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Denaro a sufficienza e una stanza tutta per noi. La lezione di Virginia Woolf 76 anni dopo

Denaro a sufficienza, e una stanza tutta per me. Devo avere denaro a sufficienza, e una stanza tutta per me. Dev’essere stata quell’ironia lucida e piena di vita di Virginia Woolf a scatenare dentro molte di noi il rifiuto di quella convenzione tanto repressiva quanto dominante che ci vuole ridotte a madri, sorelle o figlie. Subalterne, appendici degli uomini e dei loro privilegi. Ribellarsi, rivendicare uguaglianza, pari dignità e pari opportunità. Senza mezzi termini, Virginia Woolf lo ha saputo affermare nei primi del ‘900, quando la creatività femminile era condannata a restare nell’ombra. A meno che, scriveva Virginia, non si riuscisse a costruire «una stanza tutta per sé».

E continuava: «Fra cento anni, d’altronde, pensavo giunta sulla soglia di casa, le donne non saranno più il sesso protetto. Logicamente condivideranno tutte le attività e tutti gli sforzi che una volta erano stati loro negati. La balia scaricherà il carbone. La fruttivendola guiderà la macchina. Ogni presupposto basato sui fatti osservati quando le donne erano il sesso protetto sarà scomparso; ad esempio (in strada stava passando un plotone di soldati) l’idea che le donne, i preti e i giardinieri vivano più a lungo. Togliete questa protezione, esponete le donne agli stessi sforzi e alle stesse attività, lasciatele diventare soldati, marinari, camionisti e scaricatori di porto, e vi accorgerete che le donne muoiono assai più giovani e assai più presto degli uomini; cosicché si dirà: “Oggi ho visto una donna”, come si diceva “Oggi ho visto un aereo”. Può accadere qualunque cosa quando la femminilità cesserà di essere un’occupazione protetta, pensavo, aprendo la porta».

Cent’anni ancora non sono passati, da quel 28 marzo del 1941 in cui Virginia Woolf mette fine all sua esistenza. Ma in più di un caso ci aveva visto giusto. È vero infatti, che «potrà accadere qualunque cosa il giorno in cui la femminilità cesserà di essere un’occupazione protetta». Persino che milioni di donne invadano le piazze di mezzo mondo, come è accaduto lo scorso 8 marzo.

Al civico 22 di Hyde Park Gate, Londra, il 25 gennaio del 1882 nasce Adeline Virginia Woolf. Sir Leslie Stephen è un autore e un critico, uno storico e un alpinista, Julia Prinsep-Stephen è una modella nata in India e poi rientrata in patria, e posa per i più noti pittori di Londra, come Edward Burne-Jones. Entrambi sono vedovi alle seconde nozze, la nuova famiglia sarà composta da sette fratelli, cinque maschi e due bambine, tra cui Virginia che, insieme alla sorella Vanessa, come regola educativa vittoriana comanda, viene istruita in casa mentre ogni giorno vede i suoi fratelli maschi uscire per frequentare la scuola prima e l’università di Cambridge poi. La madre le dà lezioni di latino e francese, il padre le consente di accedere liberamente alla biblioteca di famiglia.

«Mi viene da pensare che questo stato, questo mio stato di depressione, è lo stato abituale della maggior parte della gente», appunta Virginia sul suo diario. L’inclinazione letteraria non tarda ad arrivare. Insieme al fratello Thoby, Virginia mette in piedi l’Hyde Park Gate News, un giornale domestico su cui scrivono storie inventate. Ma nemmeno i turbamenti tardano ad arrivare nella sua vita. Ad appena sei anni è vittima di una tentata violenza sessuale da parte di uno dei suoi fratellastri, ne scrive nel racconto autobiografico Momenti di essere e altri racconti, riportando degli abusi subiti da lei e dalla sorella Vanessa Bell da parte dei fratellastri George e Gerald. Qualche anno dopo, appena tredicenne, perde la madre, e due anni dopo la sorellastra Stella. Nella vita di Virginia fa ingresso la nevrosi, una malattia all’epoca non facilmente controllabile, e che turba la sua attività creativa per qualche anni. Fino ai primi anni del ‘900. Virgiana ha poco più di 20 anni quando dalle pagine del Times Litterary Supplement, inizia a conquistare la stima di molti come scrittrice. È un’insegnante di storia al Collegio di Morley.

«L’arte è libertà da ogni predicazione – le cose in se stesse, la frase bella in se stessa; mari sconfinati; narcisi selvatici che appaiono prima che la rondine osi». Dopo la morte del padre, nel 1904, Virginia si sente libera di lasciare la casa natale di Hyde Park Gate e, assieme al fratello Thoby e alla sorella Vanessa, si trasferisce nel quartiere londinese di Bloomsbury, in Gordon Square. Lì, ad attenderla, c’è un gruppo di promettenti intellettuali. Chi in quegli anni gravita intorno alla fondazione del Bloomsbury set si accinge a dominare la vita culturale inglese per almeno un trentennio. Ci si vede tutti i giovedì sera e si discute di arte, di storia e di politica. Il fervore politico di Virginia cresce, adesso frequenta le suffragette e dà ripetizioni alle operaie la sera in un collegio di periferia. Il matrimonio, per lei, arriva a trent’anni quando sposa Leonard Woolf, un teorico politico. Ma ai successi letterari – pubblica il suo primo racconto, The Voyage Out – e alle novità in amore, si alternano le crisi psichiche e una forma di depressione che la induce a un tentativo di suicidio.
Nel 1917 apre una sua casa editrice, insieme al marito Leonard: la Hogarth Press diventa la casa dei nuovi talenti letterari, come Katherine Mansfield e T. S. Eliot.

«Se il mio cervello, distratto da un’ansia o da altra causa, deve distogliersi dalla carta bianca, è come un bimbo sperduto, che gira per casa e siede a piangere sull’ultimo gradino», appunta ancora sul suo diario Virginia. La sua produzione letteraria non si arresta: nove romanzi, undici racconti brevi e diciannove saggi, di cui quattro postumi. I lavori di Virginia Woolf sono un successo dietro l’altro. E i suoi scritti si fanno sempre più intrisi di quel movimento femminista inglese in cui ha preso a militare, battendosi per il suffragio femminile.

il manoscritto originale di A Room of One’s Own

«Avete idea di quanti libri si scrivono sulle donne in un anno? Avete idea di quanti sono scritti da uomini? Sapete di essere l’animale forse più discusso dell’universo?», si chiede Virginia scrivendo le pagine che cambieranno molto nella storia delle donne. Nel 1929, infatti, Virginia Woolf pubblica Una stanza per sé, un romanzo – o meglio un saggio narrativo – in cui analizza la discriminazione femminile attraverso la vita di Judith – che nel romanzo è la sorella di William Shakespeare – una donna dotata di grandi capacità, però limitate dai pregiudizi dell’epoca. E tra quelle pagine emergono i riferimenti espliciti a Jane Austen, alle sorelle Brontë, ad Aphra Ben e George Eliot. Tutte letterate riuscite a emanciparsi da quei maledetti pregiudizi dell’epoca.

«Se non vivessimo audacemente, prendendo il toro per le corna e tremando sui precipizi, non saremmo mai depressi; ma già saremmo appassiti, vecchi, rassegnati al destino». Le crisi depressive non danno tregua a Virginia Woolf. Che il 28 marzo 1941 si getta nel fiume Ouse, non molto lontano dalla sua casa.

La Spd perde nel Saarland, in Germania. Die Linke attacca Schulz: «Meno parole e più concretezza»

epa05723614 Martin Schulz, President of the European Parliament, reacts during the European Parliament meeting in Strasbourg, France, 17 January 2017. During the meeting, the Parliament voted for a new president, as Schultz announced that he will run for German Parliament in the upcoming German elections. EPA/PATRICK SEEGER

Domenica 26 marzo si  sono tenute le elezioni per il rinnovo del Parlamento  regionale del Land tedesco, Saarland. L’Unione cristiano democratica (Cdu) di Angela Merkel è riuscita a difendere il primato, distanziando il Partito socialdemocratico (Spd) di ben 11 punti percentuali. Il risultato elettorale sta facendo il giro delle prime pagine europee.

In effetti, le elezioni della regione Saarland, rappresentavano il primo banco di prova in vista delle elezioni generali di settembre. Nonostante si tratti della regione più piccola della Germania, gli occhi erano tutti puntati sul potenziale “effetto Schulz”, ovvero su un recupero della Spd dovuto al cambio di leadership tra i socialdemocratici.

Invece, tutti i partiti di sinistra hanno perso consensi rispetto alla scorsa tornata elettorale. Il partito della sinistra radicale, Die Linke, ha raggiunto il 13 per cento. Entra in Parlamento la formazione di destra estrema, Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania, Afd), mentre non ce la fanno i liberali. In calo netto anche i Verdi.

Il Primo ministro uscente, Annegret Kramp-Karrenbauer (Cdu), si è detta sorpresa del risultato e ha spiegato il flop della Spd così: «Stringersi troppo alla Die Linke è qualcosa che in questa regione non funziona». In effetti, la Spd e Die Linke si erano parzialmente avvicinati durante la campagna elettorale. Ma è bastato il risultato negativo per riaprire la diatriba storica tra le formazione radicale e quella socialdemocratica: «Schulz deve essere più concreto e spiegare cosa vuole fare contro la disuguaglianza nel Paese. Altrimenti la Spd andrà incontro ad altre delusioni», ha detto Sahra Wagenknecht (Die Linke).

Nella Cdu, il risultato consolida la leadership di Angela Merkel, di recente al centro delle critiche dell’ala più radicale dell’Unione: «Il risultato dimostra che bisogna affidarsi al Cancelliere», ha affermato il leader dell’Unione cristiano-sociale (Csu), Horst Seehofer.

Sebbene, Schulz abbia avuto poco a che fare con la campagna elettorale nel Saarland, è inevitabile che la stampa metta in relazione la sconfitta con il leader nazionale della Spd. L’ex Presidente del Parlamento europeo deve dimostrare velocemente che dietro alle parole, esiste una prospettiva credibile di cambiamento. Il 14 maggio si vota nella regione Nordrhein-Westfalen, il Land più grande della Germania. Una sconfitta simile a quella subita nel Saarland, rappresenterebbe un colpo fatale per l’entusiasmo appena rinato nella Spd.

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Cinque notizie: l’arresto di Navalny a Mosca e altre cose da sapere

epa05871922 Russian riot policemen detain a demonstrator during an opposition rally in central Moscow, Russia, 26 March 2017. Russian opposition leader Alexei Navalny called on his supporters to join a demonstration in central Moscow despite a ban from Moscow authorities. Throughout Russia the opposition held the so-called anti-corruption rallies. According to reports, dozens of demonstrators have been detained across the country as they called for the resignation of Russian Prime Minister Dmitry Medvedev over corruption allegations. EPA/MAXIM SHIPENKOV

Alexey Navalny si è fatto un nome in Russia nel denunciare la corruzione. Dal 2009, l’attivista quarantenne divenuto leader dell’opposizione de facto, chiede cambiamenti utilizzando il suo blog. Ha corso per la poltrona di sindaco di Mosca ottenendo il 27% a sorpresa – e sostenendo che senza brogli la sua percentuale sarebbe stata più alta – e ha una storia complicata di alleanze politiche, che come spesso capita in Russia si formano, disfano, vengono disfatte dal potere (a colpi di esclusione dalle procedure elettorali, arresti, omicidi). Navalny è forse la figura politica meglio in grado di mettere in difficoltà Putin e ha annunciato la candidatura alle elezioni del 2018. Sempre che una condanna a cinque anni pendente sul suo capo non gli impedisca di correre. Ier, mentre partecipava a manifestazioni anti corruzione contro Dimitri Medvedev, il premier ed ex presidente, che si scambia tuolo con Putin da una decina di anni, Navalny è stato arrestato. Era capitato già diverse volte, in passato l’accusa era di approprazione indebita. L’arresto di ieri è dovuto alla non autorizzazione delle manifestazioni. Gli arrestati sono centinaia, e tra i fermati c’è anche un giornalista di The Guardian, preso perché facvea foto mentre la polizia effettuava gli arresti. Gli uffici della fondazione di Navalny sono stati perquisiti dopo l’arresto. Stati Uniti ed Europa hanno protestato per gli arresti. Matteo Salvini, invece, ha spiegato che le manifestazioni non erano autorizzate e che, dunque, gli arresti sono giustificati.

Alexei Navalny prima dell’arresto

Niente effetto Schulz nel Saarland

Il piccolo Lander del sud tedesco dove si votava per il rinnovo del parlamento locale. La CDU di Angela Merkel, che governava in coalizione con la Spd, ha vinto, guadagnando 5 punti percentuali, mentre il partito dell’ex presidente dle parlamento europeo ha perso pochi punti. Non è necessariamente un test nazionale, ma segnala che non c’è una dinamica clamorosa nello spostamento elettorale verso Schulz. Al dato negativo per la Spd si associa qullo dei Verdi, che non passano la sogila del 5% per eleggere rappresentanti e il successo della destra xenofoba di Alternative fur Deutschland, che ha preso il 6,2%.

I ministri europei, Dublino, la Libia e l’immigrazione

Oggi i ministri della Giustizia e degli Interni si vedono a Bruxelles per discutere – soprattutto – di come implementare l’agenda sulle politiche migratorie approvata a Malta lo scorso 3 febbraio. Tra le cose in agenda c’è il pessimo accordo con la Libia tanto cercato dal ministro degli Interni italiano Minniti e tanto criticato dalle organizzazioni umanitarie, la riforma del sistema di asilo comunitario (il sistema Dublino) e il rafforzamento delle frontiere esterne. Qui l’agenda del meeting.

Gli Usa contro l’Iran in Yemen?

Dopo la bruciante sconfitta sulla cancellazione tentata della riforma sanitaria Obama, la presidenza Trump cerca di rimettere assieme i cocci. Il mancato voto sulla riforma della riforma sanitaria segnala divisioni interne al suo partito che torneranno, con ogni probabilità, anche quando si tratterà di approvare la riforma fiscale trumpiana. A proposito di inversione di marcia rispetto a Obama, Trump sta chiedendo al Congresso di poter aiutare gli Stati del Golfo nella guerra in Yemen contro gli hutu – ne abbiamo parlato la scorsa settimana su Left. Obama ha già partecipato a quella guerra in qualche forma, ma la richiesta di Trump segnala la volontà di rendere la presenza più visibile e mostrare un atteggiamento più duro nei confronti dell’Iran. In questo senso è una inversione a U rispetto alle politiche del suo predecessore.

Due buone notizie londinesi

Sabato scorso a migliaia sono scesi in piazza per una manifestazione pro-Europa. Dopodomani il governo britannico farà scattare l’articolo 50 dei trattati europei che mette in moto il processo di Brexit.

Ieri questa catena umana di donne per la maggior parte musulmane, ha dato un segnale alla città: la comunità musulmana non è per niente contenta quando qualche terrorista decide di uccidere nel nome della religione.

Alatri, l’omicidio di Emanuele e quel modo di trattare le donne

Emanuele Morganti, 20 anni, in una foto tratta dal profilo facebook. +++ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++

Morire a vent’anni per mano del branco. È accaduto ancora: la notte tra venerdì e sabato ad Alatri (Frosinone) Emanuele Morganti è stato aggredito con calci pugni e una spranga di ferro subendo lesioni gravissime alla testa. Erano le due di notte e davanti al Mirò, locale in piazza Regina Mergherita, si è conclusa tragicamente una lite iniziata all’interno, dopo che – stando alle prime ricostruzioni – Emanuele aveva difeso la sua ragazza che veniva importunata da un giovane probabilmente alterato.

Gli aggressori sarebbero stati una decina, italiani e stranieri, in queste ore interrogati dal pubblico ministero Vittorio Misiti. Uno di loro avrebbe inferto i colpi che hanno causata le fratture multiple e il trauma al cranio e alla cervicale con una chiave inglese o qualcosa di simile. Non è bastato il trasporto in ospedale, prima al pronto soccorso locale e poi in elicottero al Policlinico Umberto I di Roma, e il successivo intervento chirurgico. Gli organi di Emanuele Morganti sono stati espiantati per la donazione. Ad Alatri era prevista una fiaccolata rinviata in seguito alla notizia della sua morte.

Nelle stesse ore a Torino un uomo ha visto la sua fidanzata in discoteca in compagnia di un altro uomo e ha accoltellato alla coscia e all’addome quest’ultimo, per fortuna senza raggiungere organi vitali. La notte precedente a Roma – davati allo stesso locale dell’Euro dove un mese prima c’era stata una sparatoria – la lite tra due ragazzi romani è finita con l’accoltellamento al fianco di uno dei due.

Non sempre c’è di mezzo la morte di una persone, come è accaduto questa volta ad Alatri, ma le cronache dei fine settimana sono spesso infarcite di liti e aggressioni a seguito di “apprezzamenti pesanti”, “gelosie accecanti”, “rivalità in amore”. “C’era di mezzo una ragazza” è la frase che sentiamo spesso pronunciare. Certo, spesso ci sono di mezzo l’abuso alcol e l’uso di droghe, ma episodi del genere cominceranno a diminuire quando cominceremo a sentir dire che c’erano di mezzo uomini incapaci di relazionarsi in maniera sana, tra loro e con le donne.

I am a passenger

<h3 style=”text-align: center;”><a href=”https://left.it/category/vignette”><strong>TUTTE LE VIGNETTE</strong></a></h3>

La lezione di Giusi (Nicolini)

epa05761476 Spyridon Galinos (L), Mayor of Lesbos, and Giusi Nicolini, Mayor of Lampedusa and Linosa, pose for a photo in Stockholm, Sweden, on Jan. 30, 2017. Galinos and Nicolini are in Stockholm to receive the 2016 Olof Palme Prize. The prize is awarded to the two mayors 'for their inspiring leadership in one of the most difficult periods of our time, thereby having saved thousands of lives and given hope and belief in the future'. The annual prize is awarded for 'an outstanding achievement in the spirit of Olof Palme' and consists of a diploma and 75.000 USD. EPA/Jonas Ekstromer SWEDEN OUT SWEDEN OUT

Potrebbe sembrare una storia minima eppure Giusi Nicolini ancora una volta ha dato una lezione di umanità in un periodo in cui la politica sembra specializzarsi nell’essere feroce per poter funzionare. E l’occasione del suo incontro con Salvini dei giorni scorsi ci riporta fortunatamente fuori dal recinto dei rodei, della bava, della ferocia e ci abitua tutti a essere un po’ più umani.

I fatti, dunque: nel suo tour delle provocazioni Matteo Salvini decide di fissare una tappa a Lampedusa per toccare con mano il pertugio da cui (secondo la sua millantata teoria) arrivano tutti i mali italiani. Dopo Napoli Salvini ha capito bene che farsi contestare è il modo migliore per meritare uno spicchio di visibilità: cosac’è di meglio che polemizzare con i rifugiati appena sbarcati, deve avere pensato.

Eppure Lampedusa (che è un’isola con un cuore che c’è da sperare che diventi il cuore di tutta la penisola nostra) ha una storia recente che le impedisce di prendere sul serio le salvinate: “Arriva Salvini? Bene, accoglieremo anche lui come accogliamo tutti” è la reazione della sindaca Giusi Nicolini. La solidarietà del resto funziona se è solidale con tutti: essere solidali solo con i sodali è altro, è la giustificazione dell’inizio del clan. Non vale, no.

Tant’è che il salvino Salvini alla fine è rimasto disinnescato e alla fine gli è scappato addirittura da dire che “servirebbero corridoi umanitari” per chi ha bisogno di sfuggire dalla guerra (aggiungendo ovviamente il “solo per chi ha bisogno davvero”). “Non scrivetelo però”, ha detto ai giornalisti, come se non sapessimo che il leader leghista proprio sul prurito della stampa ha costruito tutta la propaganda di questi anni.

Ma non è Salvini il punto, ora: quello che ci interessa è che Giusi, da sindaca ma soprattutto da donna che visita tutti i giorni il dolore, ci ha riportato tutti nella giusta misura delle cose. Di fronte al dramma che si consuma in questa Europa diventata un cimitero sotto il mare le provocazioni e i razzismi contano poco di più dell’alito di schifo e indignazione che si meritano: nessuno dei salvati e dei sopravvissuti che si trascinano sulle nostre spiagge ha un reale interesse per le provocazioni bavose del razzista di turno. Qui i temi sono ancora la distruzione, la morte, gli orfani, le vedove e le ferite dell’indifferenza. Se avessimo il cuore abbastanza adulto per continuare a contenere il dramma non ci sarebbe nemmeno lo spazio per le salvinate di chiunque. E Giusi ce l’ha ricordato.

Buon lunedì.

Investimenti green, edilizia sociale, lavoro. Un New deal per una nuova Europa

La bandiera dell'Europa all'esterno di palazzo Senatorio in Campidoglio, Roma, 21 marzo 2017. ANSA/ ANGELO CARCONI

«Siamo qui per rispondere a due domande» ha detto Yanis Varoufakis presentando “Il tempo del Coraggio” al teatro Italia di Roma. «La prima domanda è “Cosa bisogna fare?”. La seconda: “Come si può fare?”». La risposta è contenuta nello European New Deal di DiEM25: un’agenda politica innovativa «in grado di salvare l’Europa e, cosa ancora più importante, in grado di rendere l’Europa meritevole di essere salvata». È proprio per uscire dalla narrazione – imposta dall’alto – di una auterity che non ha alternative, che l’incontro di Roma, al termine di una lunga e difficile giornata, ha messo in fila una serie di misure in grado di dimostrare «come la crisi economica e sociale europea, inclusa quella dell’euro, potrebbe essere stabilizzata subito, riducendo le disuguaglianze e democratizzando la politica economica. Vediamo, in sintesi alcune delle misure del New deal europeo presentate all’assemblea di DiEM25 e contenute del libro di Lorenzo Marsili e Yanis Varoufakis “Il terzo spazio. oltre establishment e populismo”, edito da Laterza.

Investimenti green. L’obiettivo, spiegano Varoufakis e Marsili, è «aumentare la produttività verde in tutti i settori in ogni parte d’Europa». In tutto il continente i risparmi aumentano e gli investimenti nell’economia reale sono troppo bassi, e questo causa stagnazione e disoccupazione. Come sbloccarli? Si potrebbe partire dai 60-80 miliardi che mensilmente la Bce immette nel sistema finanziario e “dirottarli” per garantire l’acquisto di obbligazioni speciali, con interessi prossimi allo zero, al servizio di un piano di riconversione ecologica dell’economia basato su efficienza energetica e rinnovabili, agricoltura sostenibile, riciclo e riuso. E «dovrebbero essere dei comitati ad hoc, composti in parte da politici locali, in parte da esperti, in parte da cittadini del territorio, a valutare la sostenibilità e la desiderabilità dei progetti presentati, privilegiando così indirettamente progetti diffusi e capillari rispetto a grandi opere».

Contro la povertà. «Dobbiamo garantire che tutti gli europei possano godere del diritto ai servizi e beni essenziali (cibo, alloggio, trasporto, energia), a un lavoro pagato, all’accesso all’edilizia popolare, a educazione e sanità di alta qualità e a un ambiente sostenibile in cui vivere» dicono Varoufakis e Marsili nel loro libro, mettendo dunque al centro un Programma di Solidarietà Sociale europeo sulla falsariga dei food stamps americani. Basterebbe, ad esempio, che i profitti sui coupon del debito pubblico dei vari Paesi dell’Eurozona acquistati dalla Bce con il programma di quantitative easing venissero usati per finanziare un fondo di emergenza per un piano contro la povertà. Ogni mese, i più poveri fra gli europei «troverebbero un assegno nella posta firmato dal presidente della Banca centrale europea, proprio come avviene negli Usa».

Edilizia sociale. L’accesso all’abitazione, stando al New deal europeo di DiEM25, va invece garantito con un programma di edilizia sociale pubblica e proteggendo i proprietari di casa nel caso non riescano a far fronte alle rate del mutuo «permettendogli di rimanere nella propria abitazione a fronte di un canone concordato e deciso a livello locale».

Lavoro. Lavori nel settore pubblico e non-profit gestiti a livello locale, pagati il necessario per vivere dignitosamente. Si lavora 4 giorni a settimana «per lasciare tempo libero per la crescita personale, la ricerca di lavoro e per iniziare a rendere standard la settimana corta» spiegano gli autori. Questo produrrebbe un miglioramento dell’economia e di conseguenza la possibilità di trovare lavori più appaganti nel settore privato.

Tasse. Ma come si sostengono queste misure? La risposta di DiEM25 è, intanto, che quando ha voluto l’Europa le risorse le ha trovate (vedi il salvataggio delle banche) e poi che una “carbon tax” sulle attività più inquinanti favorirebbe la conversione ecologica e sposterebbe risorse su un piano straordinario di garanzia del lavoro. Altra proposta è quella di depositare una quota di ogni Opa in un fondo comune a controllo pubblico, con una crescente partecipazione azionaria nelle aziende più innovative. I dividendi rappresenterebbero la base per un dividendo di base universale: parte dei profitti tornerebbero così alla collettività. Altra proposta è una tassa sul valore di mercato del terreno utilizzato dalle grandi aziende (non agricole) inversamente proporzionale al numero dei lavoratori utilizzati. In altre parole, paga più tasse chi crea meno occupazione in relazione al suolo che “consuma”, come le imprese che fanno – e faranno sempre più – ricorso ai robot e all’intelligenza artificiale.

Del futuro dell’Europa parliamo su Left in edicola

 

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La sfida di Klaver inizia ora. Ed è contro il razzismo istituzionale

GroenLinks candidate Jesse Klaver visits a high school in Amsterdam, on March 1, 2017, during his campaign for the upcoming national elections. Founded in 1990, the "GreenLeft" party is led by Jesse Klaver, at 30 the country's youngest party leader. Amid a certain weariness with traditional politics, it has drawn increasing support, particularly among young voters. / AFP PHOTO / ANP / Remko de Waal / Netherlands OUT (Photo credit should read REMKO DE WAAL/AFP/Getty Images)

Il razzismo istituzionale continua a essere un problema nei Paesi Bassi. Lo dimostrano le statistiche sulla segregazione sul mercato del lavoro e nelle scuole. Eppure, paradossalmente, la scorsa campagna elettorale olandese è stata contraddistinta dal tema “identitario”. Merito di Geert Wilders, certo, ma anche degli altri partiti che hanno seguito l’agenda del leader populista. Due giorni dopo le elezioni che passeranno alla storia per la mancata vittoria del Partito per la libertà (Pvv), il partito dell’islamofobo Wilders, Randeep Ramesh ha titolato così per il The Guardian: “Geert Wilders è stato sconfitto, al costo di riempire l’Olanda di razzismo”. Ed è forse per un curioso caso del destino che, proprio tre giorni dopo il voto, sia iniziata la “Settimana europea contro il razzismo”. Come a dire: al di là delle elezioni di turno, i problemi sociali continuano a esistere. Ma non importa. Il mondo ha gioito. E a sinistra è ufficialmente nata una nuova stella: Jesse Klaver.

Sulle pagine di Left in edicola da sabato, vi raccontiamo un viaggio tra gli elettori dei verdi di GroenLinks, nella comunità musulmana e tra chi ha perso la fiducia in una sinistra che gioca troppo con le parole.

Il servizio integrale lo trovate su Left in edicola

 

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Trent’anni di grunge. Kim Thayil ci racconta i suoi Soundgarden

Riff che entrano dentro il cervello, feroci e repentini, con precisione e decisione. Quando nel 1988 i Soundgarden fanno irruzione nella musica, con Ultramega ok, nulla rimane lo stesso. Tantomeno il grunge. È il 1984 quando la voce di Chris Cornell, il basso di Hiro Yamamoto (oggi tra le dita di Ben Shepherd) e le corde di Kim Thayil si incontrano, poco dopo arriverà la batteria di Matt Cameron. Così nascono i Soundgarden, rubando il nome a un’installazione di Douglas Hollis, a Seattle, dove il soffiare del vento tra i tubi di metallo e i pannelli produce insoliti suoni. I “quattro di Seattle” in trent’anni hanno prodotto una dozzina di lavori, tra album ed Ep, e venduto più di 20 milioni di copie in tutto il mondo. Del loro ritorno, di questi trant’anni e della capitale del rock sul Pacifico abbiamo chiesto a Kim Thayil. Padre del “drop D tuning”, l’accordatura “scordata” tipica del grunge, il centesimo miglior chitarrista di tutti i tempi, a giudizio di Rolling Stone.

Siete considerati tra i musicisti più tecnici e precisi al mondo. E la leggenda narra che nel 1988 non foste convinti del missaggio – soprattutto Cris Cornell – ma che l’immediato successo vi ha impedito di remixarlo e ristamparlo. È per questo che adesso tornate con Ultramega ok, vi pesava tanto quella “bassa qualità”?
Non credo che la competenza tecnica, o la precisione, sia una caratteristica importante in ciò che facciamo in modo creativo. In realtà, non è un fattore significativo nel successo di molti dei generi “popolari” tra cui rock, blues, country, R & B, hip hop, ecc… Può essere utile, ma non è necessario. Perciò, in questo caso semplicemente non ci piaceva il mix originale di Ultramega Ok. Perché, collettivamente, i Soundgarden hanno ritenuto che non rappresentasse al meglio il nostro sound, né la forza delle canzoni.

L’intervista a Kim Thayil e la piccola storia grunge dei 30 di Seattle su Left in edicola

 

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L’offensiva mediatica di Assad e la guerra senza fine in Siria

TOPSHOT - Mohammed Mohiedin Anis, or Abu Omar, 70, smokes his pipe as he sits in his destroyed bedroom listening to music on his vinyl player, gramophone, in Aleppo's formerly rebel-held al-Shaar neighbourhood. / AFP PHOTO / JOSEPH EID (Photo credit should read JOSEPH EID/AFP/Getty Images)

Tra il 1975 e il 1990 il Libano è stato attraversato da guerre civili che erano assieme guerre per procura tra Urss e Stati Uniti, guerre confessionali e anche regionali nelle quali hanno giocato la parte del leone Israele e la Siria – e dove le centinaia di migliaia di profughi palestinesi sono stati assieme vittime e attori. Vi sembra familiare come descrizione di un Paese nel caos e alla rovina? In Siria siamo al sesto anniversario di una guerra che ha già fatto mezzo milione di morti e messo in fuga milioni di persone e la fine non sembra vicina. Su Left in edicola cerchiamo di dare un quadro analitico di una situazione ingarbugliata: alleanze, disegni strategici, errori e ragioni per cui l’opposizione qaedista è più forte delle altre – c’entra molto il modo in cui Assad e i Paesi del Golfo, che pure si combattono, l’hanno aiutata direttamente o indirettamente.

La mappa della Siria qui sotto mostra le divisioni religiose e comunitarie del Paese, che sono – solo in parte – una chiave di lettura possibile. Prima della guerra molte città, a Damasco in particolare, infatti, i vari gruppi siriani convivevano. La mappa è utile per capire il futuro: gli spostamenti forzati di popolazione stanno infatti accentuando il carattere etnico delle varie aree del Paese. Nell’area cristiana, al confine con l’Iraq, vivono anche gli yazidi.

Nell’infografica sono invece rappresentate le varie forme prese dal conflitto siriano: chi sostiene chi, e chi combatte chi.

Il servizio integrale lo trovate su Left in edicola

 

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