidando il repubblicano in carica Kevin Yoder nel terzo collegio elettorale del Kansas, Sharice Davids ha avuto un ruolo cruciale per i democratici nella conquista della Camera. Ha anche scritto una doppia pagina di storia, diventando la prima nativa americano e la prima lesbica eletta al Congresso.