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Temono i libri come l’aglio. Sono vampiri

I libri puzzano per i prepotenti. Collane di libri che spaventano, inorridiscono e spingono i potenti di turno a controbattere mica con la parola, i fatti o i pensieri ma affidandosi alle reazioni scomposte di chi non ha nemmeno il vocabolario della dignità. In fondo si potrebbe dire che è un bel momento per la letteratura italiana, benché questi odino la cultura come i vampiri una giornata di sole. Del resto anche questi vivono solo del sangue degli altri, incapaci di coagulare pensieri.

Accade che il ministro dell’interno, per l’ennesima volta, aizzi la sua ciurma sguaiata contro una scrittrice (Michela Murgia) colpevole di scrivere di un preoccupante ritorno del fascismo (nei modi e nei pensieri addirittura più che nei simboli) nel suo ultimo libro. L’ha sempre fatto: il suo goffo tentativo di additare la cultura e l’intelligenza come nemici del popolo è un volo su cui si lancia quasi quotidianamente, librando convinto di essere un falco in difesa della Patria e risultando sempre come un panciuto pollo convinto di volare. Questa volta però Salvini riesce a occuparsi di Michela Murgia nel bel mezzo dell’Italia martoriata dal dissesto idrogeologico e nel bel mezzo delle 48 ore che hanno visto ben 6 donne uccise, sequestrate e torturate dai loro compagni e dagli ex (sempre a proposito dell’uso pornografico del femminicidio solo quando torna utile). Le notizie che contano scompaiono e l’orda incattivita ha potuto sfogarsi contro la scrittrice di turno. Non è un caso che poco dopo il ministro dell’interno invece rilanci il profondo pensiero di Facchinetti che accusa il buonismo di avere cancellato in Italia il senso del rispetto. Tutto secondo copione: leggere costa fatica e richiede di fare i conti anche con se stessi quindi meglio un bel video di qualche secondo di un cantante (cantante?) che spiccia qualche luogo comune a mo’ di spot.

Ieri invece è successo che il giornalista Paolo Borrometi sia stato accusato di rimestare nel fango per avere pubblicato una foto del sindaco di Noto che si intrattiene con il boss di Noto Rino Albergo. Il circolo cittadino del Pd ha emesso un (pessimo) comunicato in cui accusa Borrometi di pubblicizzare il suo libro “deformando la realtà”. Risposte nel merito: nessuna. Il solito attacco frontale, questa volta semplicemente travestito da vittimismo, senza le faccine sorridenti e bacini di quell’altro. Nessuna risposta in merito al mafioso Giuseppe Crispino che finanziò la campagna elettorale del sindaco con un bel bonifico recapitato al suo autista, ad esempio.

E sono solo due esempi recenti di chi sa usare i libri solo come oggetti contundenti contro coloro che li hanno scritti, incapaci di aprirli, di leggerli, di contestarli nel merito con un ragionamento strutturato (non si richiede un contro-libro ma almeno un’accozzaglia di frasi che sostengano una parvenza di tesi personale) e così alla fine ne diventano involontari testimonial.

E ha ragione Michela Murgia quando scrive “sono lieta di vivere ancora in un tempo in cui un intellettuale può dar fastidio a un manovratore”: è una bellissima notizia che i libri funzionino ancora e chissà che un giorno prima o poi (perché la ruota gira eccome se gira) non torni di moda la serietà e allora questi finiranno sbriciolati senza nessun bisogno di un palo appuntito conficcato nel cuore. E chissà come ci rimarranno di stucco scoprendo che gli elettori sono volatili, i lettori no.

Buon mercoledì.

De Magistris: Apriamo un fronte a sinistra contro euroburocrati e razzisti

Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris intervenuto, a margine di una conferenza stampa, sulla mancata precisione della Protezione Civile per quato riguarda le allerte meteo, 22 ottobre 2018 ANSA / CIRO FUSCO

Chiamiamolo, per ora, “fronte popolare democratico” adoperando le parole con cui Luigi De Magistris si rivolge a movimenti, società civile e mondi della sinistra nella prospettiva delle prossime elezioni europee. Si tratta di quella mossa che il sindaco di Napoli e presidente di DemA ha iniziato a studiare all’inizio dell’estate con una serie di incontri a cui avevamo dato il nome provvisorio – e nemmeno così entusiasmante – di quarto polo e che, prima di essere ufficializzata, ha già incassato l’attenzione da parte dei “parlamentini” di Rifondazione e Sinistra italiana. Con un appello pubblico, dunque, De Magistris annuncia: «È giunta l’ora della costruzione di un fronte popolare democratico senza confini politici predeterminati, senza recinti tradizionali. Non è un quarto polo, non si deve ricostruire il collage delle fotografie già viste e sconfitte. È il luogo questo in cui l’ingresso è vietato solo a mafiosi, corrotti, corruttori, fascisti e razzisti. Per il resto è vietato vietare».

La novità potrebbe consistere nell’apertura a un campo largo per non somigliare all’ennesima sommatoria di sigle, una sorta di lista civica e di movimento, caratterizzata a sinistra, europeista ma non nel senso che Macron e Renzi attribuiscono a quella parola. «Persone che ogni giorno sono in lotta per i diritti, che lottano per la difesa dei territori dalle distruzioni ambientali e dalle opere pubbliche dannose, che resistono contro le organizzazioni criminali e contro le mafie di Stato. Organizzazioni di base, associazioni, comitati, movimenti, militanti politici, sindaci, amministratori, eletti dal popolo che provano ogni giorno, pagando anche sulla propria pelle il prezzo di ogni forma di violenza, da quella fisica a quella istituzionale, a rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione dell’uguaglianza e della giustizia» si legge nell’appello.

«Siamo per un’Europa dei diritti e dei popoli, per fermare l’Europa dei fascismi, degli egoismi, delle mura e del filo spinato, per cambiare anche l’Europa delle oligarchie e delle tecnocrazie». De Magistris dà appuntamento a sabato 1 dicembre al teatro Italia a Roma per un incontro nazionale. «Per costruire una coalizione pronta per ogni sfida per realizzare libertà, uguaglianza, solidarietà e giustizia. Da qui si parte uniti per un lungo viaggio per consolidare la resistenza e per organizzare il contrattacco», conclude il sindaco di Napoli che proprio quel giorno dirà se sarà candidato in prima persona, «ma è certo che non lascerò il ruolo di sindaco. Per dire se demA ci sarà bisogna sciogliere molti nodi e se anche soltanto uno di questi nodi non si dovesse sciogliere, noi non ci saremo – precisa – le condizioni che mettiamo per esserci sono molto alte, non ci piacciono volti già visti, persone che hanno tradito, non ci interessa creare un quarto polo della sinistra. Parliamo a tutti quelli che hanno la voglia di lottare non più solo per difendere la Costituzione, ma per attuarla e per dimostrare che il laboratorio Napoli può essere un punto di riferimento per il nostro Paese e per la nostra Europa».

«C’è uno spazio enorme in questo momento in Italia soprattutto in vista delle europee», commenta a caldo la consigliere comunale di demA a Napoli, Eleonora De Majo, a margine dell’evento “Municipalise Europe!”. Si proverà a partire «dalla crisi dei partiti», spiega De Majo, evitando «la riproposizione del classico ceto della sinistra che è più volte fallita nel nostro Paese. Se fotografi le amministrative italiane degli ultimi tre anni scoprirai che in tutte le città medie e grandi ci sono stati esperimenti di coalizioni, liste civiche, tentativi di costruire delle piattaforme di partecipazione che hanno sempre preso risultati elettorali rilevanti». Si punta perciò a «un’alleanza delle città e degli attivisti», partendo «da Molfetta e Padova, passando per Bologna, con le città che governano – Napoli tra queste – tra le protagoniste».

Con l’occasione De Magistris rassicura anche sullo stato di salute della sua maggioranza: «La maggioranza è robusta e si farà trovare pronta agli appuntamenti più importanti in cui sono assolutamente fiducioso che scriveremo un’altra grande pagina per la nostra città». Tutto ciò all’indomani della mancata seduta di Consiglio comunale che non si è potuta svolgere per la mancanza del numero legale causata dall’assenza di diversi gruppi di maggioranza. Gli appuntamenti a cui fa riferimento il sindaco sono le sedute di Consiglio del 28, 29 e 30 novembre in cui saranno in discussione il nuovo piano di riequilibrio economico e finanziario e la manovra di consolidamento dei conti. «Ci stiamo preparando bene – ha sottolineato de Magistris – e in questi giorni è in atto il secondo tempo che segue i cambiamenti in Giunta. Stiamo lavorando per costruire una maggioranza anche più forte e ho grande fiducia nei nostri consiglieri che vogliono partecipare a questa fase di consolidamento della maggioranza e dell’azione politica e amministrativa della città. Sono assolutamente tranquillo e sereno».

Chi sono i migranti che Trump strumentalizza per le elezioni di Midterm

epa07143080 Groups of migrants at the sports club Jesus Martinez Palillo, in Mexico City, Mexico, 05 November 2018. The caravan of Central Americans who entered Mexican territory on October 19 regroups in Mexico City during the following days to decide whether to continue to the United States or make another decision, reported Catholic priest and Mexican activist Alejandro Solalinde. EPA/Jose Mendez

Trump, in vista delle elezioni Midterm del 6 novembre, ha lanciato l’operazione Faithful Patriot per militarizzare il confine con oltre 7000 soldati, per impedire l’”invasione” del gruppo di migranti in arrivo dal Centroamerica diffondendo l’idea che tra di loro vi siano membri di gang e terroristi.

Ma al di là dell’apparente emergenza, questo movimento ha la forza di portare alla luce quella che Medici senza frontiere chiama una “crisi umanitaria dimenticata” e che vede mezzo milione di persone ogni anno tentare di attraversare il corridoio centroamericano, esponendosi a gravissimi rischi di violenza sessuale, traffico umano, estorsione.

Il viaggio della carovana è cominciato il 13 ottobre scorso in Honduras, quando 160 persone si sono radunate nella città di San Pedro Sula. Grazie al passaparola sono rapidamente decuplicate, riuscendo ad attraversare il Guatemala. Questo movimento ha continuato a richiamare persone, e in circa 7500 hanno raggiunto il Messico, sfidando le cariche di polizia e i gas lacrimogeni o tentato la sorte attraversando a nuoto o su zattere improvvisate il fiume Suchiate. Si è aggiunta poi una seconda carovana di circa 2000 persone, formatasi in Guatemala sulla scia della prima, accalcandosi alla frontiera ormai blindata, dove un ventiseienne è morto negli scontri con la polizia. La carovana prosegue ed è assistita da un ponte umanitario per cibo, acqua e assistenza sanitaria nel suo cammino fino a Città del Messico.

I motivi di tanta determinazione da parte dei migranti si possono cercare a partire dal golpe militare del 2009 che destituì il presidente Manuel Zelaya. L’intervento militare seguì alla proposta di un referendum per la convocazione di una assemblea costituente, che avrebbe potuto tra l’altro rimuovere l’articolo della costituzione che impedisce ai candidati premier di concorrere ad un secondo mandato. I suoi oppositori giustificarono il golpe instillando la paura che questi volesse rimanere al potere indefinitamente. Ma proprio uno di loro, Juan Orlando Hernández, è paradossalmente riuscito a candidarsi ad un secondo mandato dopo una sentenza della Corte Suprema che sanciva l’inapplicabilità dell’apposito articolo della costituzione perché ne avrebbe violato i diritti umani. JOH è stato quindi rieletto nel novembre 2017 a seguito di uno scrutinio opaco, che ha visto i risultati repentinamente ribaltarsi a suo favore dopo una interruzione nella diffusione dei risultati. Ma i risultati sono poi stati convalidati, il governo riconosciuto, le ribellioni represse.

Nel 2012 l’Honduras è diventato il Paese col più alto tasso di omicidi tra quelli non in guerra. Più che ai narcos, che silentemente trasportano attraverso il Centroamerica il 90% della cocaina diretta negli Stati Uniti, l’alto tasso di violenza è da attribuire alle maras. Nate come bande giovanili ad azione microterritoriale, negli anni 80 si sono strutturate in modo gerarchico e militarizzato in California, nelle comunità marginalizzate degli esuli centroamericani in fuga dalle guerre civili e dai regimi militari.  Negli anni 90, a seguito della severa politica di rimpatri del governo Clinton, le loro strutture si sono trasferite in Honduras, Guatemala ed El Salvador, dove controllano le città a blocchi, fornendo assassini a contratto per i narcos, gestendo l’estorsione e imponendo tasse di guerra alla popolazione per sostenere i regolamenti di conti.

Secondo la banca mondiale, l’Honduras è il Paese col più alto tasso di diseguaglianze economiche nella popolazione, che per il 61% vive in povertà. Nel 2006 è entrato in vigore il Cafta, l’accordo centroamericano per il libero scambio, con la promessa di creare lavoro e stabilizzare le democrazie centroamericane. Per suo effetto, l’Honduras è passato dall’essere un esportatore di prodotti agricoli a dipendere dalle importazioni, e allo sfruttamento di manodopera a basso costo nelle maquilas che si stima per il 60% non rispettino i vincoli sul salario minimo. Lo sbilanciamento economico conseguente ha contribuito a generare il “libero” passaggio delle persone: si stima che un milione di honduregni (su una popolazione di 9) viva negli Stati Uniti contribuendo sostanzialmente all’economia locale inviando dall’estero soldi per il 19% del Pil nazionale.

Capita di sentirsi dire, a San Pedro Sula, che la cosa più bella della città è il mall. Porto sicuro, con sorveglianza armata, pulito e decoroso, al suo interno si trovano le catene di fast food, una promessa di benessere e sicurezza, che stride come un corpo estraneo con il contesto circostante. La reazione violenta che la carovana ha suscitato è cieca dinanzi alle cause profonde e non potrà impedire che le persone si muovano alla ricerca di un vagheggiato ideale gringo che è imposto come l’unico possibile.

Ici non pagata dalla Chiesa, la Corte di giustizia Ue condanna l’Italia: deve recuperarla

Lo Stato italiano deve recuperare l’Ici non pagata dalla Chiesa e dal no profit: è quanto hanno stabilito i giudici della Corte di giustizia dell’Unione europea, annullando la decisione della Commissione del 2012 e la sentenza del Tribunale Ue del 2016 che avevano sancito “l’impossibilità di recupero dell’aiuto a causa di difficoltà organizzative” nei confronti degli enti non commerciali, come scuole, cliniche e alberghi. I giudici hanno ritenuto che tali circostanze costituiscano mere «difficoltà interne all’Italia». Respinto invece ricorso sull’Imu.

Il ricorso accolto dalla Corte di giustizia, si legge sull’Ansa, è stato promosso dalla scuola elementare Montessori di Roma contro la sentenza del Tribunale Ue del 15 settembre 2016 che in primo grado aveva ritenuto legittima la decisione di non recupero della Commissione europea nei confronti di tutti gli enti non commerciali, sia religiosi sia no profit, di una cifra che, secondo stime dell’Anci, si aggira intorno ai 4-5 miliardi. La Commissione, prosegue la nota, aveva infatti riconosciuto all’Italia l’«assoluta impossibilità» di recuperare le tasse non versate nel periodo 2006-2011 dato che sarebbe stato «oggettivamente» impossibile sulla base dei dati catastali e delle banche fiscali, calcolare retroattivamente il tipo d’attività (economica o non economica) svolta negli immobili di proprietà degli enti non commerciali, e calcolare l’importo da recuperare.

Il primo ricorso contro l’esenzione Ici fu presentato nel 2006 da Maurizio Turco, ex deputato europeo e oggi coordinatore della presidenza del Partito Radicale insieme al fiscalista Carlo Pontesilli. «Non abbiamo nulla contro la Chiesa e questa non è una battaglia ideologica» spiega Pontesilli. «Il nostro interesse è quello della collettività, della parità di trattamento per tutti: tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, anche quella tributaria». Considerando che la sentenza Corte Ue ha implicitamente cancellato la prescrizione relativa agli anni del ricorso (2006-2011), in ballo secondo il fiscalista ci sono circa 14 miliardi di euro. Cioè le somme dovute dal 1992 in poi, anno dell’istituzione dell’Ici.

La Montessori, sostenuta dai Radicali, nell’aprile 2013 fece ricorso contro la Commissione, ma nel 2016 il Tribunale Ue confermò appunto l’impossibilità di recuperare quanto dovuto. La Corte di giustizia, pronunciatasi in Grande Chambre, ha invece annullato sia la decisione della Commissione europea che la sentenza del Tribunale Ue, spiegando che tali circostanze costituiscono mere «difficoltà interne» all’Italia, «esclusivamente ad essa imputabili», non idonee a giustificare l’emanazione di una decisione di non recupero. La Commissione europea, si legge nella sentenza, «avrebbe dovuto esaminare nel dettaglio l’esistenza di modalità alternative volte a consentire il recupero, anche soltanto parziale, delle somme». Inoltre, ha ricordato che i ricorrenti erano situati «in prossimità immediata di enti ecclesiastici o religiosi che esercitavano attività analoghe» e dunque l’esenzione Ici li poneva «in una situazione concorrenziale sfavorevole (..) e falsata». La Corte di giustizia ha ritenuto invece legittime le esenzioni dall’Imu, l’imposta succeduta all’Ici, introdotte dal governo Monti, anch’esse oggetto di contestazione da parte dei ricorrenti.

Sono anni che a Reggio Emilia sono ostaggi della ‘ndrangheta

Certo è spettacolare la presa in ostaggio dentro un ufficio postale: ha tutte le caratteristiche per meritarsi una diretta a reti quasi unificate, squarciare l’impaginazione compita di tutti i quotidiani e contemporaneamente alimenta anche la fame di clic. Tutto perfettamente cinematografico, roba da film: il cattivo che fa il cattivo, innocenti persone travolte dalla follia, le telecamere ben appostate e tutto il resto.

Eppure, c’è da scommetterci, a mamma ‘ndrangheta il gesto di Francesco Amato non avrà sicuramente fatto piacere: anni e anni passati a sommergersi, tutto questo tempo per normalizzare (con tragico successo) la propria presenza sul territorio, un gran daffare per riuscire a fare passare quasi indisturbato un processo che avrebbe dovuto essere uno spartiacque per la consapevolezza della criminalità organizzata al Nord e poi arriva quello schifoso di Francesco Amato che rovina tutto.

Così magari ora qualcuno (anche tra i formidabili ministri) si accorgerà che dopo due anni di udienze si è concluso in primo grado un processo che ha visto 224 indagati, 160 arrestati di cui 117 in Emilia Romagna (dove la mafia non esisteva, ovviamente, per diverse parti politiche), e 54 presunti mafiosi. La sentenza di rito abbreviato aveva condannato già 40 persone mentre quella di quattro giorni fa registra 118 condanne per oltre 1200 anni di carcere. Un maxiprocesso vero e proprio che ha certificato una volta per tutte che non è vero (come si affrettarono a dire in molti, tra politici, imprenditori e associazioni di categoria) che in Emilia Romagna esistano fenomeni mafiosi ma piuttosto che esiste un vero e proprio sistema che opera al Nord esattamente come al sud, coinvolgendo la massoneria, pezzi di magistratura, professionisti, mass media, amministratori, pezzi di Chiesa. C’è la struttura gerarchica con un vero e proprio direttorio (Diletto Alfonso a Brescello, Sarcone Nicolino a Reggio Emilia, Lamanna Francesco a Mantova e Cremona, Villirillo Antonio sostituito poi da Gualtieri Antonio a Parma e a Piacenza e Bolognino Michele a Modena), ci sono gli imprenditori (quelli che avrebbero voluto passare per onesti lavoratori del nord e invece bussavano alla porta della mafia per ottenere liquidità e recupero crediti) e poi c’è la sottovalutazione generale, la minimizzazione di questi mesi e i soliti canoni dell’indifferenza che tornano sempre comodi alle mafie. Volendo esagerare c’è anche il campione del mondo: Vincenzo Iaquinta è stato condannato a due anni per porto abusivo d’armi e suo padre di anni se n’è presi 19 con l’aggravante mafiosa.

Eppure il ministro Salvini, sì, sempre lui, sul processo Aemilia non ha trovato il tempo di fare un misero tweet. Ci dice che gli fa schifo la mafia ogni volta che arrestano un pesce (anche piccolo) nel profondo sud ma non trova mai slancio per parlare di mafia al nord. Mai. E poi c’è la curiosità: ma se Francesco Amato vuole parlare (proprio come nei film) con qualcuno dei capi poiché è convinto di avere ricevuto una condanna ingiusta perché non chiede del ministro alla Giustizia? Perché, se vuole parlare con un capo di governo, non chiede del presidente del consiglio Conte o del presidente Mattarella? Perché è tutto un continuo, lurido, film.

E invece la lotta alle mafie ha bisogno di studio senza proclami, di consapevolezza sociale prima che politica, di una cultura che non scelga di premiare i furbi e i prepotenti, di leggi ben fatte e di un’informazione che analizzi più che inseguire il clamore. Si scoprirebbe che in Emilia Romagna (come in ogni regione di ogni angolo di Italia) sono ostaggi della ‘ndrangheta da un bel po’. Mica solo nell’ufficio postale.

Buon martedì.

 

 

Come può rinascere un paese ex minerario in Sardegna: Fluminimaggiore sceglie cultura e welfare

Più che un ritorno a casa è “una finestra sul mondo”. Perché, spenti i riflettori che l’industria mineraria (all’avanguardia per tecnologia ma anche partecipazione politico sindacale negli anni 50 e 60) ha tenuto accesi sino alla chiusura, a Fluminimaggiore nell’Iglesiente, sono rimasti ricordi. In mezzo qualche timido tentativo per risollevare il paese destinato allo spopolamento. Marco Corrias ha deciso di provare ad aprire quella finestra. Dagli studi televisivi del Tg5 dove è stato capo redattore, oltre che inviato di Terra! (nel curriculum ci sono anche La Nuova Sardegna, Repubblica e Epoca) ha deciso di impegnarsi in prima persona e offrire una seconda chance al suo paese. Fluminimaggiore, 3mila abitanti a 25 chilometri di tornanti da Iglesias, nella Sardegna sud occidentale. Centro ex minerario immerso nel verde della macchia mediterranea a pochi chilometri dal mare, ricco di sorgenti e terreni fertili e un tempo di campi coltivati a mandorlo sardo , oltre che palestra attiva per attività politica e sindacale. «Nel periodo d’oro il partito comunista poteva contare sul sostegno di 500 tesserati, molti altri erano tesserati alla Dc e al Psi». L’altra faccia della politica era poi rappresentata dalle attività culturali. Come i murales che ancora oggi si possono trovare sui muri delle case e degli edifici pubblici. Alcuni sono stati restaurati altri realizzati ex novo da gruppi di artisti e giovani, seguendo il solco della tradizione lanciata dagli Imbrachinadoris. A giugno Marco Corrias (in pensione da qualche anno e «poca voglia di continuare la professione con altre formule») è diventato sindaco con il 62 per cento e con una squadra “che ha la voglia di guardare oltre”. «Sia chiaro non è un ritorno a casa perché a Flumini ci sono sempre tornato. Diciamo che è un impegno per ridare fiducia a un luogo che in passato ha visto benessere, cultura e partecipazione, ma che oggi sembra quasi destinato alla depressione».

Una immagine del museo di Su Zurfuru 

Nessuna retorica e neppure ruoli da primadonna. La parola d’ordine è quella di fare squadra, «un po’ come avviene nella fattura di un telegiornale o di un giornale. Ogni consigliere della maggioranza, oltre ai quattro assessori, ha un compito preciso e deve lavorare facendo gioco di squadra». Con tutto il paese impegnato giacché la parola condivisione e interazione sono diventate elemento necessario per governare. Punto di partenza la chat con gli abitanti. «È stata aperta durante la campagna elettorale, quando ho presentato il progetto. È stata utilizzata sino alle elezioni e poi è rimasta attiva, con trecento iscritti. È la bussola quotidiana». Un filo diretto con i cittadini in cui si segnalano alberi che cadono, buche nelle strade, disservizi. «Ci sono lamentele e suggerimenti. Diciamo pure che è un modo per rimanere collegati con gli abitanti. E capire, anche dalle lamentele, come si sta governando. Certo si può rimanere male quando a fine giornata , dopo che hai seguito mille cose e risolto parecchi problemi, leggi che c’è qualcuno che si lamenta. Ma fa parte del gioco». Il primo passo di un cammino che vuole valorizzare le ricchezze locali, molte delle quali lasciate in eredità dalle società minerarie. Una su tutte Arenas, villaggio ex minerario completamente ristrutturato e dove sarà allestita anche una stazione del cammino minerario di Santa Barbara e che il Comune vuole trasformare in area turistico ricettiva. Primo appuntamento l’apertura e l’organizzazione di eventi e manifestazioni per animare il vecchio villaggio. «Si tratta di un patrimonio importantissimo che non possiamo abbandonare. Il villaggio è stato ristrutturato e può essere utilizzato, si tratta di dare gambe alle idee». Oppure la miniera museo di Su Zurfuru all’ingresso del paese e visitata da centinaia di turisti ogni settimana e per cui l’amministrazione, di concerto con l’associazione che gestisce la struttura ha in programma eventi e manifestazioni culturali. «L’obiettivo è fare rete, sistema, mettere tutti assieme per studiare e trovare soluzioni. Anzi più che rete, comunità». Proprio attorno all’idea di comunità nasce la proposta appena lanciata: una coop di comunità per trasformare il paese in una grande casa di riposo diffusa per turisti benestanti. «L’idea è quella di coinvolgere i proprietari delle case e tutti gli abitanti interessati. Dagli artigiani agli operatori sociali, continuando con coloro che offrono servizi. Naturalmente l’intenzione è andare oltre la tradizionale casa di riposo». Piccoli alloggi, nelle seconde case, per nuclei di due, tre o quattro persone e una rete di servizi gestita dalla coop di comunità. «Ci stiamo lavorando. Si parte dal censimento delle seconde case e dalle attività produttive e di servizi presenti. Poi si decide». Senza poi dimenticare l’acqua e le numerose sorgenti presenti in paese. «Stiamo studiando il modo per trovare una formula di gestione condivisa con tutti gli abitanti. Anche in questo caso l’idea è di una cooperativa comunitaria o una formula che metta assieme pubblico in modo che ci sia una responsabilizzazione e un coinvolgimento di tutti gli abitanti». Partecipazione e lungimiranza. Per ripartire da Fluminimaggiore.

Arena di Verona e Lirico di Cagliari, fanno pagare i buchi di bilancio ai lavoratori

“La lirica è un vanto per il nostro Paese, qualcosa che dobbiamo preservare e aiutare a raggiungere livelli di qualità ottimi e rendere più possibile accessibile a un vasto numero di persone”. In un video, prima della metà di ottobre, il ministro Bonisoli ha cercato di rassicurare il mondo della lirica, dopo il taglio dei contributi Fus 2018, in coincidenza con tante criticità. Già, le criticità, quelle ormai sclerotizzate alle quali se ne aggiungono di nuove. Quasi incredibili, come quelle che hanno come protagonisti i lavoratori dell’Arena di Verona e del Lirico di Cagliari. Protagonisti, loro malgrado.
I rispettivi Consigli d’indirizzo hanno dato mandato ai soprintendenti “affinché provvedano con urgenza… ad inviare a chiunque abbia percepito anticipazioni sui futuri miglioramenti…una lettera con specificata e motivata richiesta di restituzione delle somme pagate dalla Fondazione a titolo di anticipazione sui futuri miglioramenti economici con assegnazioni di termine di 60 giorni”. Insomma, a causa di ‘buchi’ nei bilanci, si chiedono indietro i premi aggiuntivi corrisposti ai lavoratori. A tutti, senza distinzione, sia al personale dipendente a tempo determinato che a quello a tempo indeterminato, “siano essi tuttora dipendenti della Fondazione o il cui rapporto di lavoro sia cessato”. Duecentocinquanta che arrivano a un migliaio con gli aggiunti stagionali, quelli di Fondazione Verona. Duetotrentaquattro in pianta organica ai quali aggiungere gli stagionali a Cagliari.
Soluzioni alternative al pagamento non sono contemplate. I Consigli d’indirizzo decisi. Al punto da “dare mandato al Soprintendente di procedere, secondo le modalità di legge, comprese quelle giudiziali, al recupero di quanto indebitamente erogato, eventualmente, de del caso, anche mediante compensazione, qualora i dipendenti vantassero crediti maturati o maturandi nei confronti dell’Ente”.
Cambiano alcuni dati cronologici tra le due vicende. Così il periodo nel quale sarebbero state erogate “impropriamente” le anticipazioni è compreso tra maggio 2008 e dicembre 2011 per il Lirico di Cagliari e tra il 2014 e il 2015 per l’Arena di Verona. Così muta anche la notifica da parte dei due Consigli d’indirizzo. Il 22 settembre per quello di Cagliari, il 4 ottobre per quello di Verona. Diverse le cifre. Per Cagliari 2.846. 242 euro, che compaiono nelle attività dello stato patrimoniale del bilancio consuntivo 2017, 3.225.315, 24 euro per Verona. Cambiano le modalità con le quali sono state erogate le cifre contestate. In una unica tranche, annuale, a Verona, mensilmente a Cagliari.
Variabile la motivazione, soprattutto. A Verona i premi sono stati erogati in assenza di pareggio di bilancio. Condizione imprescindibile per accedere alle somme aggiuntive. Meglio, sembrava che ci fosse il pareggio, ma in realtà non c’era. A Cagliari la gestione del tempo ha stabilito di erogare le somme in vista di un riassorbimento con il rinnovo del contratto nazionale di lavoro. Insomma un “accordo sui futuri miglioramenti”.
Così, dopo che la Ragioneria dello Stato ha notificato alle rispettive Fondazioni la necessità di restituire le somme dovute, i Consigli d’Indirizzo hanno provveduto ad inoltrare la notizia.
“Siamo sotto choc per una notizia assolutamente inaspettata, un fulmine a ciel sereno che ci cade addosso”, ha detto a L’Arena di Verona Elena Mazzoni, sindacalista della Fistel Cisl. Insomma una notizia ferale per lavoratori già in sofferenza. Si stima che i lavoratori dell’Arena siano chiamati alla restituzione di una cifra compresa tra i 5 e i 6 mila euro, che raggiunge gli 8-9 mila euro per quelli del Lirico di Cagliari.
A Verona, l’attività a settembre e ottobre è sospesa da tre anni e anche questa volta la cassa integrazione non arriverà prima della prossima primavera. Anche per questo i lavoratori dal 16 ottobre occupano la sala Fagiuoli della sede della Fondazione. Un centinaio tra artisti, tecnici, membri dell’orchestra, sarte e qualche amministrativo protestano. “Rispetto all’occupazione di tre anni fa oggi c’è molta più disperazione e meno rabbia. Siamo stanchi, perché nonostante le proteste in questi anni le cose sono peggiorate e del nostro futuro non sappiamo nulla”, ha raccontato a Verona-In.it, Elena Grassia una delle coriste. “La situazione della restituzione dei premi erogati si fa anche paradossale perché ci sono persone andate in pensione e altre defunte, di cui adesso dovrebbe essere la famiglia a rispondere”, ha spiegato Giuseppe Martinelli, anche lui corista. Senza contare che “noi su quei soldi abbiamo pagato sia le tasse che i contributi previdenziali”.
“E’ paradossale che la verifica avvenga a quattro anni di distanza avendo il ministero tutti gli strumenti necessari per un monitoraggio costante”, hanno detto Ivano Zampolli della Uilcom e Dario Carbone della Fials.
“Entro aprile si dovranno avviare le procedure affinché non ci venga addebitato il danno erariale, ma dal punto di vista del diritto del lavoro ci sarà ancora molto da dire, poiché è probabile che ci siano ricorsi”, ha fatto sapere Gianfranco De Cesaris, direttore generale della Fondazione.
In questa occasione sembra che proprio tutti siano con i lavoratori. Il problema è che, comunque, salvo sorprese, saranno loro, a dover fronte alla restituzione. Saranno loro a pagare per colpe di altri. Per buchi di bilancio dei quali non sono minimamente responsabili. Per le “varie irregolarità in merito alla contrattazione aziendale” emerse dalla verifica amministrativo-contabile effettuata dal Ministero dell’economia e delle finanze a settembre 2017. Ecco dunque un nuovo elemento per comprendere la questione.
Un cominicato stampa dell’Usb del Lirico di Cagliari del 2 ottobre conferma che la criticità non é circoscritta all’Arena. Infatti il documento segnala l’esistenza “di gravi irregolarità gestionali amministrative rilevate durante un controllo ispettivo del Ministero dell’economia e delle finanze, avvenuto nel luglio 2017 e comunicate a novembre dello stesso anno”. Irregolarità tra le quali “si rilevano cifre percepite (secondo i rilievi indebitamente) dai lavoratori negli anni 2008-2011 … che la gestione del tempo stabilì di erogare con l’intento di essere riassorbite con il rinnovo del Contratto collettivo nazionale di lavoro, nel frattempo mai avvenuto”. Insomma anche “a Cagliari, lavoratori-capro espiatorio”, dice Massimiliano Ceccanti, corista e sindacalista Usb.
Per il 5 novembre la Cgil Slc ha indetto un presidio davanti alla sede del Mibac, a Roma. “E’ inaccettabile che si mettano ancora in grave difficoltà i lavoratori anziché agire nei confronti delle gestioni, dei sovrintendenti, dei consigli di indirizzo che commettono gli errori”, fanno sapere dal sindacato.
“Il ministero non farà mancare il supporto alle fondazioni lirico-sinfoniche, ma servono piani industriali credibili nei numeri, chiari nella visione strategica e affidabili. Non dobbiamo più gestire emergenze”, ha detto agli inizi di ottobre Bonisoli.
Ma intanto gli attestati di stima e vicinanza ai lavoratori sono tanti. Tantissimi. Compreso quello di chi sulla pagina facebook del Comitato nazionale delle Fondazioni lirico sinfoniche scrive che “la musica non la conosce, ma senza non potrebbe vivere. Forza difendete i vostri diritti”.
E’ ora l’occasione per il ministro di far sentire il suo supporto. Reale, concreto. Altrimenti saranno state solo parole.

È l’ignoranza il vero “potere forte”

La manifestazione degli studenti in piazza contro il governo, Roma, 12 ottobre 2018 ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Ogni anno l’istituto di ricerca Ipsos MORI diffonde il suo Indice dell’ignoranza, una rilevazione statistica che valuta l’ignoranza (intesa nel senso letterale di mancata conoscenza) dei cittadini nei confronti della realtà nazionale che li circonda. Scritto così, ci scommetto, a qualcuno verrà in mente un profluvio di dati ritenuti barbosi e poco importanti. E invece no. Lì dentro c’è il momento in cui siamo, piaccia o non piaccia, e toccherà farci i conti, prima o poi.

Nel 2014, solo per fare un esempio, gli italiani erano convinti che nel loro Paese i disoccupati fossero il 49 per cento. Erano il 12. Che gli over 65 fossero il 48 per cento. Erano il 21. Che gli immigrati fossero il 30 per cento. Erano il 7. Che le ragazze madri fossero il 17 per cento. Erano lo 0,5. Dal 2014 ad oggi l’Italia svetta nella classifica dei Paesi ignoranti indisturbata, con qualche breve slancio di indignazione o di contrizione che dura per un paio di giorni negli editoriali nostrani per poi risopirsi placidamente.

Siamo tra i pochi Paesi al mondo, probabilmente l’unica nazione tra quelle sviluppate, che non considera il sapere come un traguardo: nel periodo di crisi economica l’Italia ha tagliato del 10% la spesa per la cultura di fronte a una media del 2% rispetto agli altri capitoli di spesa. Mentre in Giappone i maestri e i professori sono considerati i lavoratori fondamentali per il Paese da noi la parola professore (con tutte le sue varianti professorone professorino) è usata in senso dispregiativo. Sembra incredibile, vero?

Come dice chiaramente il Rapporto sulla Conoscenza 2018 dell’Istat siamo ultimi in Europa per percentuale di popolazione dai 25 ai 64 anni con in mano un titolo di studio terziario, vale a dire almeno una laurea: siamo l’unica nazione  in cui i laureati sono il meno del 20% della popolazione. Dietro alla Grecia e alla Romania. Sempre l’Istat ci dice che i laureati tra l’altro non trovano spazio nel nostro sistema produttivo: se vengono assunti spesso vengono demansionati. Siamo l’unico Paese in Europa che negli ultimi dieci anni ha visto decrescere i posti che richiedono alta specializzazione.

E se è vero che il  41,1% degli italiani tra i 15 e i 64 anni ha solo la licenza media e ha basse competenze in lettura e matematica è altresì vero che parliamo di un’enorme disparità tra Nord e Sud, tra centro e periferia. Non è questione di cultura: è questione di democrazia. Non è questione di scuola: è una questione tutta politica che ha a che fare con l’uguaglianza. Immaginate di mettere nella scuola i soldi buttati in manovre di propaganda. Cambierebbe tutto. Ma ci vorrebbe una classe dirigente capace di guardare oltre alla scadenza elettorale di qualche mese, ci vorrebbe gente dallo sguardo lungo, gente di cultura, appunto. E infatti si taglia ancora, la scuola.

Buon lunedì.

Uganda, chi ha paura del Paese senza frontiere

Ragazzo sud sudanese tra le capanne dell’insediamento. Foto di Giacomo Rota

Nello Stato subsahariano trovano riparo un milione e mezzo di rifugiati, principalmente del Sud Sudan. A tutti viene dato un pezzo di terra. In cambio, gli autoctoni ricevono il 30 per cento degli aiuti umanitari. Un modello che funziona, ma il taglio dei fondi dall’estero rischia di farlo naufragare.

Ora faccio io una domanda a voi: com’è stato possibile arrivare ad una simile violenza?». È quello che ci chiede Albert, un padre di famiglia sud sudanese arrivato da poco ad Omugo, estensione del Rhino Camp, uno degli insediamenti di rifugiati del distretto di Yumbe, nel nord-ovest dell’Uganda. Ha camminato per settimane senza una gamba e ora ci guarda quasi con rabbia. Non eravamo pronti a una simile domanda e non….

Il reportage di Francesca Giani prosegue su Left in edicola dal 2 novembre 2018


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Donne e bambini sud sudanesi a Bidi Bidi (West Nile), uno degli insediamenti profughi più grandi al mondo.
Foto di Giacomo Rota

Ragazzo sud sudanese tra le capanne dell’insediamento.
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Approvigionamento di legna e acqua a Bidi Bidi: nel campo più di un quinto del fabbisogno idrico è erogato tramite camion cisterna.
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La sala di registrazione di Radio Pacis (Arua): due speaker in diretta durante il notiziario del mattino. L’emittente trasmette in oltre cinque lingue ed è sentita anche in Sud Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo.
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L’immaginazione in scena con Camus

Il 7 novembre esce per Bompiani la ristampa di Tutto il Teatro di Camus. Quattro opere (Il malinteso, Caligola, I giusti, Lo stato d’assedio) per chiunque voglia approfondire lo studio dell’autore che fin da Lo straniero ha dotato la letteratura francese di un punto di vista profondamente originale. Nel momento storico in cui viviamo, andare alla scoperta delle opere teatrali dell’autore francese d’Algeria può essere un viaggio affascinante. Nato in Algeria nel 1913, Albert Camus fu un figlio della Francia coloniale, crebbe cioè nei quartieri popolari di Algeri ma studiando e pensando in francese, riconoscendosi quindi, inizialmente, nella cultura del Paese d’origine del padre, morto in trincea quando Camus aveva solo un anno. Poi per tutta la vita, in Francia, quando fu partigiano durante la seconda guerra mondiale, anche nel difficilissimo momento della guerra per l’indipendenza dell’Algeria, Camus rimase molto legato all’Africa e al mar Mediterraneo, conservando in sé una sorta di coesistenza tra le due culture d’appartenenza… che forse furono tre, dato che la madre e la nonna, che vivevano con lui ad Algeri, erano di origine spagnola.
Riuscì a mantenere, o a ritrovare, una distanza prolifica dalla cultura francese che gli permise poi di intravedere e denunciare i limiti e la pericolosità del pensiero esistenzialista proprio per le sue radici multiculturali? La ricerca è aperta…

L’articolo di Catherine Penn e Ludovica Valeri prosegue su Left in edicola dal 2 novembre 2018


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